Recensione di Together Through Life
“Queste canzoni sono più fotografie istantanee che composizioni, ma potrebbe anche essere che alla fine, tutte assieme, facciano un’unica grande fotografia. E potrebbe anche non essere un lavoro artistico, ma qualcosa più funzionale, come la foto del passaporto di qualcuno che è sempre in viaggio per il prossimo concerto”
Bob Dylan è tornato ancora una volta, al suo meglio, come non faceva ormai da dieci anni forse. Questo nuovo lavoro è infatti la migliore produzione dylaniana dai tempi di Time Out Of Mind e Oh, Mercy. Forgetful Heart è quello che si dice un brano epico, uno dei migliori ruggiti del decennio da parte del cantautore statunitense. Si tratta di un pezzo in grado di convince sin dalla prima nota e dal primo verso. Chi meglio di Dylan potrebbe cantare di questo "cuore smemorato"? Nessuno saprebbe essere così convincente oggi, tranne forse il miglior Tom Waits.
Dylan ha scoperto il gusto dell’auto citazione, e Forgetful Heart richiama con vigore alle passate incisioni di Time Out Of Mind, Oh Mercy e Modern Times, ma lo fa con un dono di sintesi espressiva e lirica che forse era mancata in Modern Times, se prendiamo a modello il brano Ain ’t Talkin’ che può benissimo essere sovrapposto a Forgetful Heart.
Il banjo appalachiano di Donnie Herron, la fisarmonica zydeco di David Hidalgo e la chitarra a saturazione valvolare di Mike Campbell creano un connubio di nervi, sangue e sabbia, in bilico fra aria e fuoco. Prodotto da un settantenne, ma realizzato con la mano grintosa e professionale, manco ne potesse dipendere il proprio sostentamento.
Solo If you ever go to Houston (che ricorda vagamente Midnight Special) annoia a tratti, coi suoi cinque minuti, il resto è un capolavoro di sintesi, superiore in questo a Love and Theft e quindi rapportabile a Oh Mercy, almeno sotto il profilo della produzione. In questo disco possiamo sentire gli echi di Desire, Pat Garrett and Billy The Kid, e Time out of Mind.
La fisarmonica di Hidalgo e la chitarra di Campbell colorano panorami di sole e terra, come non si sentivano e vedevano da tempo e c’è quel tipo di energia che non ti aspetteresti su It's All Good e Beyond Here Lies Nothin’, così come c'è vigore sonoro anche in I Feel a Change Comin’On, ancora una citazione proveniente dai Basement Tapes e Planet Waves.
Tra fisarmoniche sporche di sangue e di sudore. Di recente è venuto a mancare uno dei più insoliti e schivi organisti e fisarmonicisti, Danny Federici della E Street Band, ed è molto bello che proprio Dylan abbia riscoperto con grande passione l’amore verso uno strumento così legato alla tradizione di in un certo folk come quello dei Calexico, che tanto bene avevano suonato le sue canzoni riproposte sulla colonna sonora di I’m Not There, la quale a ben pensarci era una sorta di imbeccata verso il Maestro. In particolare David Hidalgo coi Los Lobos aveva riproposto in versione zydeco Billy #1. Si tratta di musica di confine, tra il Messico e la redenzione, sospesa tra cactus e nuvole. E già si è parlato di una vicinanza fra questo Dylan e Willy DeVille.
Ritorna a livello testuale un'immagine che ossessiona e che Dylan ripropone spesso, quella di una porta: aperta, chiusa o solo immaginata.
Uno dei momenti più convincenti del disco è It’s all good, dove energia, ironia e rinuncia confluiscono nel grande fiume dell’ispirazione dylaniana, mentre intorno a lui i palazzi crollano e il pianto delle vedove si mescola al sangue degli orfani. Le svisate di basso in stile Rick Danko dei The Band ci accompagnano in uno dei brani più significativi dell’opera, I Feel a change comin’on, un brano che speriamo di ascoltare presto anche in versione live.
Cambiano le cose, cambiano i suoni e tutto sembra diverso. Però poi un voce, familiare, comprensibile arriva nelle nostre case, macchine, iPod e tutto il resto. E’ il nuovo disco di Bob Dylan, e soprattutto e' la voce autentica dell'America che fu... La voce di una rara e devastata umanità che sembra vacillare, ma non cede di un millimetro... perché quella voce non può cantare la resa, e neppure il crepuscolo degli Eroi... e' la voce della Gente, e' la voce di una generazione che ancora non cede il passo alla sconfitta...
Come ha detto RJ Eskow “Oggi Dylan non fa musica, lui è la musica!” Come dice Roy Menarini a proposito di Gran Torino, c’è un filo sottile che unisce la letteratura di Cormac McCarthy, il cinema di Clint Eastwood e i dischi di Dylan, sono questi autori gli ultimi bardi della “mitografia” di una Nazione… I dischi della Sun Records e della Chess, Elvis e Muddy Waters, Memphis e Chicago
Otis Rush e All your love, Willie Dixon e I Just Want To Make Love To You, Sam Cooke e A change is gonna come; insomma sembra davvero che ci sia il sangue del Paese nella sua voce!
Dylan canta con la consapevolezza del sopravvissuto, al proprio mito, all’America dei Faulkner e dei Twain, di Melville e di Masters, è lui probabilmente l’ultimo discendente di una stirpe ormai estinta di cantastorie
David Hidalgo suona frasi di fisarmonica a mezza strada fra i trilli d’organo di Al Kooper e la senile e sontuosa mano di Auggie Meyers… ma non è solo la fisarmonica l’arma vincente di questo disco, le chitarre trattenute e distorte ad opera di Mike Campbell, sono cuciture di cuoio essenziali nel loro ricamo avvolgente…
La seconda metà del disco si avvicina lentamente a pagine passate più elettriche e aggressive: c’è una maggiore presenza della chitarra elettrica e alla fisarmonica si sostituisce lentamente un violino country (in “This dream of you”) che non può che richiamare alla mente l’intensissimo e danzante “Desire” del ’76 (e in particolare Romance in Durango) ma anche le ballate meticcie del compianto Willy De Ville.
Dario Greco (scritto nel 2009)