giovedì 17 aprile 2025

Saved (1980)

Secondo capitolo gospel di Bob Dylan

 

Nessuno può salvare Dylan da sé stesso, nemmeno Dylan stesso. Il problema è che il cantautore americano non ha nessuna intenzione di fare sconti a nessuno, quando entra in studio per registrare il suo ventesimo disco. SAVED è per molti versi il sequel di Slow Train Coming che lo aveva preceduto meno di un anno prima. Eppure nonostante la produzione di Barry Beckett e Jerry Wexler e le registrazioni realizzate nuovamente al Muscle Shoals Sound Studio, le differenze sono nette fin dalla prima traccia. Al disco collaborano Tim Drummond, Jim Keltner e Fred Tackett, motivo per cui il disco ha gran bel tiro, che gli permette di esplorare, se possibile in maniera più radicale e profonda, l'ossessione dylaniana per il gospel. Nella migliore delle ipotesi si tratta di un solido e nervoso blues rock, con alcuni degli episodi musicalmente più vibranti di tutto il repertorio. Il problema, se si problema si può parlare, è derivato da una certa allegoria e da testi che sono inequivocabilmente in debito verso il Nuovo Testamento. Bob Dylan è entrato in una fase della sua carriera in cui ha smesso di chiedersi cosa possa volere il pubblico. Pensa a sé stesso e tira dritto. Col senno di poi questo è uno di quei dischi che poteva restare nel cassetto. 

Eppure ci sono aspetti che lo rendono unico, meritevole di fare da contraltare alla sua produzione in studio più celebrata e iconica. Del resto appena dopo Desire il Nostro aveva iniziato a produrre lavori che la critica faticava a comprendere e a mettere a fuoco con analisi obiettive ed equilibrate. Sono passati appena cinque anni dal suo ultimo vero capolavoro: quel Blood on the Tracks concepito come un'autentica opera d'arte. Un lavoro coeso, vibrante e toccante, come pochi. Saved in effetti pare sia stato realizzato da un artista totalmente differente. Qui ci troviamo di fronte a un musicista che scrive in modo nuovo, diverso. Quello del 1975 usava metafore e linguaggio da poeta stilnovista ispirato da Shakespeare e da altri campioni della letteratura mondiale come il russo Cechov; l’autore di Saved parla una lingua più piana, forse più banale, almeno rispetto allo standard e al metro precedente. Eppure oggi a distanza di 40 anni abbiamo imparato ad ascoltare i suoi diversi stili, che includono tanto le fisime quanto le rivelazioni, ma per il mondo che viaggiava sui meridiani e le prospettive del 1980 deve essere stato uno shock ascoltare questo disco da invasato. 

Un fanatico religioso, dirà la critica, nonostante fosse poco chiaro se Dylan stesse facendo sul serio o no. Di certo stava facendo sul serio con i suoi spettacoli dal vivo, visto che raramente ha suonato dal vivo con questa intensità, con il furore e il fuoco sacro del rock che divampava. Attraverso le testimonianze live ufficiali oggi possiamo collocare questo Saved in una cornice molto più precisa e consona. Abbiamo visto dove ha portato il viaggio degli anni ottanta, il cammino senza tregua (il Never Ending Tour) degli anni Novanta, dove Dylan sembrava davvero un salmone infaticabile, capace com' era di andare contro ogni stile, formula e soluzione che in quel momento sembrava essere paradigma e prerogativa di successo. Dylan ha fatto grande musica in ogni decade. Questo oggi è un fatto con cui certa critica e certi giornalisti hanno imparato a fare i conti. Perché cadono i miti, cadono i poster della nostra gioventù, ma il buon vecchio Bob resta saldamente in sella. 

Forse era lui quello che stava cercando salvezza. È rimasto aggrappato al suo credo, cambiando naturalmente, ma con una chitarra a tracolla e un’armonica ferita. Con una penna a volte gentile, a volte di fuoco e di furore. Oggi possiamo sorridere per tutte le recensioni che avevano dato per finito e condannato all’oblio un autore che non aveva ancora compiuto 40 anni. Certo, bisogna dire che all’epoca un musicista a quell’età era considerato sul viale del tramonto, per quanto concerne la musica popolare. Dylan però ha saputo tenere botta, prima di tutto alle sue convinzioni, poi al pubblico e alla critica. Dalla sua ha avuto uno zoccolo duro di seguaci che ha sempre sostenuto l’artista, fregandosene perfino dei dischi brutti, inutili o banali che avrebbe prodotto durante una fase della sua carriera musicale. 

Tuttavia Saved non rientra in questa categoria: qui ci sono grandi canzoni, ottime idee musicali e una band che suona come se avesse alle spalle il baratro della dannazione eterna. Una canzone su tutte? "What Can I Do for You?", naturalmente, dove l'assolo finale di armonica è redenzione pura.

Oggi un disco del genere verrebbe accolto come un capolavoro, di certo nessuno si sarebbe scandalizzato per le idee estreme del cantante, men che meno per chi è in sella da più di 30-40-50 anni. C’è gente che cambia atteggiamento, stile musicale, ideologia e religione. Oggi un disco come Saved potrebbe perfino passare inosservato, ammesso che ci siano artisti pronti a rischiare e a produrre musica come questa. Ok, Nick Cave e pochi altri. Così mentre i miti mutano pelle per sopravvivere a loro stessi, Dylan è ancora su quel palco diretto verso un altro show. Avrà tradito il pubblico e di sicuro ha più volte silenziato le critiche e la stampa, ma questo non ha alcuna importanza. Quello che conta adesso come allora è la musica. Saved sotto questo punto di vista raggiunge il suo obiettivo, vincendo a mani basse la sfida e la posta in gioco. 

Dario Greco



mercoledì 16 aprile 2025

Slow Train Coming irrompe sulla scena Gospel (1979)

Il mio nemico indossa un’aureola di decenza

Bob Dylan è sempre stato un genio nel sottoporci il suo apparato immaginifico e nel farci provare certi sentimenti mostrandoci delle immagini ben precise. Così abbiamo questa idea del lento treno che sta arrivando, come metafora ideale volta a introdurre un nuovo tema, che sarebbe diventato il leitmotiv della fase Gospel durata due anni e mezzo lungo i quali Dylan darà alle stampe tre nuovi album con composizioni inedite. Visto oggi, attraverso un punto di vista retrospettivo, tutto ci appare differente, più semplice da recepire e da commentare. A quel tempo invece era più una cosa tipo: “Bene, ci siamo giocati Dylan. Lui farà questi album cristiani per sempre.” Abbiamo visto invece da vicino gli effetti sui fan dei cinque dischi dedicati al Great American Songbook (periodo Sinatra) e di come anche questa fase sia stata accolta con fastidio da parte di alcuni fandom del cosiddetto zoccolo duro. Il punto della questione è che il nostro autore, raramente è venuto incontro ai bisogni e ai desideri del pubblico. Tuttavia, se oggi il 79enne musicista del Minnesota ha tracciato un solco indelebile nella canzone nordamericana del secondo Novecento, le cose stavano diversamente in quell’estate del 1979. Bisogna capire il contesto in cui un disco come Slow Train Coming vide la luce. Registrato ai Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield, Alabama e prodotto da Jerry Wexler e Barry Beckett questo disco si segnala come uno dei migliori lavori, a livello tecnico ma pubblicati da Dylan. Il merito è in larga parte della produzione e dei musicisti che prendono parte alle sessions di Slow Train Coming. Lo stesso Beckett suona tastiere e percussioni, mentre le coriste sono Regina Havis, Helena Spring e Carolyn Dennis. Al basso troviamo il sempre valido Tim Drummond, la batteria è suonata di Pick Withers dei Dire Straits. Anche Mark Knopfler, con la sua chitarra contribuisce a delineare il sound di questo disco, con un Dylan che sa bene cosa vuole: un suono potente e robusto che vira decisamente sul funky. Non è un caso se Jann Wenner definì il lavoro come uno dei dischi migliori che il suo autore abbia mai realizzato. "Col tempo è possibile che arrivi a essere considerato il suo lavoro migliore". Queste dichiarazioni probabilmente nel 1979 potevano risultare pretenziose e un po' esagerate. Tuttavia se andiamo a ripercorrere la discografia di Dylan anni sessanta e settanta, in termini retrospettivi, non è facile trovare un disco registrato e suonato meglio rispetto a questo. L’apporto di ogni singolo musicista lo fa suonare davvero potente, più incisivo rispetto alla media. Pur muovendosi nei confini del genere gospel, il disco fa il suo dovere per i suoi 46 minuti e 19 secondi. Le critiche sono più che positive, nella maggior parte dei casi, in virtù di brani destinati a durare nel tempo. Titoli come Gotta Serve Somebody, I Believe in You o Slow Train, così come la seconda facciata dell’LP: tesa, vibrante e coerente.

“Cambierò il mio modo di pensare, mi darò un diverso codice di comportamento. Cambierò il mio modo di pensare, mi darò un diverso codice di comportamento. Devo partire col piede giusto e smettere di essere influenzato dagli imbecilli.”

Quando nel 1979 Dylan diede alle stampe il suo 19esimo album in studio, probabilmente non credeva potesse creare così tanto scompiglio tra il pubblico e a livello di critica. La svolta Gospel del Nostro era avvenuta già con l'album precedente, Street Legal (1978), un lavoro accolto in modo piuttosto ostile, soprattutto in America a livello critico, con il puntuale Greil Marcus a cui si aggiunge Dave Marsh, il quale affermava di non aver capito lo scopo di questo lavoro. Una critica che soprattutto in Europa suona indecifrabile visto il valore dei brani e del risultato d'insieme per un disco che il pubblico ha apprezzato fin da subito. Nel Regno Unito arrivò celermente al secondo posto per la classifica di vendite. In sede retrospettiva c’è da capire perché Dylan sia stato così spesso frainteso. Probabilmente ha avuto un ruolo il suo eclettismo, musicale e testuale, aspetto che molte volte ha spiazzato critica e pubblico. Nel 1979 l'autore aveva alle spalle già 17 anni di carriera, dove pesavano in maniera determinante le produzioni realizzate negli anni sessanta a cui bisognava aggiungere due successi come Blood on the Tracks e Desire. Lavori che erano stati accolti molto bene dalla critica che li aveva salutati come un tanto atteso ritorno sulle scene, senza perdere credibilità e con pezzi pregiati che andavano ad arricchire in maniera sostanziale il suo repertorio. Brani come Senior o altre cose contenute in Street Legal facevano presagire gospel, inni e canti di chiesa, bianchi e neri sono centrali già nel disco che aveva preceduto Slow Train Coming. Changing of the Guards ha qualcosa di spirituale, oltre ai toni apocalittici, sembra quasi una marcia di tipo laico ma che richiama appunto al gospel e agli inni sacri, seppur in modo personale, come era solito fare l'autore durante i suoi lavori passati.

Sant’Antonio predicava ai pesci per confondere le acque, mentre Dylan registrava il suo primo album Gospel per ritrovare sé stesso, dopo un decennio piuttosto complicato, ma non privo di guizzo, estro e inventiva. Ascoltare Slow Train Coming dopo Trouble No More - The Bootleg Series 13 aiuta molto in termini di rivalutazione critica retrospettiva. La qualità delle canzoni, sotto il profilo sonoro è sempre stato uno dei punti di forza di questo lavoro. La produzione e il sound ancora oggi sono dominanti e danno la dimensione della potenza di fuoco che Dylan e il suo ensemble erano capaci di produrre. Ma è arrivato il tempo di rendere giustizia anche per quel che riguarda l’ideologia e il lavoro di tipo testuale. Fatta salva qualche eccezione, dove il nostro artista pare in debito di ispirazione, i testi sono di buonissima levatura. Difficile trovare difetti in brani come Do Right To Me Baby, Precious Angel, Gotta Serve Somebody e soprattutto Slow Train e Gonna Change My Way Of Thinking. Purtroppo la critica militante anni settanta di rende per l’ennesima volta colpevole del peccato originale: dire a Dylan cosa deve fare, cosa deve suonare e che cosa dovrebbe scrivere. Puttanate del tipico puritanesimo di matrice anglosassone. Ancora una volta Greil Marcus non perde occasione per mostrare la propria miopia quando si tratta di scagliare la prima pietra che rotola nei confronti del suo amato-odiato Dylan. Il problema è che sono critiche che accusano l’autore di non essere ironico, di prendere troppo sul serio il tema evangelico, di furore messianico. Nella critica scagliano saette e giudizi, senza ascoltare il proprio cuore e senza avere un punto equidistante che si richiede a chi si occupa di critica musicale. Come al solito, il tempo darà ragione all’artista, ma non è certo una novità. Diciamo pure che già a partire dal lavoro che lo aveva preceduto, la critica Usa perderà di vista Dylan, per poi ritrovarlo solo nel 1983, quando darà alle stampe Infidels. Ed è un peccato perché questa fase gospel merita una adeguata rivalutazione in sede critica. Ci siamo anche un po’ stancati di leggere nel 2021 certe critiche prive di senso estetico e figlie di preconcetti su cosa sia gospel e cosa possa essere accettato da un artista che in quasi sessant’anni di carriera discografica ha toccato con mano sensibile ogni genere, arrangiamento e stile appartenente alla tradizione della canzone nordamericana. Risulta poi incomprensibile non accorgersi dei legami tra questo lavoro e alcuni illustri predecessori come John Wesley Harding e The Times They Are a-Changin’. Probabilmente i crediti illimitati in sede critica si erano esauriti, visto che oggi possiamo con facilità e coerenza collocare Slow Train Coming tra i tasselli a tema religioso e spirituale di un autore che non ha mai nascosto il proprio punto di vista sul mondo, a volte inattuale e scomodo, a volte solo in anticipo sui tempi. Questo album dice è in arrivo un cambiamento per l’umanità. Un messaggio coerente per un autore che aveva scritto i tempi stanno cambiando.

Slow Train Coming è senza dubbio uno dei dischi che ha risentito di un giudizio poco obiettivo e centrato della produzione dylaniana. A nostro parare è musicalmente tra i migliori 10 album mai realizzati dal Nostro. Vecchio Testamento permettendo!

Questo lento treno è destinato alla Gloria!

 

Dario Twist of Fate  

martedì 15 aprile 2025

Shot of Love - Auguries of Innocence


Shot of Love (1981)

Vedere un mondo in un granello di sabbia e un paradiso in un fiore selvatico. Tenere l'infinito nel palmo della mano e l'eternità in un'ora. 

Solo una sana e consapevole fede salva l'ascoltatore dalla negatività del giudizio critico, parafrasando Fornaciari. Il gospel è una questione di fede. Shot of Love, 21esimo disco in studio di Bob Dylan viene pubblicato il 10 agosto 1981. Ottenne la top ten nel Regno Unito, ma negli States non andò oltre la 33esima posizione in classifica. La produzione dell'album è affidata a Bumps Blackwell e Chuck Plotkin, uno degli uomini chiave in studio di registrazione di Bruce Springsteen. Nel disco lo si nota subito, c'è una moltitudine di musicisti e tecnici di talento. Da Ringo Starr a Tim Drummond, da Donald Dunn a Benmont Tench, da Ron Wood a Jim Keltner, da Steve Ripley a Carl Pickhardt. Questo è probabilmente uno dei lavori più fraintesi e sottostimati di Dylan, in termini assoluti. Qui si conclude la fase "religiosa" e si apre lo scenario "anni ottanta" del suo autore. Arrivati a questo punto Dylan si era costruito una reputazione per metà fatta da detrattori, haters e critici e per metà costituita da veri appassionati ed esperti della sua musica e delle sue canzoni. E' un disco da rivalutare e posizionare dove è giusto che stia, da ora in avanti. D'accordo: non sarà coeso e coerente come Infidels, non sarà cupo e compatto come Oh Mercy, ma resta una delle migliori opere realizzate dopo Blood on the Tracks e Desire e prima del grande ritorno di Time Out of Mind e "Love and Theft". Personalmente ritengo che il dovere del critico sia di vivisezionare e smontare un disco, per renderlo maggiormente fruibile a un più vasto pubblico. Di contro c'è però quello che fa un vero appassionato. E l'appassionato, lo dice la parola stessa: vive di passione. Nel caso di un lavoro che contiene una gemma come Every Grain of Sand, è facile capire da che parte stia il nostro punto di vista. Il mio approccio a questo lavoro si è rinnovato più volte nel tempo, tanto che per una strana casualità ne possiedo addirittura tre copie. La prima masterizzata con copertina fotocopiata in bianco e nero, la seconda cartonata e la terza presa per completare la discografia live in una confezione da cinque dischi che include Real LiveDylan & The Dead. In origine il primo vero approccio a questo disco avvenne con l' ascolto del Greatest Hits 3 e dell'antologico Biograph. Ho iniziato ad ascoltare Shot of Love con 2-3 brani e ritengo che questo resti ancora oggi, a distanza di 40 anni, uno dei migliori approcci possibili. Canzoni come Heart of Mine o The Groom's Still Waiting at the Altar, ci mostrano un autore ispirato e che musicalmente non si è certo fermato in termini di scrittura a quello che aveva prodotto durante i 18 anni passati. Si tratta di un lavoro di transizione, che condurrà il suo autore verso un nuovo percorso sonoro e di scrittura. Per molti non è altro che un disco di routine. Sappiamo bene che però Dylan nel corso della sua lunga carriera ha ricevuto molte critiche e recensioni preventive, e in questo caso la disparità tra le recensioni e il prodotto finale, ascoltato in un contesto retrospettivo, appare evidente. Sia chiaro, come il lavoro che lo ha preceduto, non stiamo parlando di rivalutarlo e metterlo tra i capolavori. Non di meno, questo non è affatto "il peggior album di Dylan". O come sostiene il cecchino Lester Bangs: " Quello che troviamo in Shot of Love è il lavoro dell'operaio a giornata". Tipico commento insulso e immaturo di chi il disco probabilmente non l'aveva nemmeno ascoltato per intero, figuriamoci compreso e  analizzato. Ancora Bangs: "Il problema è che il materiale non riserva nient'altro che una lettura superficiale, dato che la maggior parte dei brani risulta incompleta e non consequenziale." Davvero arduo comprendere da quale sentimento sia mosso il critico in tale invettiva, ma forse è il caso di passare oltre. Bob Dylan dirà di questo lavoro che la maggior parte delle critiche si concentra sul ruolo di Gesù e attribuisce il problema a Boy George e qualcosa di nuovo che sta montando in termini di trend e di nuovo approccio al pop rock. Vero o no, non trovare spunti di interesse in brani come Every Grain of Sand, In the Summertime, Lenny Bruce, Heart of Mine e la stessa title track, in un contesto odierno, appare davvero arduo. Ci troviamo davanti a un lavoro complesso, nuovo e con un sound che alla lunga resta un tentativo piuttosto sofisticato per un artista come Dylan. I cambi di accordi e la struttura musicale per certi versi si associano al futuro Empire Burlesque, ma è vero che il suo autore ha fatto centro conquistando pubblico e critica con canzoni dalla struttura e dai cambi di accordi piuttosto essenziali. Eppure in questa circostanza, merito dei musicisti coinvolti e specialmente del lavoro di Jim Keltner alla batteria e di Danny Kortchmar e Steve Ripley alle chitarre, possiamo sentire qualcosa simile alle sfumature di Thelonious Monk: il massimo livello di sofisticazione raggiunto da Dylan fino a Shadows in the Night del 2015. Resta il fatto che il Dylan del periodo Gospel ha un tiro e un groove pazzesco. La musica trasuda fuoco e zolfo, colori e luci sono accesi. È un delirio di bellezza (per chi vuole cogliere) abbagliante! Come abbiamo imparato però il Dylan allegro sovente crea disagio, rancore e antipatia nella critica militante. Il cantautore sa mettere d'accordo la critica quando si strugge e annichilisce la propria anima, ma quando il blues cede il passo alla gioia, il bravo recensore punta il dito e indica lo stolto Dylan. Trovare limiti e difetti in un autore 40enne che ha mostrato di essere in stato confusionale non è certo un merito e un sinonimo di competenza e di capacità critica. Per fortuna l'artista non si cura di ciò che pensa la critica, ma tira dritto per la propria strada. Sarà il tempo a decidere, ancora una volta. Il tempo qui dice che il disco contiene almeno un capolavoro assoluto, cioè Every Grain of Sand. E anche William Blake ce lo conferma.

La critica illuminata

È "forse il suo lavoro più sublime fino ad oggi", scrive Clinton Heylin, "la sintesi di una serie di tentativi di esprimere ciò che la promessa di redenzione ha significato per lui personalmente. Every Grain of Sand è una delle sue canzoni più intensamente personali, rimane anche una delle sue più universale. Descrivendo "il tempo della mia confessione, l'ora del mio bisogno più profondo", il brano segna la conclusione del suo periodo evangelico come autore di canzoni, qualcosa che la sua posizione in coda all’album riconosce tacitamente. Paul Nelson di Rolling Stone lo ha definito il Chimes of Freedom e Mr. Tambourine Man del periodo cristiano di Bob Dylan. Questo lavoro ha sicurezza e forza su tutta la linea, ma anche vulnerabilità. L'armonica meravigliosamente idiosincratica di Dylan ha trasformato in un archetipo che trafigge il cuore e inumidisce gli occhi. E, per una volta, i testi non ti deludono. Il cristianesimo dell'artista è palpabile e comprensibile. Per un momento o due, ti tocca, mentre i cancelli del paradiso si dissolvono in un'universalità che non ha nulla a che fare con la maggior parte dell'LP”. Paul Williams nel suo volume Bob Dylan Performing Artist The Middle Years afferma: "L'amore in Every Grain of Sand, sebbene saldamente radicato nell'esperienza di conversione di Dylan e nei suoi studi biblici, va immediatamente oltre il suo contesto per comunicare un profondo e provato spirito devozionale basato su esperienze universali. Dolore di autoconsapevolezza e senso di meraviglia o soggezione per la bellezza del mondo naturale. Tim Riley ha descritto Every Grain of Sand come "una preghiera che abita la stessa zona intuitiva di Blowin 'in the Wind, quasi un inno tramandato attraverso i secoli". Il critico Milo Miles ha scritto: "Questa è l'unica canzone di Dylan in 10 anni in cui esamina un paradosso della cultura pop (che le star leggendarie in particolare devono credere in ideali più grandi di loro) in modo più eloquente di qualsiasi altro artista. Anche Bruce Springsteen nel 1988 ha citato questo disco come uno dei suoi lavori migliori, stessa cosa che farà Elvis Costello, che lo inserisce nella lista dei 500 album essenziali per una vita felice. Forse il miglior brano di Dylan in termini assoluti. Per approfondire il discorso si consiglia di recuperare i Bootleg Series Vol. 1-3 e 13 (Trouble No More). Un’ultima cosa: questa è la copertina di Bob Dylan preferita da mio nipote Giorgio. Ascoltato a distanza di quarant’anni, Shot of Love sembra invecchiare piuttosto bene, come dell’ottimo whisky. E ora dite Amen. Amen!

"Ogni notte e ogni mattino alcuni nascono per la miseria. Ogni notte e ogni mattino alcuni nascono per il dolce piacere. Alcuni nascono per il dolce piacere, alcuni nascono per l'eterna notte."

Dario Greco

mercoledì 9 aprile 2025

Nashville Skyline (1969)

Nashville Skyline (1969)

 

Greetings from Nashville, Tennessee!

Nella sua lunga produzione discografica, Bob Dylan ha prodotto 39 album in studio, molti dei quali non sono certo dei capolavori. Nashville Skyline non rientra tra questi, eppure è uno dei suoi lavori più divertenti, leggeri e frizzanti. La produzione vira in modo evidente verso il country, quel tipo di musica che oggi viene giustamente chiamata Americana. È un lavoro che ricevette una buonissima accoglienza da parte del pubblico, arrivando al primo posto nel Regno Unito e al terzo in Usa. Siamo certi che forse nel corso del tempo, sia stato amato e apprezzato anche in Italia, visto che è citato da autori come De Gregori e Baglioni e se pochi brani furono considerati tra le sue composizioni più memorabili, bisogna considerare il successo da classifica ottenuto dal singolo Lay Lady Lay. Questo brano era stato scritto in origini per la colonna sonora del film Midnight Cowboy con Dustin Hoffman e Jon Voight. Tuttavia la canzone venne scartata e gli fu preferita invece Everybody's Talkin' di Fred Neil, interpretata da Harry Nilsson, che ebbe un successo straordinario. Per la prima volta Dylan incide un brano strumentale, The Nashville Rag, stesso discorso sul fronte dei duetti: il disco si apre con la riproposizione a due voci di un suo classico contenuto nel secondo disco, Girl from the North Country. Il duetto con Johnny Cash è memorabile e per lungo tempo resteranno inedite le altre tracce eseguite assieme, oggi finalmente raccolte nel Bootleg Series Vol. 15 Travelin' ThruÈ interessante notare come l'album sembri continuare laddove il precedente si era concluso. 

I'll Be Your Baby Tonight chiudeva il precedente John Wesley Harding, mostrando la via per la nuova direzione musicale che l'autore avrebbe percorso con il suo lavoro successivo, Nashville Skyline appunto. Una cosa che balza subito all'occhio e all'orecchio di questo nono album, rilasciato il 9 aprile del 1969, le cui sessioni guidate dal produttore Bob Johnston si tennero proprio nella capitale dello Stato del Tennessee tra il 12 e il 21 febbraio dello stesso anno, è la durata. Disco snello e agile, non solo non arriva a trenta minuti, come durata complessiva, ma fatto più unico che raro, non contempla brani troppo strutturati nei testi e nella durata, appunto. Si pensi che la traccia più lunga, non va oltre i tre minuti e quarantatré secondi, mentre quella più breve, Country Pie, dura appena un minuto e trentanove. Pensiamo che ciò avviene molto prima rispetto all'urgenza del punk-rock (genere che non c'entra nulla con questo disco) e che risulta insolita, visto che Dylan ha pubblicato brani celebri e importanti che arrivano anche a dieci minuti di durata.

Tra gli episodi più significativi bisogna citare oltre alla prima traccia, eseguita in duetto con l'amico e collega Johnny Cash, almeno altre quattro tracce: I Therew It All Away, Lay Lady Lay, il pezzo che è rimasto di più del disco, Tell Me That It Isn't True, con un arrangiamento solido e brillante, scelta piuttosto particolare per gli standard dylaniani del periodo e la chiusura, affidata alla stupenda Tonight I'll Be Staying Here With You, brano che avrà una seconda vita durante il tour della Rolling Thunder Revue nel 1975.

Nashville Skyline ha il difetto di essere un album allegro e brillante, per certi versi molto erotico e sensuale. Dotato di un timbro vocale differente, che può spiazzare al primo ascolto, visto che Dylan aveva dichiarato di aver smesso di fumare in quel periodo, secondo Marshall Chapman è un disco sexy, dove è la semplicità della musica a rendere tutto così potente. Sembra che Dylan stia cercando di semplificare mantenendo un basso profilo da signorotto di campagna, tornando alla terra, tagliando la legna e seguendo l'esempio di Walden di Henry David Thoreau e delle Foglie d'erba di Walt Whitman.

Eppure l'uomo che registra Nashville Skyline si avvale di alcuni musicisti locali che rispondono ai nomi di Norman Blake, Kenneth Buttrey, Charlie Daniels, Bob Wilson, Charlie McCoy, Pete Drake e Carl Perkins. Per chi conosce la musica in modo più approfondito, qui verrebbe da esclamare, giustamente: - Alla faccia del disco minore! 

Subito dopo la pubblicazione di Nashville Skyline gli studi di registrazione e i musicisti utilizzati da Dylan diventeranno molto gettonati e richiestissimi. E probabilmente senza questo album, giudicato a torto o a ragione un disco minore, non ci sarebbe stato Harvest di Neil Young, o meglio, non sarebbe stato quel grande successo di critica e pubblico che il disco ha ottenuto. Non ci sembra affatto una questione marginale, a ben vedere.  

Dario Greco

mercoledì 12 febbraio 2025

A proposito di Love And Theft

 


"Love And Theft" (2001) 

Dopo aver realizzato dischi nuovamente all'altezza del proprio nome come Oh Mercy e soprattutto Time Out of MindBob Dylan torna ancora, con un suo nuovo lavoro autografo. O meglio, semi-autografo. "Love And Theft" è il 31esimo disco in studio, ed è stato registrato ancora una volta a New York City, nei Clinton Recording, durante il mese di maggio. In cabina di regia, utilizzando lo pseudonimo di Jack Frost, c'è proprio Dylan, che si occupa della produzione. Una novità importante, visto che da questo momento in poi sarà l'autore stesso a produrre i suoi futuri lavori discografici. Non è però una novità: molte volte era stato proprio lui a dirigere i lavori, a partire da Empire Burlesque e Knocked Out Loaded (a cui bisogna aggiungere anche Down in the Groove) senza dimenticare Under the Red Sky e Time Out of Mind,  co-prodotto assieme con Daniel Lanois. Importante sottolineare poi il ritorno a New York, in un momento storico specifico e dopo tanto girovagare. Era dai tempi di Empire Burlesque, ma soprattutto da Infidels, che Dylan non registrava in quella che a buon diritto può essere considerata la sua città d'adozione oltre che la seconda casa, musicalmente parlando. E così dopo tanti viaggi, Dylan giunge in sala d'incisione e lo fa con la sua abituale live band. Non una backing band qualsiasi, visto che può contare sull'elasticità e sulle dinamiche di una sezione ritmica perfettamente rodata on the road, ma soprattutto su ottimi strumentisti come Larry Campbell e Charlie Sexton. I due sono perfettamente a loro agio in questa prova in studio. Capaci di mostrare fin dalle prime battute tutto il loro armamentario e il giusto feeling per portare a casa un ottimo lavoro. Tony Garnier, il bassista che lo segue dal vivo già da qualche anno, qui è alla sua seconda prova in studio, dopo il fortunato "esordio" di Time Out of Mind.

L'atmosfera che si respira è davvero buona e raramente abbiamo sentito Dylan così allegro, frizzante e motivato, rispetto a questa prova discografica. Il merito è legato al materiale che porta in sala di registrazione, ma anche ai premi ottenuti negli anni che lo hanno preceduto. Non bisogna dimenticare che "Love And Theft" sia il primo disco dopo l'Oscar per la miglior canzone vinto con Things have changed. Dylan però non è certo il tipo a cui piace cullarsi sugli allori. Qui sale in cattedra con un lavoro solare, pulito nei suoni e con un imponente armamentario caratterizzato da suoni di impostazione roots rock, blues, country, jazz. In pratica quella che oggi viene definita Americana. Un genere che in pratica egli stesso ha contribuito a ridefinire e plasmare nella cantina coi fidati The BandNaturale che Dylan si senta a suo agio a produrre, registrare e cantare questo particolare tipo di canzoni. Nonostante ciò, bisogna sottolineare come il lavoro rappresenti una novità importante a livello musicale. Il cantautore introduce un nuovo importante elemento all'interno del suo percorso sonoro. Per la prima volta infatti si confronta con un tipo di canzone antecedente al folk revival e al rock: dopo lo swamp-rock di Time Out of Mind, il Nostro ci riporta alle atmosfere Vaudeville e a tutto il contesto che aveva reso importante il Tin Pan Alley. Il titolo è preso in prestito dal volume Love & Theft: Blackface Minstrelsy and the American Working Class, scritto dallo storico Eric Lott e pubblicato nel 1993. 

La fotografia che viene rilasciata ci mostra un autore sorridente e beffardo, che si diverte moltissimo a mettere in atto i suoi scherzi tremendi. Con la complicità di una band che suona a memoria, più l'intervento del grande tastierista texano, Augie Meyers, Dylan sale in cattedra ancora una volta con il suo stile di scrittura surrealista e cubista. I testi sono dei veri e propri flash, inchiodati in una cornice di grandi riff di chitarra: fraseggi e scambi che Larry Campbell e Charlie Sexton sono capaci di produrre e concepire, spesso improvvisando sul ritmo messo in piedi dallo stesso Dylan e dalla sezione ritmica guidata dal drumming di David Kemper. Per Wesley Stace "Love And Theft" rappresenta un passo in avanti, dopo la tristezza dominante e il suono gonfio e gommoso di Time Out of Mind. Ci sarà un motivo certamente plausibile se in tanti non amano i dischi di Dylan "allegri" e giocosi, fatta esclusione per titoli come Blonde on Blonde e Highway 61 RevisitedEppure Dylan è capace di creare un linguaggio assolutamente nuovo attraverso cui esprimersi. Uno stile che gli calza a pennello e che non aveva fin qui mai utilizzato. Si tratta di un linguaggio fatto di scherzi pesanti, possiamo dire. La cosa incredibile è che la musica copre interi decenni, che hanno preceduto il suo ormai distante esordio del 1962. Non è certo un caso se queste canzoni vengano messe su nastro proprio mentre il suo autore stava per compiere 60 anni. Con Dylan sappiamo bene come il tempo assuma un'importanza considerevole. Andiamo a ritroso dai blues anni venti allo swing, passando per il pop fino ad arrivare a Elvis. Ed è qui che il disco prende quota, attraverso ritmi indiavolati e chitarre infuocate.


C'è però un aspetto che bisogna sottolineare, dopo l'amore tocca al furto
. E Dylan stavolta saccheggia, come può, tutto ciò che gli sta a cuore. Passiamo da Dock Boggs a Gene Austin, da Robert Johnson ai riferimenti espliciti di Big Joe Turner from Kansas City, fino al Charley Patton di High Water Everywhere, pezzo Delta blues, registrato nel 1929. Difficile individuare la citazione del brano Po' Boy, visto che con lo stesso nome abbiamo questo incredibile sandwich a cui il testo sembra fare riferimento, ma siccome il disco è un esempio esplicito di amori e ruberie, potrebbe esserci anche qui un riferimento ai mentori Elvis Presley e Woody Guthrie. La critica, tanto per cambiare si è diverte a fare le pulci ai testi quanto ai debiti di scrittura musicale. Eppure il disco andrebbe giudicato e considerato nel suo insieme, dato che sotto questo punto di vista funziona alla grande! Questa volta ci si diverte, si balla, pestando il piede a tempo. E ci sarebbe anche da capire cosa c'è di male nel rivalutare e rilanciare canzoni dimenticate degli anni '20 e '30 del secolo scorso. A questo punto mettiamo dietro la lavagna i vari Eric Clapton, Mark Knopfler, Van Morrison e Neil Young, dato che anche loro hanno dedicato metà carriera a rimaneggiare standard blues, country e folk.

Il problema è che questo gioco a Bob Dylan riesce meglio, visto che gli vale premi, dischi d'oro e una considerazione critica, storica e letteraria che probabilmente i suoi illustri colleghi non riceveranno mai. Nel 2015 in un raro intervento dal vivo, Dylan dirà che nelle recensioni a lui riservate i critici vanno a guardare sotto ogni pietra nel tentativo di riportano alla luce tutto quel che trovano. È possibile, ma è anche vero che nessun collega ha mai ricevuto il plauso unanime della critica, intercettando, per così tanto tempo, gli interessi di legioni di adepti, fandom ed estimatori di musica. Di questo dovrebbe rallegrarsi, riteniamo. Greg Kot sul Chicago Tribune ha scritto di Love And Theft: "I miti, i misteri e il folklore del Sud come sfondo per uno dei migliori album roots rock mai realizzati". Dodici brani, ognuno a suo modo importante e indispensabile per tracciare la nuova rotta musicale e sonora del suo Autore. Ogni traccia ha il suo valore e peso specifico, anche se forse alla lunga quelle che sono rimaste sono il nucleo swingante comprendente Bye and Bye, Floater, Moonlight, Po’ Boy a cui è giusto aggiungere la ballata finale Sugar Baby, il ritmo incalzante bluegrass di High Water e la sferragliante apertura di Tweedle Dee & Tweedle Dum.  

Interessante notare un aspetto inusuale per il Nostro autore. Il recupero del brano Mississippi, outtakes di Time out of mind già inciso tre anni prima da Sheryl Crow. Dopo i precedenti illustri di brani del valore di Blind Willie McTell, Foot of Pride, Series of Dreams e Dignity solo per limitarci a quelli più evidenti, Dylan stavolta corre ai ripari e si assicura uno dei suoi pezzi pregiati per rinforzare un disco che per lui rappresenta una nuova sfida e l’inizio di un nuovo percorso musicale e di metodo di lavoro. Perché, aspetto che pochi hanno evidenziato, il suo metodo di lavoro ricorda più quello dei sapienti artigiani, dei mastri ferrai che dei pittori italiani del Rinascimento. Amore e furto, va benissimo, ma anche un Riportando Tutto a Casa Volume 2, sarebbe stato titolo appropriato e funzionale, crediamo.

Capolavoro brillante e unico. Disco prezioso da ascoltare nei momenti di sconforto e di malumore. Uno dei suoi 5-6 lavori migliori. 

N.B.

Siamo consapevoli del fatto che il disco sia stato pubblicato l’11 settembre 2001, ma pensiamo si tratti di una spiacevole coincidenza. In altre sedi questo potrebbe costituire elemento di analisi e di congetture, che ci sentiamo qui di eludere, per ovvi motivi.

Dario Greco

Foto di copertina realizzata da Kevin Mazur

martedì 4 febbraio 2025

A proposito di Highway 61 Revisited

 

Highway 61 Revisited (1965)

How does it feel, How does it feel, To be on your own, Like a complete unknow, Like a rolling stone?  

Highway 61 Revisited è uno dei dischi spartiacque della storia del rock. Solo che quando uscì il concetto stesso di rock, senza roll, non era ancora stato delineato e messo a fuoco. Non solo: c'è da compiere diversi passi indietro, sostenendo come all'epoca, molti dei nostri eroi e miti musicali, non si erano ancora manifestati, o non stavano lottando per ottenere successo. In effetti prima di quel 30 agosto 1965, c'erano solo Dylan (non ancora affermato in ambito di musica elettrificata) i Beatles, gli Stones (che erano poco più di una promettente blues band), gli Animals e i Kinks. Basta così. Una lista breve, concisa. Dopo le cose sarebbero invece cambiate, un po' per tutti, inclusi i fruitori di musica pop rock. Le ragioni? Semplici. Questo disco oltre a contribuire a gettare le basi dell'ascolto di un 33 giri conteneva due brani la cui durata era superiore ai sei minuti. Uno di questi fece la storia del rock. Si tratta di Like a Rolling Stone. Dylan può piacere oppure no, ma questo classico della popular music resterà per sempre nel tempo e negli annali. E non è semplice resistere al tempo e a un autore così importante e influente. La canzone che diede il titolo al disco è formidabile nella sua sintesi, sotto il profilo sonoro, quanto sotto quello testuale. Cosa c’è di più innovativo e al contempo classico di mettere in scena un dramma di ispirazione biblico dove troviamo Dio e Abramo in un surreale dialogo che ha come sfondo proprio la Highway 61. Si tratta in effetti di una vera strada che collega il Minnesota con New Orleans, passando per Chicago, St. Louis e Memphis. Ed è di cruciale importanza sottolineare come per il giovane autore questa strada che conduce a Sud fosse di ispirazione come metafora della musica blues e delle radici sonore e artistiche di cui Dylan si è sempre detto affascinato. Una sorta di trovatore e di antropologo un po’ naif, ma proprio per questo capace di coniugare il proprio pensiero musicale con un modo nuovo di fare musica, che fino a questo punto in pochi avevano davvero esplorato e tentato di portare alla luce. È un lavoro di sintesi, che a un orecchio poco allenato potrebbe apparire rozzo e poco definito. In realtà Dylan e i musicisti coinvolti diedero vita a un lavoro maiuscolo per la forma canzone e per i limiti stessi del genere in termini di crossover. Tuttavia il merito, nuovamente va suddiviso tra il suo autore e i protagonisti che presero parte a questo capolavoro. Come era già successo pochi mesi prima, ma stavolta con maggiore continuità, Dylan realizza un lavoro in studio elettrico. Coinvolge infatti un gruppo di musicisti che lo affiancano contribuendo in modo sostanziale alla riuscita dei brani. In cabina di regia subentra Bob Johnston a Tom Wilson, che aveva prodotto i primi dischi di Dylan, incluso quello della svolta elettrica, Bringing it all back home. Stavolta però le cose vanno in modo diverso, nel senso che ci sarà più spazio e campo per la sperimentazione e soprattutto per l'improvvisazione. Secondo alcuni sarà il caos a regnare sovrano in tutte le sessions, ma il risultato finale ci dice qualcosa di differente. Ci dice che questo è probabilmente il più grande disco mai realizzato in carriera da Bob Dylan.

“Non sarò mai più capace di fare un disco migliore di questo. Highway 61 è troppo buono, c'è un sacco di roba che io vorrei ascoltare, lì dentro", disse lo stesso Dylan al suo biografo Anthony Scaduto.

Nove tracce dove l'unica più debole From a Buick 6 è un roco e teso up-tempo in chiave blues che nel contesto farà da collante tra It Takes a Lot to Laught e Ballad of a Thin Man, brano indebitato nei confronti di Ray Charles con un testo killer e un riff di organo memorabile, uno dei tanti colpi vincenti messi a segno in questo lavoro da Al Kooper, sì proprio lui, quello che non poteva sedersi dietro l'Hammond per eseguire il famoso suono che contribuirà al successo del singolo Like a Rolling Stone. Dylan però oltre che essere in stato di grazia compositiva, ha anche due ferri di cavallo sotto le suole delle scarpe. In quel momento qualsiasi cosa tocchi, diventa oro! Come lo sappiamo? Basti ascoltare il Bootleg Series Vol.12 The Cutting Edge. Storta va, deritta vene, sembra essere il suo motto. Oggi con la critica revisionista tutto questo potrebbe essere bollato come dilettantismo, infatti durante il 2020 se la memoria non mi inganna nessuno è andato vicino dal realizzare un disco lontanamente accostabile ad Highway 61 di Dylan, ma questa è un'altra dannata questione! 

Oh, Dio disse ad Abramo "Sacrificami un figlio" Abe disse "Amico, mi prendi in giro? "Dio disse "No", Abe disse "Cosa?" Dio disse "Puoi fare come vuoi Abe ma la prossima volta che mi vedi arrivare sarà meglio che teli" Allora Abe disse "Dove vuoi che avvenga questo omicidio?" Dio disse "Sulla Highway 61"

Cornice storica in cui venne registrato l'album

Anticipato dal singolo Like a Rolling Stone, pubblicato il 20 luglio 1965, Highway 61 Revisited estende la formula che si era già sentita su Bringing it all back home. A differenza del suo predecessore, con il quale condivide la base degli arrangiamenti blues, che determina almeno la metà del disco, qui trovano spazio un certo gusto per il pop, il doppio shuffle, ritmi discendenti stile Ray Charles e rock and roll. L’atmosfera e le vibrazioni dell’album riescono a catturare quello che stava accadendo durante quegli anni. Un suono umano e ruvido, come una copertina di Life, un discorso dove il senso di sfida e di consapevolezza si fa audace, visto che l’autore consapevolmente punta il dito verso tutto e tutti.

Secondo Joe Henry questo disco può essere paragonato a Citizen Kane di Welles e sul fronte musicale a incisioni come West End Blues e Now’s the Time, cambiando tutto quello che è venuto dopo. Per Bruce Springsteen “Quel colpo di rullante risuonò come se qualcuno avesse sfondato a calci la porta della tua mente. Un colpo di batteria che schiude un mondo, crea una storia che si fa leggenda. Secondo Uncut si tratta dell’evento culturale che ha cambiato il mondo. In questo disco c’è una aggressività di suono che segna un cambiamento deciso di rotta, dove a differenza di Bringing it all back home viene privilegiato un suono sporco, sbilenco, con gli strumenti molto vicini tra loro. Un aspetto questo, che se negli anni sessanta poteva risultare un errore, oggi ne fa aumentare il valore intrinseco. Il merito è in parte di Dylan e in parte del gruppo che lo accompagna. Qui troviamo infatti musicisti come Harvey Brooks, Sam Lay, ma soprattutto Mike Bloomfield e Al Kooper. Contribuisce solo per il brano Desolation Row, il pluristrumentista di Nashville, Charlie McCoy. Un breve film di 11 minuti e 18 secondi, secondo Tony Glover. È come se Billy Wilder venisse incontro allo stile surreale di Luis Bunuel.     

Le cover di rilievo nel tempo

Pochi dischi contengono canzoni che sono state reinterpretate da altri artisti come Highway 61. Citiamo qui solo gli artisti e le versioni più importanti per questioni di spazio. Jimi Hendrix non ha mai nascosto l’influenza di questo disco e la prova arriva dalla sua versione di Like a Rolling Stone. Brano che è stato eseguito, tra gli altri, da David Bowie, Rolling Stones, Bruce Springsteen, John Mellencamp, Johnny Winter e Judy Collins. Vanno poi ricordate le cover di artisti del calibro di Nina Simone, Neil Young, Grateful Dead, Billy Joel, PJ Harvey e Linda Ronstadt, tra gli altri. 

Considerazioni finali su Highway 61 Revisited

Non è il valore dei singoli brani o la somma di questo importante album a renderlo così celebrato nel tempo. Secondo il produttore e musicista Joe Henry, interpellato da Jon Bream per discutere di Highway 61: "Qui sembra di ascoltare persone che saltano fuori da un microfono. Questo avviene nei momenti migliore e nei solchi di un disco di valore assoluto. Il suono è totalmente elettrico e vivo, non si tratta di un documento con sigillo. Spesso Highway 61 mi fa questo effetto. Sembra che si stia ancora evolvendo, perché noi ascoltatori siamo così coinvolti, da evolverci mentre lo stiamo ascoltando. Non mi suona ancora come un progetto musicale concluso del tutto." Naturalmente tale dichiarazione va letta in un senso del tutto positivo che valorizza e aumenta le quotazioni di un disco che ha fatto e continua a fare epoca, nel contesto del rock d'autore. È innegabilmente uno dei lavori migliori di uno degli autori più influenti della storia musicale popolare del Novecento. Piaccia o meno, questo resta un dato oggettivo e fuori da ogni discussione di rilievo in campo musicale, testuale e di cornice storica. In attesa che venga scalzato dai nuovi autori di musica popolare e rock. Li attendiamo fiduciosi al varco, con la medesima aggressività che Dylan ha mostrato nelle liriche e nei suoi del suo capolavoro, Like a Rolling Stone.

Ho scritto questo articolo un po' di tempo prima dell'hype legato all'uscita del biopic A Complete Unknown. Il film diretto da James Mangold offre diversi spunti e chiavi critiche per tornare a parlare, scrivere e discutere del primo lustro di carriera di Bob Dylan, dove album epocali quali Highway 61 Revisited, Bringing It All Back Home e The Freewheelin' Bob Dylan, rappresentano la sintesi di un'epoca irripetibile e fondamentale, non solo per il suo autore, ma per tutti noi appassionati di musica. Personalmente sto tornando ad ascoltare e a leggere con orecchie nuove, questa porzione di discografia dylaniana. Vi invito e mi auguro che tutti voi possiate fare altrettanto, integrando con le numerose uscite antologiche, che in questi anni ci hanno aiutato e tenuto compagnia, nei giorni grigi in cui a nessuno importava molto del nostro beniamino, eroe del folk, poeta e star di elettricità.

Dario Greco

sabato 11 gennaio 2025

Pat Garrett & Billy The Kid (1973)

 

  Commento critico a "Pat Garrett & Billy The Kid" 

Una breve premessa storica

Nel 1871 per tenere a freno i cow-boy che invadevano la città e usavano spesso la pistola, il sindaco di Abilene nel Kansas, assunse con l’incarico di sceriffo, un personaggio famoso: James Butler Hickok, conosciuto come Wild Billy. Hickok era un tipico gunfighter, cioè un uomo che si guadagnava da vivere sfruttando la propria abilità con la pistola e il suo coraggio personale. Gli storici distinguono il gunfighter che affronta gli avversari faccia a faccia in un leale show-down, dal gunman, ovvero l’assassino prezzolato che uccide sparando alle spalle. Furono gunfighter diversi sceriffi e fuorilegge di frontiera come Wyatt Earp, John Wesley Hardin e Billy the Kid. Il Kid, secondo la leggenda, aveva commesso 21 omicidi, uno per ogni anno di età. Tra i famosi gunman troviamo invece Pat Garrett, che come sceriffo uccise a tradimento proprio Billy the Kid, consegnando il suo nome alla storia e alla leggenda.     

“Bloody Sam” e la sua versione del mito di Billy the Kid

Immaginate la scena: Bob Dylan in compagnia dello sceneggiatore Rudy Wurlitzer si recano in Messico per convincere Peckinpah a scritturare Dylan per una parte nel suo nuovo film. Giunti in tarda serata alla soglia dell’abitazione sentono uno sparo e scorgono una cameriera che fugge terrorizzata. Entrando sentono un ulteriore sparo, prima di trovare il regista nella sua stanza, mezzo nudo di fronte a uno specchio a figura intera spaccato. Aveva una pistola in una mano e una bottiglia di tequila nell’altra. Dylan e Peckinpah si scambiano qualche battuta e successivamente Wurlitzer spiega al regista che il cantautore vorrebbe partecipare al film su Billy the Kid. Inutile dire che Dylan rimane stregato dal fascino da fuorilegge di Bloody Sam, come veniva chiamato Peckinpah.

Riuscite a pensare a un regista più iconico di David Samuel Peckinpah? Se il nome non vi dice molto, pensate che si tratta dell’autore di film come The Wild Bunch, Getaway! Cane di paglia, The Ballad of Cable Hogue, L’ultimo buscadero, Voglio la testa di Garcia, La croce di ferro e Convoy. Un regista importante non solo per aver dato un’impronta significativa al Revisionist Western, quanto per la sua vena provocatoria, geniale e imprevedibile. Non a caso registi come Haneke, Von Trier, Campion e Lanthimos, ma i fratelli Coen, Tarantino e Malick, devono qualcosa (in certi casi molto) al regista di Fresno. Si fa fatica a citare gli attori, gli sceneggiatori e i direttori della fotografia che hanno collaborato con Peckinpah nel corso della sua carriera. Quattordici opere, di cui giusto dieci di grande successo e/o di forte impatto culturale, più un esordio come sceneggiatore non accreditato per L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel.

I suoi film utilizzavano una rappresentazione visivamente innovativa ed esplicita dell'azione e della violenza, nonché un approccio revisionista al genere western. Le opere di Peckinpah trattano del conflitto tra valori e ideali, nonché della corruzione e della violenza nella società umana. I personaggi sono solitari o perdenti che desiderano essere onorevoli, ma sono costretti a scendere a compromessi per sopravvivere in un mondo di nichilismo e brutalità. La personalità combattiva di Peckinpah, segnata da anni di abuso di alcol e droghe, ha influenzato la sua eredità professionale. La produzione di molti dei suoi film includeva battaglie con produttori e membri della troupe, danneggiandone la reputazione e la carriera, durante la sua vita. Potrebbe bastare questo per rendere Sam Peckinpah un autore di culto, ma c’è dell’altro di cui finora per una forma di ritrosia e di timore reverenziale non abbiamo parlato. Si tratta dell’esordio di un musicista nelle vesti di attore. No, non è James Taylor e nemmeno Johnny Cash, ma se vi cito Kris Kristofferson allora si potrebbe accedere una lampadina? Ora, trattare questo argomento significa bypassare tante cose importanti accedute tra gli anni Sessanta e i primi Settanta.

Tagliando la testa al gallo facciamo ancora un nome, necessario: quello dello sceneggiatore e scrittore Rudy Wurlitzer. Uno scrittore che veniva paragonato a Thomas Pynchon, che aveva già collaborato con Roger Corman e Monte Hellman. Non solo, aveva già scritto una sceneggiatura che prevedeva come attori cantanti e musicisti, tra cui proprio James Taylor. Il film è Two-Lane Blacktop che successivamente ispirerà Bruce Springsteen per la realizzazione di uno dei sui album più cinematografici e riusciti della sua carriera: Darkness on the Edge of Town. Disco non a caso giudicato una sorta di omaggio al western crepuscolare di Leone e Peckinpah. Wurlitzer, nativo di Cincinnati, Ohio, abitava a New York ed era diventato amico di un altro importante cantautore. Si trattava naturalmente di Bob Dylan e il resto a questo punto, è storia. 

Nonostante il suo carattere non facile Sam Peckinpah ingaggia proprio Dylan per realizzare la colonna sonora del suo nuovo film che si girerà in Messico, nella città di Durango. L’avventura a Durango si intitola Pat Garrett & Billy The Kid, titolo cult per gli amanti del cinema e della buona musica.  Storia incentrata sul rapporto di contrastata e tragica amicizia, che ha dato spunto a molti film spesso ben accolti dal pubblico. Ora nonostante Peckinpah fosse un cineasta controverso e raramente leggero, questa sua opera risulta tra le più accessibili della sua filmografia. Ritratto malinconico della fine di un’epopea leggendaria, ricca di nobili sentimenti. La vera grandezza del film sta nel fatto che si inserisce nel contesto del western revisionista di Arthur Penn e Robert Altman, dato che ne condivide la filosofia e la struttura estetica e formale. In Pat Garrett & Billy The Kid, la morte non è glorificata. È dappertutto, ed è davvero tragica, orribile.   

Bob Dylan Soundtrack

“John Wesley Harding era un amico dei poveri, andava in giro con una pistola in entrambe le mani, aprì molte porte dappertutto nel Paese, ma non fece mai del male a un uomo onesto.” (B.D.)

Ho fatto questa doverosa premessa perché non ha alcun senso parlare della colonna sonora, senza un robusto riferimento cinematografico. Il disco forse è più conosciuto del film stesso ed è composto da dieci tracce, di cui due canzoni e sei brani strumentali. Una di queste canzoni, Billy, è ripetuta tre volte, mentre l’altra, Knockin’ on Heaven’s Door non ha bisogno di presentazione. Nemmeno a farlo apposta Rolling Stone ha stroncato questa operazione definendola “inetta, amatoriale e imbarazzante”. Arrivati a questo punto della retrospettiva dylaniana perdonerete il mio atteggiamento a volte sarcastico e sprezzante verso la critica musicale del tempo. Una critica che sovente manca di lungimiranza e di obiettività, aspetto che sarebbe fondamentale per un professionista, ma che oggi fa ridere e non poco. A questo bisogna inoltre aggiungere il fatto che queste parole siano state pronunciate da Jon Landau, che di lì a poco avrebbe “scoperto” un rocker e un autore come Bruce Springsteen! Ma questa è decisamente un’altra storia. Per chi volesse approfondire il discorso Pat Garrett & Billy The Kid, oltre a recuperare il bel film interpretato da James Coburn e Kris Kristofferson, mi sento di consigliare il bootleg Peco’s Blues. Questo disco (non ufficiale) contiene le sessioni complete realizzate da Dylan e restituisce l’integrità del progetto. È una vera chicca per completisti, ma vale la pena ascoltarlo almeno una volta, anche perché contiene una canzone altrimenti inedita. 

Difficile esprimere un giudizio sulla colonna sonora, dato che perlopiù si tratta di brani strumentali che fanno da accompagnamento al film, mentre le due canzoni presenti sono entrambe notevoli e importanti per ragioni speculari. A parte il brano di apertura, Main Title Theme (Billy) mi piace ricordarne un altro. “Bunkhouse Theme”, una delle cose più dolci che Dylan abbia mai inciso. Il brano ha un aspetto sentimentale, una sorta di bellezza semplice, simile al barocco russo, che lo fa spiccare all’interno della colonna sonora e del repertorio dylaniano. Anche “Final Theme” è un pezzo incantevole, compiutamente bello e guidato dal flauto. Dove si staglia un lugubre coro di accompagnamento mortuario. Perché la soundtrack realizzata di Dylan è una sorta di requiem, per quello che non è stato, ma poteva essere. Piaccia o meno, nel corso del tempo ha guadagnato un proprio posto nella storia della musica popolare. Bisogna infine spendere qualche parola sul brano più celebre, la traccia numero sette di questo album. La canzone fu incisa lo stesso mese (gennaio ’73) in cui fu dichiarato il cessate il fuoco in Vietnam, ponendo fine al coinvolgimento degli USA in quel lungo conflitto. Un brano che si intona con lo stesso stato d’animo dell’America. Elegiaca, nel suo movimento discendente e perfetto, si tratta di un testo composto da due quartine più un ritornello, sempre uguale. Un motivo semplice da memorizzare, che ebbe non a caso grande successo, nel corso del tempo. Chi vi scrive è a conoscenza del fatto che in Italia  in molti considerano la versione di Knockin’ on Heaven’s Door dei Guns ‘N Roses superiore rispetto all’originale di Dylan. Evito di esprimere un parere, anche perché viviamo in un mondo dove la conoscenza, la competenza e la capacità analitica non sempre sono considerate aspetti importanti e/o positivi. Ad esempio a Jon Landau dopo l’esperienza di critico musicale venne data una seconda opportunità come produttore di Bruce Springsteen. Questo significa che nella vita molte cose sono possibili, ma non tutte le cose. Landau, dopo aver sparato cazzate per anni sul rock, riuscì a riscattarsi, producendo dischi epocali ed epici come Born to Run, The River e Darkness on the Edge of Town. 

Bob Dylan ha superato la delusione del flop di Pat Garrett & Billy The Kid e ha continuato a barcamenarsi tra dischi di mestiere e qualche raro capolavoro. Diciamo che a lui interessava entrare a contatto con un mondo che sentiva suo, come quello del western e del cinema d’autore. Dopo questa esperienza scriverà album ispirati a quel periodo come Desire, Knocked Out Loaded e molto tempo dopo Together Through Life e Tempest

Ora per chi fosse interessato ad approfondire il legame tra Dylan e il mito dei fuorilegge e cow-boy, consiglio l’ascolto supportato dalla lettura dei testi del disco del 1967, John Wesley Harding. Si tratta di un lavoro che la critica dell’epoca ebbe difficoltà a inquadrare, ma che a distanza di cinquant’anni possiamo considerare come uno dei dischi più riusciti e concept del cantautore nordamericano. Naturalmente non è un album rock né tantomeno psichedelico. Non regala nemmeno grandi momenti di energia, pur contenendo due classici dylaniani come All Along the Watchtower e I’ll Be Your Baby Tonight. Brani che sono stati ripresi da artisti come Jimi Hendrix, Robert Palmer, Linda Ronstadt ed Emmylou Harris. Dylan tesse questo allegorico arazzo del fuorilegge che prende le armi contro il mondo degli uomini e delle idee, cercando redenzione e libertà; alla fine trova la salvezza tra le braccia del suo vero amore, così come in Knockin’ on Heaven’s Door lo sceriffo aiutante di Pat Garrett, trovava invece la morte.

Purtroppo anche Sam Peckinpah trova la morte, quasi come un personaggio di uno dei suoi film, il 28 dicembre 1984. Per fortuna prima che il suo “pupillo” tornasse al cinema con il disastroso Hearts of Fire diretto da Richard Marquand e interpretato da Rupert Everett e Fiona Eileen Flanagan.

 

Testo a cura di Dario Greco

N.B.

Uno speciale ringraziamento ad Alessandro Aloe per la consulenza storica.