lunedì 30 agosto 2021

Highway 61 Revisited Again

 

Highway 61 Revisited (1965)

How does it feel, How does it feel, To be on your own, Like a complete unknow, Like a rolling stone?  

Highway 61 Revisited è uno dei dischi spartiacque della storia del rock. Solo che quando uscì il concetto stesso di rock, senza roll, non era ancora stato delineato e messo a fuoco. Non solo: c'è da compiere diversi passi indietro, sostenendo come all'epoca, molti dei nostri eroi e miti musicali, non si erano ancora manifestati, o non stavano lottando per ottenere successo. In effetti prima di quel 30 agosto 1965, c'erano solo Dylan (non ancora affermato in ambito di musica elettrificata) i Beatles, gli Stones (che erano poco più di una promettente blues band), gli Animals e i Kinks. Basta così. Una lista breve, concisa. Dopo le cose sarebbero invece cambiate, un po' per tutti, inclusi i fruitori di musica pop rock. Le ragioni? Semplici. Questo disco oltre a contribuire a gettare le basi dell'ascolto di un 33 giri conteneva due brani la cui durata era superiore ai sei minuti. Uno di questi fece la storia del rock. Si tratta di Like a Rolling Stone. Dylan può piacere oppure no, ma questo classico della popular music resterà per sempre nel tempo e negli annali. E non è semplice resistere al tempo e a un autore così importante e influente. La canzone che diede il titolo al disco è formidabile nella sua sintesi, sotto il profilo sonoro, quanto sotto quello testuale. Cosa c’è di più innovativo e al contempo classico di mettere in scena un dramma di ispirazione biblico dove troviamo Dio e Abramo in un surreale dialogo che ha come sfondo proprio la Highway 61. Si tratta in effetti di una vera strada che collega il Minnesota con New Orleans, passando per Chicago, St. Louis e Memphis. Ed è di cruciale importanza sottolineare come per il giovane autore questa strada che conduce a Sud fosse di ispirazione come metafora della musica blues e delle radici sonore e artistiche di cui Dylan si è sempre detto affascinato. Una sorta di trovatore e di antropologo un po’ naif, ma proprio per questo capace di coniugare il proprio pensiero musicale con un modo nuovo di fare musica, che fino a questo punto in pochi avevano davvero esplorato e tentato di portare alla luce. È un lavoro di sintesi, che a un orecchio poco allenato potrebbe apparire rozzo e poco definito. In realtà Dylan e i musicisti coinvolti diedero vita a un lavoro maiuscolo per la forma canzone e per i limiti stessi del genere in termini di crossover. Tuttavia il merito, nuovamente va suddiviso tra il suo autore e i protagonisti che presero parte a questo capolavoro. Come era già successo pochi mesi prima, ma stavolta con maggiore continuità, Dylan realizza un lavoro in studio elettrico. Coinvolge infatti un gruppo di musicisti che lo affiancano contribuendo in modo sostanziale alla riuscita dei brani. In cabina di regia subentra Bob Johnston a Tom Wilson, che aveva prodotto i primi dischi di Dylan, incluso quello della svolta elettrica, Bringing it all back home. Stavolta però le cose vanno in modo diverso, nel senso che ci sarà più spazio e campo per la sperimentazione e soprattutto per l'improvvisazione. Secondo alcuni sarà il caos a regnare sovrano in tutte le sessions, ma il risultato finale ci dice qualcosa di differente. Ci dice che questo è probabilmente il più grande disco mai realizzato in carriera da Bob Dylan.

“Non sarò mai più capace di fare un disco migliore di questo. Highway 61 è troppo buono, c'è un sacco di roba che io vorrei ascoltare, lì dentro", disse lo stesso Dylan al suo biografo Anthony Scaduto.

Nove tracce dove l'unica più debole From a Buick 6 è un roco e teso up-tempo in chiave blues che nel contesto farà da collante tra It Takes a Lot to Laught e Ballad of a Thin Man, brano indebitato nei confronti di Ray Charles con un testo killer e un riff di organo memorabile, uno dei tanti colpi vincenti messi a segno in questo lavoro da Al Kooper, sì proprio lui, quello che non poteva sedersi dietro l'Hammond per eseguire il famoso suono che contribuirà al successo del singolo Like a Rolling Stone. Dylan però oltre che essere in stato di grazia compositiva, ha anche due ferri di cavallo sotto le suole delle scarpe. In quel momento qualsiasi cosa tocchi, diventa oro! Come lo sappiamo? Basti ascoltare il Bootleg Series Vol.12 The Cutting Edge. Storta va, deritta vene, sembra essere il suo motto. Oggi con la critica revisionista tutto questo potrebbe essere bollato come dilettantismo, infatti durante il 2020 se la memoria non mi inganna nessuno è andato vicino dal realizzare un disco lontanamente accostabile ad Highway 61 di Dylan, ma questa è un'altra dannata questione! 

Oh, Dio disse ad Abramo "Sacrificami un figlio" Abe disse "Amico, mi prendi in giro? "Dio disse "No", Abe disse "Cosa?" Dio disse "Puoi fare come vuoi Abe ma la prossima volta che mi vedi arrivare sarà meglio che teli" Allora Abe disse "Dove vuoi che avvenga questo omicidio?" Dio disse "Sulla Highway 61"

Cornice storica in cui venne registrato l'album

Anticipato dal singolo Like a Rolling Stone, pubblicato il 20 luglio 1965, Highway 61 Revisited estende la formula che si era già sentita su Bringing it all back home. A differenza del suo predecessore, con il quale condivide la base degli arrangiamenti blues, che determina almeno la metà del disco, qui trovano spazio un certo gusto per il pop, il doppio shuffle, ritmi discendenti stile Ray Charles e rock and roll. L’atmosfera e le vibrazioni dell’album riescono a catturare quello che stava accadendo durante quegli anni. Un suono umano e ruvido, come una copertina di Life, un discorso dove il senso di sfida e di consapevolezza si fa audace, visto che l’autore consapevolmente punta il dito verso tutto e tutti.

Secondo Joe Henry questo disco può essere paragonato a Citizen Kane di Welles e sul fronte musicale a incisioni come West End Blues e Now’s the Time, cambiando tutto quello che è venuto dopo. Per Bruce Springsteen “Quel colpo di rullante risuonò come se qualcuno avesse sfondato a calci la porta della tua mente. Un colpo di batteria che schiude un mondo, crea una storia che si fa leggenda. Secondo Uncut si tratta dell’evento culturale che ha cambiato il mondo. In questo disco c’è una aggressività di suono che segna un cambiamento deciso di rotta, dove a differenza di Bringing it all back home viene privilegiato un suono sporco, sbilenco, con gli strumenti molto vicini tra loro. Un aspetto questo, che se negli anni sessanta poteva risultare un errore, oggi ne fa aumentare il valore intrinseco. Il merito è in parte di Dylan e in parte del gruppo che lo accompagna. Qui troviamo infatti musicisti come Harvey Brooks, Sam Lay, ma soprattutto Mike Bloomfield e Al Kooper. Contribuisce solo per il brano Desolation Row, il pluristrumentista di Nashville, Charlie McCoy. Un breve film di 11 minuti e 18 secondi, secondo Tony Glover. È come se Billy Wilder venisse incontro allo stile surreale di Luis Bunuel.     

Le cover di rilievo nel tempo

Pochi dischi contengono canzoni che sono state reinterpretate da altri artisti come Highway 61. Citiamo qui solo gli artisti e le versioni più importanti per questioni di spazio. Jimi Hendrix non ha mai nascosto l’influenza di questo disco e la prova arriva dalla sua versione di Like a Rolling Stone. Brano che è stato eseguito, tra gli altri, da David Bowie, Rolling Stones, Bruce Springsteen, John Mellencamp, Johnny Winter e Judy Collins. Vanno poi ricordate le cover di artisti del calibro di Nina Simone, Neil Young, Grateful Dead, Billy Joel, PJ Harvey e Linda Ronstadt, tra gli altri. 

Considerazioni finali su Highway 61 Revisited

Non è il valore dei singoli brani o la somma di questo importante album a renderlo così celebrato nel tempo. Secondo il produttore e musicista Joe Henry, interpellato da Jon Bream per discutere di Highway 61: "Qui sembra di ascoltare persone che saltano fuori da un microfono. Questo avviene nei momenti migliore e nei solchi di un disco di valore assoluto. Il suono è totalmente elettrico e vivo, non si tratta di un documento con sigillo. Spesso Highway 61 mi fa questo effetto. Sembra che si stia ancora evolvendo, perché noi ascoltatori siamo così coinvolti, da evolverci mentre lo stiamo ascoltando. Non mi suona ancora come un progetto musicale concluso del tutto." Naturalmente tale dichiarazione va letta in un senso del tutto positivo che valorizza e aumenta le quotazioni di un disco che ha fatto e continua a fare epoca, nel contesto del rock d'autore. È innegabilmente uno dei lavori migliori di uno degli autori più influenti della storia musicale popolare del Novecento. Piaccia o meno, questo resta un dato oggettivo e fuori da ogni discussione di rilievo in campo musicale, testuale e di cornice storica. In attesa che venga scalzato dai nuovi autori di musica popolare e rock. Li attendiamo fiduciosi al varco, con la medesima aggressività che Dylan ha mostrato nelle liriche e nei suoi del suo capolavoro, Like a Rolling Stone.

Ezra Pound e T.S. Eliot combattono nella torre di comando mentre cantanti di calipso li deridono e pescatori porgono fiori tra le finestre del mare dove amabili sirene nuotano e nessuno deve preoccuparsi troppo di questo vicolo della desolazione.

Dario Twist of Fate

domenica 29 agosto 2021

Modern Times - Ritratto dell'artista da adulto (2006)

 

Segnali rivelatori dell’anziano menestrello (2006) 

È notte nella grande città. Una donna cammina a piedi nudi, con le scarpe a tacco alto in una borsetta. Un uomo si ubriaca e si rade i baffi. Un gatto rovescia una lampada. Un poliziotto fuori servizio parcheggia di fronte la casa dell’ex moglie.  

(Theme Time Radio Hour)

Modern Times è il 32esimo disco pubblicato da Bob Dylan per la Label Columbia. Come il precedente "Love And Theft" anche questo lavoro viene prodotto da Dylan e suonato con la band che in quel periodo lo accompagnava in studio. Per molti versi questo disco sembra una sorta di sequel del lavoro precedente. La critica ha parlato di una "potenziale trilogia" che andrebbe a concludere il discorso sonoro intrapreso con Time Out of Mind. Aspetto che tuttavia lo stesso autore ha escluso, affermando che se ci sarà una trilogia, questa è iniziata con Love And Theft. Diamo quindi per buone le dichiarazioni di un autore che nel tempo si è ammorbidito, sostituendo al suo stile di intervista criptico, una trasparenza che solo chi è in netta malafede può non riconoscergli. L'autore che si affaccia al pubblico nel 2006 è in effetti un nuovo performer, sotto molti punti di vista. Oltre a prodursi con successo i suoi dischi, Dylan ha infatti realizzato successivamente alla sua ultima prova in studio: un film, Masked And Anonymous (flop al botteghino, cult per i fedelissimi) un libro autobiografico (Chronicles), ma soprattutto il suo programma radiofonico Theme Time Radio Hour, che andrà in onda dal 3 maggio 2006 fino al mese di aprile del 2009.

Oltre alle uscite antologiche della Bootleg Series, giunte al volume numero sette, nel 2005 viene realizzato il film documentario No Direction Home, diretto da Martin Scorsese, che ripercorre la vita di Bob Dylan dai primi passi fino all'incidente in moto del 1966. Così per avere un quadro più esaustivo del momento storico e artistico, il Nostro cantautore americano preferito, è vivo e vegeto, quando darà alle stampe questo Modern Times. Disco stravagante e illuminato, riceve ancora una volta il plauso della critica unanime, salvo poi rivedere questa posizione quando il disco venderà bene (forse troppo!) , per via della mancanza dei soliti crediti, furto con scasso e plagi che Dylan opera con la solita capacità di tombarolo che gli andrebbe una volta per tutte riconosciute! Un Dylan in versione Arsenio Lupin

Stavolta di suo ci mette giusto la voce e la firma, almeno a sentire certi giudizi. Il titolo richiama al noto film di Charlie Chaplin del 1936, mentre molte canzoni sono in debito per quanto riguarda la struttura musicale e il contenuto testuale. Oggi, 2021 sappiamo bene che questo sarà uno degli ultimi lavori autografi (o semi-autografi) in 15 anni di attività musicale. Nonostante le polemiche, a nostro parere risibili, a causa dei testi simili a quelli del poeta Herny Timrod più qualche oscuro blues, Modern Times è un successo clamoroso, sia in termini di pubblico che di critica. 

Diverse riviste lo indicano come disco dell'anno e anche il rating attuale lo colloca tra i grandi capolavori, visto che oscilla tra il 9 e il 10 e tra le quattro e le cinque stelle, su prestigiose testate quali Uncut, Rolling Stone, Mojo e The GuardianPer Joe Levy di Rolling Stone l'album il "terzo capolavoro consecutivo" di Dylan, mentre Uncut lo ha definito un "sequel diretto e audace" di Love and Theft. Secondo Robert Christgau è un lavoro sorprendente capace di sprigionare bellezza con quella calma osservante da vecchi maestri che hanno visto abbastanza la vita per essere pronti a tutto. Si passa dal poeta William Butler Yeats a Matisse fino a giungere dalle parti di Sonny Rollins. Jody Rosen definisce Modern Times un lavoro migliore di Time Out of Mind e del maestoso Love And Theft: una delle migliori opere di Dylan dai tempi di Blood on the Tracks. Sul fatto che si possa definire un capolavoro senile moderno, siamo tutti d'accordo.

La band coinvolta vede uno stravolgimento della line-up rispetto a Love And Theft, dato che l'unico superstite è Tony Garnier al basso. Per il resto troviamo due nuovi chitarristi, con Denny Freeman e la vecchia conoscenza di Stu Kimball, il batterista George G. Receli, che da lì in poi sarà una presenza stabile per un lungo periodo e il polistrumentista Donnie Herron, che suona diversi strumenti a corda, dal vivo così come in studio. Il suono è questa volta meno calibrato e questo non sempre giova a bani che mediamente superano i sei minuti, ma l'atmosfera e l'intensità di certe performance, di alcuni versi e del disco, è più che riuscita, tanto che Modern Times se possibile sarà un successo maggiore rispetto ai due dischi che lo hanno preceduto. Vi sono senza dubbio almeno tre nuove canzoni che possono assurgere al ruolo di nuovi classici dylaniani. Il numero di rimandi, citazioni, strizzatine d'occhio è ancora una volta elevato. Questo lo si nota fin da subito dato che ad esempio il titolo del brano Workingman's Blues #2 è una citazione al brano di Merle Haggard del 1969, Workin' Man Blues. Come con il precedente disco si respira ancora una volta musica di genere blues, rockabilly e ballate pre-rock, in una parola: Americana.

Le canzoni che restano saranno principalmente le seguenti: Nettie Moore, Thunder on the Mountain, Workingman's Blues #2 e soprattutto Ain't Talkin'.

In merito a quest’ultimo brano è utile ricordare il punto di vista di Greil Marcus: “Dopo aver pronunciato le prime parole del testo, Dylan scompare. Sembra che a cantare il brano sia un’altra persona anziché il cantante che pensiamo di conoscere. Questo brano non ha una conclusione, e con le prime parole, Mentre uscivo, viene gettata un’ombra.” Il pathos e la capacità di farci vivere quell’istante in modo così vivido e reale è una qualità a cui raramente un disco e una canzone pop potranno ambire. Eppure Bob Dylan ci riesce e non ci conduce per mano in un posto sicuro. Tutto il contrario. C’è sgomento, thrilling, panico assoluto. Dylan esce allo scoperto in quanto è mosso da un autentico desiderio di puro istinto: la vendetta. L’autore dopo essere uscito e aver effettuato un percorso si ritrova in un mistico giardino. Sta parlando forse del suo Getsemani. Il brano resta irrisolto musicalmente e il testo si conclude con questi versi: Non parlo, soltanto cammino, su per la strada, dietro la curva. Brucia il cuore, ancora si strugge, nell'ultima retrovia alla fine del mondo. 

Morale della favola

Nel 2006 Bob Dylan partecipò a un concorso per sosia di Charlie Chaplin a Montecarlo e arrivò terzo, ex aequo con Arsenio Lupin.

Questo post è dedicato alla memoria dello scrittore Larry McMurtry.

 

Dario Twist of Fate

venerdì 20 agosto 2021

Slow Train Coming irrompe sulla scena Gospel (1979)

Il mio nemico indossa un’aureola di decenza

Bob Dylan è sempre stato un genio nel sottoporci il suo apparato immaginifico e nel farci provare certi sentimenti mostrandoci delle immagini ben precise. Così abbiamo questa idea del lento treno che sta arrivando, come metafora ideale volta a introdurre un nuovo tema, che sarebbe diventato il leitmotiv della fase Gospel durata due anni e mezzo lungo i quali Dylan darà alle stampe tre nuovi album con composizioni inedite. Visto oggi, attraverso un punto di vista retrospettivo, tutto ci appare differente, più semplice da recepire e da commentare. A quel tempo invece era più una cosa tipo: “Bene, ci siamo giocati Dylan. Lui farà questi album cristiani per sempre.” Abbiamo visto invece da vicino gli effetti sui fan dei cinque dischi dedicati al Great American Songbook (periodo Sinatra) e di come anche questa fase sia stata accolta con fastidio da parte di alcuni fandom del cosiddetto zoccolo duro. Il punto della questione è che il nostro autore, raramente è venuto incontro ai bisogni e ai desideri del pubblico. Tuttavia, se oggi il 79enne musicista del Minnesota ha tracciato un solco indelebile nella canzone nordamericana del secondo Novecento, le cose stavano diversamente in quell’estate del 1979. Bisogna capire il contesto in cui un disco come Slow Train Coming vide la luce. Registrato ai Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield, Alabama e prodotto da Jerry Wexler e Barry Beckett questo disco si segnala come uno dei migliori lavori, a livello tecnico ma pubblicati da Dylan. Il merito è in larga parte della produzione e dei musicisti che prendono parte alle sessions di Slow Train Coming. Lo stesso Beckett suona tastiere e percussioni, mentre le coriste sono Regina Havis, Helena Spring e Carolyn Dennis. Al basso troviamo il sempre valido Tim Drummond, la batteria è suonata di Pick Withers dei Dire Straits. Anche Mark Knopfler, con la sua chitarra contribuisce a delineare il sound di questo disco, con un Dylan che sa bene cosa vuole: un suono potente e robusto che vira decisamente sul funky. Non è un caso se Jann Wenner definì il lavoro come uno dei dischi migliori che il suo autore abbia mai realizzato. "Col tempo è possibile che arrivi a essere considerato il suo lavoro migliore". Queste dichiarazioni probabilmente nel 1979 potevano risultare pretenziose e un po' esagerate. Tuttavia se andiamo a ripercorrere la discografia di Dylan anni sessanta e settanta, in termini retrospettivi, non è facile trovare un disco registrato e suonato meglio rispetto a questo. L’apporto di ogni singolo musicista lo fa suonare davvero potente, più incisivo rispetto alla media. Pur muovendosi nei confini del genere gospel, il disco fa il suo dovere per i suoi 46 minuti e 19 secondi. Le critiche sono più che positive, nella maggior parte dei casi, in virtù di brani destinati a durare nel tempo. Titoli come Gotta Serve Somebody, I Believe in You o Slow Train, così come la seconda facciata dell’LP: tesa, vibrante e coerente.

“Cambierò il mio modo di pensare, mi darò un diverso codice di comportamento. Cambierò il mio modo di pensare, mi darò un diverso codice di comportamento. Devo partire col piede giusto e smettere di essere influenzato dagli imbecilli.”

Quando nel 1979 Dylan diede alle stampe il suo 19esimo album in studio, probabilmente non credeva potesse creare così tanto scompiglio tra il pubblico e a livello di critica. La svolta Gospel del Nostro era avvenuta già con l'album precedente, Street Legal (1978), un lavoro accolto in modo piuttosto ostile, soprattutto in America a livello critico, con il puntuale Greil Marcus a cui si aggiunge Dave Marsh, il quale affermava di non aver capito lo scopo di questo lavoro. Una critica che soprattutto in Europa suona indecifrabile visto il valore dei brani e del risultato d'insieme per un disco che il pubblico ha apprezzato fin da subito. Nel Regno Unito arrivò celermente al secondo posto per la classifica di vendite. In sede retrospettiva c’è da capire perché Dylan sia stato così spesso frainteso. Probabilmente ha avuto un ruolo il suo eclettismo, musicale e testuale, aspetto che molte volte ha spiazzato critica e pubblico. Nel 1979 l'autore aveva alle spalle già 17 anni di carriera, dove pesavano in maniera determinante le produzioni realizzate negli anni sessanta a cui bisognava aggiungere due successi come Blood on the Tracks e Desire. Lavori che erano stati accolti molto bene dalla critica che li aveva salutati come un tanto atteso ritorno sulle scene, senza perdere credibilità e con pezzi pregiati che andavano ad arricchire in maniera sostanziale il suo repertorio. Brani come Senior o altre cose contenute in Street Legal facevano presagire gospel, inni e canti di chiesa, bianchi e neri sono centrali già nel disco che aveva preceduto Slow Train Coming. Changing of the Guards ha qualcosa di spirituale, oltre ai toni apocalittici, sembra quasi una marcia di tipo laico ma che richiama appunto al gospel e agli inni sacri, seppur in modo personale, come era solito fare l'autore durante i suoi lavori passati.

Sant’Antonio predicava ai pesci per confondere le acque, mentre Dylan registrava il suo primo album Gospel per ritrovare sé stesso, dopo un decennio piuttosto complicato, ma non privo di guizzo, estro e inventiva. Ascoltare Slow Train Coming dopo Trouble No More - The Bootleg Series 13 aiuta molto in termini di rivalutazione critica retrospettiva. La qualità delle canzoni, sotto il profilo sonoro è sempre stato uno dei punti di forza di questo lavoro. La produzione e il sound ancora oggi sono dominanti e danno la dimensione della potenza di fuoco che Dylan e il suo ensemble erano capaci di produrre. Ma è arrivato il tempo di rendere giustizia anche per quel che riguarda l’ideologia e il lavoro di tipo testuale. Fatta salva qualche eccezione, dove il nostro artista pare in debito di ispirazione, i testi sono di buonissima levatura. Difficile trovare difetti in brani come Do Right To Me Baby, Precious Angel, Gotta Serve Somebody e soprattutto Slow Train e Gonna Change My Way Of Thinking. Purtroppo la critica militante anni settanta di rende per l’ennesima volta colpevole del peccato originale: dire a Dylan cosa deve fare, cosa deve suonare e che cosa dovrebbe scrivere. Puttanate del tipico puritanesimo di matrice anglosassone. Ancora una volta Greil Marcus non perde occasione per mostrare la propria miopia quando si tratta di scagliare la prima pietra che rotola nei confronti del suo amato-odiato Dylan. Il problema è che sono critiche che accusano l’autore di non essere ironico, di prendere troppo sul serio il tema evangelico, di furore messianico. Nella critica scagliano saette e giudizi, senza ascoltare il proprio cuore e senza avere un punto equidistante che si richiede a chi si occupa di critica musicale. Come al solito, il tempo darà ragione all’artista, ma non è certo una novità. Diciamo pure che già a partire dal lavoro che lo aveva preceduto, la critica Usa perderà di vista Dylan, per poi ritrovarlo solo nel 1983, quando darà alle stampe Infidels. Ed è un peccato perché questa fase gospel merita una adeguata rivalutazione in sede critica. Ci siamo anche un po’ stancati di leggere nel 2021 certe critiche prive di senso estetico e figlie di preconcetti su cosa sia gospel e cosa possa essere accettato da un artista che in quasi sessant’anni di carriera discografica ha toccato con mano sensibile ogni genere, arrangiamento e stile appartenente alla tradizione della canzone nordamericana. Risulta poi incomprensibile non accorgersi dei legami tra questo lavoro e alcuni illustri predecessori come John Wesley Harding e The Times They Are a-Changin’. Probabilmente i crediti illimitati in sede critica si erano esauriti, visto che oggi possiamo con facilità e coerenza collocare Slow Train Coming tra i tasselli a tema religioso e spirituale di un autore che non ha mai nascosto il proprio punto di vista sul mondo, a volte inattuale e scomodo, a volte solo in anticipo sui tempi. Questo album dice è in arrivo un cambiamento per l’umanità. Un messaggio coerente per un autore che aveva scritto i tempi stanno cambiando.

Slow Train Coming è senza dubbio uno dei dischi che ha risentito di un giudizio poco obiettivo e centrato della produzione dylaniana. A nostro parare è musicalmente tra i migliori 10 album mai realizzati dal Nostro. Vecchio Testamento permettendo!

Questo lento treno è destinato alla Gloria!

 

Dario Twist of Fate  

domenica 8 agosto 2021

L’altra faccia della medaglia dylaniana


Another Side of Bob Dylan (1964)

In posa militare, puntavo la mano verso quei cani bastardi che insegnavano, senza preoccuparmi del fatto che sarei diventato il mio nemico nel momento stesso in cui avrei cominciato a pontificare. La mia esistenza guidata da battelli in confusione ammutinati da poppa a prua. Ah, ma ero molto più vecchio allora, sono molto più giovane adesso.

 (Bob Dylan) 

Non ci voleva poi così tanto a capire che l'artista che pubblicò il suo terzo album autografo (quarto in totale) era già una persona differente rispetto a quella che aveva composto un anno primo il suo disco più impegnato e politico. Forse il titolo non è il modo migliore per marcare la distanza e il cambio di passo, ma Another Side of Bob Dylan è senza dubbio la più convincente fotografia di un autore all'epoca 23enne che stava tentando di affrancarsi dall'immagine che gli volevano costruire attorno. Oggi basta fare qualche ricerca in rete per trovare una miriade di articoli, alcuni molto esaustivi, che tracciano la distanza tra il disco precedente e tutto ciò che sarebbe arrivato, da adesso in poi. Con le dovute differenze Another Side of Bob Dylan è molto più connesso e collegato alla trilogia elettrica e non ai due album autografi che lo avevano preceduto. In particolare troviamo testi e canzoni che hanno davvero molto poco a che vedere con il folk revival di cui Dylan aveva condivido idee, grammatica fondamentale e un certo radicalismo anni trenta. La netta distanza tra il brano che chiudeva The Times They Are A-Changin' e questo nuovo lavoro, appare evidente già dalle prime note e dal tono che accompagnano l'opening di All I Really Want to Do. Bisogna essere ciechi e soprattutto sordi, per non capire che è in atto un cambiamento epocale per l'autore di Blowin' in the Wind. Sia chiaro: Dylan non rinnega e non tradisce niente e nessuno. È solo andato oltre; ha gettato il cuore oltre l'ostacolo e ha vinto la sua battaglia personale. Qui infatti il giovane cantautore diventa un vero artista, affrancandosi dai movimenti e dal genere folk. Lo aveva detto a caratteri cubitali ed è bene riaffermarlo qui, in chiave retrospettiva.

"Qui dentro non ci sono brani che puntano il dito. Quei dischi li ho pubblicati e li difendo, ma in parte erano fatti per essere ascoltati, perché segnavano a dito tutto ciò che non va. Non voglio più scrivere per la gente, né fare discorsi. D'ora in poi voglio solo scrivere dal profondo di me stesso."

Un manifesto programmatico difficile da fraintendere. È vero che Bob Dylan tornerà su queste parole e saltuariamente sarà ancora quella "voce di protesta" che scrive "per la gente", ma è innegabile come con la trilogia composta da Bringing it all back home, Highway 61 Revisited e soprattutto con il capitolo finale, Blonde on Blonde, darà un taglio netto alle sue pagine passate. My Back Pages, appunto. Queste undici tracce possono disorientare, stordire e far gridare al traditore, ma sono il punto di vista di un giovane autore nel fiore degli anni. Non più quello stile narrativo con cui si era imposto, ma pura poesia astratta, dove trovano posto stati mentali impressionistici come il seguente:

“Attraverso il folle e mistico martellare dell'incessante grandine picchiettante. Il cielo faceva esplodere i suoi poemi in nuda meraviglia che il tintinnare delle campane della chiesa soffiava lontano nella brezza, lasciando solo campane di fulmini e il loro tuono che colpiva per i cuori nobili, colpiva per il mite, colpiva per i guardiani e i protettori della mente e dietro al pittore indomito prima che venisse la sua ora e osservammo i lampeggianti rintocchi di libertà.”

Riascoltare oggi e perdonare qualche sbavatura e alcuni passaggi che girano forse a vuoto, significa dare una dimensione del lavoro di un musicista che in appena cinque anni contribuiva a rendere più netto il cambiamento con tutto quello che l'America, la popular song e la musica poteva rappresentare. Diverse forze stavano ridisegnando lo stile di Dylan. 

Un autore sensibile che dirà al suo biografo Anthony Scaduto: “Sapevo che i Beatles puntavano nella direzione in cui la musica sarebbe andata. Non volevo snobbare gli altri, ma per me loro erano la cosa.” Non è semplice scrivere e commentare un lavoro che ha fatto la storia della canzone d'autore e che forse per Dylan è stato il passo più audace della sua carriera. Qui infatti non avviene ancora la svolta elettrica, ma il modo di suonare e di interpretare i propri brani è nettamente diverso, più pop, più orientato verso un modo nuovo di fare dischi. Le canzoni a modo loro, siano esse i grandi capolavori o episodi minori e forse trascurabili, svolgono il loro ruolo. Incredibile, ma vero Another Side of Bob Dylan venne registrato in un’unica sessione. C’è un aspetto che bisogna sottolineare, la voglia di divertirsi e di divertire di queste canzoni. Eppure dietro certi bozzetti frivoli, l’autore infila scene e immagini da Apocalisse, ed è questa la sua abilità, la grande cifra stilistica di un giovane e audace troubadour. Come sottolineano Ric Ocasek e Ike Reilly Dylan esegue tutte le canzoni accompagnandosi solo con la chitarra acustica. E in questa occasione si tratta di arrangiamenti in grado di supportare seriamente melodia, testi ed esibizione. Si è detto poche volte che è un chitarrista acustico formidabile, ma in questa occasione è importante ribadire il concetto. 

Perché c'è un vero calderone di idee, immagini e suggestioni in titoli come Spanish Harlem Incident, Ballad in Plain D o Motorpsycho Nitemare, sono episodi unici nel canzoniere dylaniano, figlie di quei turbolenti e suggestivi anni sessanta. Proprio in Motorpsycho Nitemare Dylan trae ispirazione dall'universo cinematografico di due registi come Federico Fellini e soprattutto Alfred Hitchcock ribaltando i principi cardine di Psycho.

La canzone è infatti una parodia ispirata alle barzellette di commessi viaggiatori, dove il protagonista si presenta in una fattoria in cerca di un posto dove passare la notte, solo per essere attirato dalle tentazioni della figlia del contadino. Dylan sposa le trame di base del film e scherza per creare un racconto umoristico con un accenno politico. Oggi forse alcune cose potrebbero apparire un po' naif e acerbe, ma furono da apripista per quello che sarebbe arrivato dal disco successivo a seguire. Fatto non trascurabile il brano Mr. Tambourine Man, non presente nella versione finale del lavoro, venne composta ed eseguita in una prima versione proprio per Another Side of Bob Dylan.

La critica lungimirante

David Horowitz definì le canzoni un fallimento assoluto di gusto e di consapevolezza autocritica. Dylan ammise nel 1978 che il titolo dell'album non era di suo gradimento. "Ho pensato che fosse troppo banale", ha detto, "mi ha creato un po' di problemi un titolo come questo".

Domanda da sempliciotto di periferia: "Era così difficile capire l'ironia di Dylan nel '64?"

Dici di cercare qualcuno che non sia mai debole ma sempre forte, per proteggerti e difenderti quando hai ragione o quando hai torto. Qualcuno che ti apra una a una tutte le porte, ma non sono io, babe.

Dario Twist of Fate