mercoledì 31 gennaio 2024

Un altro brutto, inutile articolo su Bob Dylan!



Post aggiornato al 31 gennaio 2024

Oh, no! Ci risiamo! Ecco un altro brutto articolo su Bob Dylan! 

E' ormai consuetudine per chi frequenta la blogosfera e per i tanti naviganti del web incappare in un nuovo brutto articolo su Bob Dylan. E non sono solo i blogger a riempirci di inutili ed inesatte notizie sul musicista statunitense. Una prassi dei cronisti del web è ripercorrere i suoi 50 anni di carriera con una carrellata degna delle migliori pellicole di Kubrick. Qui si scoprirà che Dylan, dopo aver fatto parte del movimento dei diritti civili e della controcultura anni '60, passò al folk-rock influenzato dai Beatles, e a cominciare dal 1965 vestì con strumenti elettrici le sue canzoni. Immancabile l'incidente in moto che segnò il suo ritiro dalle scene, la sua svolta in stile country Nashville, il suo disco peggiore, Self Portrait, la colonna sonora del film Pat Garrett and Billy the Kid che contiene la celebre Knockin' on heavens door poi ripresa dai Guns'n' Roses. Il ritorno sui palchi con i The Band è del '74. Poi il ritorno all'impegno col brano Hurricane in difesa del pugile nero Rubin Carter, ingiustamente accusato di omicidio. La svolta religiosa del '79 e il periodo di cristiano rinato con dischi gospel soul. E mi fermo qui, vi voglio risparmiare gli anni ottanta. 

Non so se avete notato, ma ho parlato di tante cose meno che di musica, di dischi e di fatti veramente rilevanti. E in tutto questo voglio farvi notare un' altra cosa. Siamo nel 2010 e se proprio vogliamo ripercorrere la carriera di Dylan a ritroso perché non cominciare dagli anni recenti. Dal 1989 ad esempio o dal '97. Parlare ad esempio di dischi come Oh, Mercy Time out of mind o Love and theft potrebbe aiutare a contestualizzare Dylan nel giusto periodo storico musicale. Che senso ha dire che Dylan non suona più la chitarra acustica nei concerti, che le sue canzoni sono irriconoscibili, che la sua band è mediocre, che non ha più voce. Tutte cose davvero inutili e che poi servono a concludere questi brutti articoli scritti solo per dovere di cronaca. A proposito Dylan è attualmente in tour, da circa vent'anni e dal 2006 ad oggi ha pubblicato Modern Times, Tell Tale Signs, Together Through Life e Christmas In The Heart. E nonostante il mio brutto e sarcastico post è considerato una delle figure più rilevanti della seconda metà del novecento, un musicista caparbio e uno dei maggiori autori di canzoni vivente. 

Questo post l'ho scritto nel 2010, ma strano a dirsi, è ancora oggi relativamente attuale, odierno. Purtroppo è stato rilasciato un nuovo documentario sugli anni ottanta, per nostra fortuna Dylan ha un ruolo marginale, se non del tutto cosmetico. Nonostante questo il suo nome, strano ma vero, sta sempre in testa al cartellone. Perché Bob Dylan è il MENESTRELLO, l'eroe proletario che flagella la propria coscienza. Non serve a nulla sottrarsi in questo gioco al massacro. Solo una pedina nel loro gioco, cantava un giovane ma scaltro cantautore negli anni Sessanta. Non cambierà nulla. Passano gli anni e siamo ancora costretti a sentire e a leggere fesserie su Dylan. Oltretutto si potrebbe semplicemente dire che a Dylan la canzone non piaceva. Appare evidente e se non sbaglio dopo qualche tempo l'ha pure detto a chiare lettere. Eppure c'è sempre il Mister Jones di turno, che anziché fare un po' di inchiesta, sforzarsi di capire il motivo della presenza di Dylan durante la registrazione di WE ARE THE WORLD, continua a sciorinare le solite cavolate, sul fatto che Dylan non sia in grado di cantare due versi di un brano pop zuccheroso, tutto retorica e buoni propositi democratici. Va bene, ve lo dico io allora come stavano e come stanno le cose, il pezzo sembra un jingle pubblicitario brutto, Dylan cambia idea e si rifiuta di incidere la sua parte. O meglio fa resistenza. Però poi si arrende alle giuste richieste del produttore Quincy Jones, di Stevie Wonder, coinvolto nel progetto dalle prime battute, da fonici e assistenti di produzione. Viene incoraggiato e alla fine, la sfanga. Di mestiere, di malavoglia. 

E non serve essere grandi firme del giornalismo musicale per capirlo, per vedere. E' una cosa palese, evidente. E sì, tutta l'operazione era e resta discutibile, una gran porcata, artisticamente parlando. Non conoscevo alcuni dettagli e consiglio a tutti la visione di questo CAPOLAVORO degli anni anni ottanta, che si intitola WE ARE THE WORLD: LA NOTTE CHE HA CAMBIATO IL POP. 

Titolo onesto, che non nasconde la sua natura smargiassa, pomposa e autocelebrativa. Con buona pace di chi sostiene a distanza di 39 anni che Dylan abbia fatto una figuraccia in mondovisione. La figuraccia per me l'ha fatta chi scritto, suonato e prodotto questa spazzatura che ebbe un successo commerciale senza precedenti. Personalmente non mi interessa conoscere i motivi per cui Dylan abbia voluto partecipare. Per me è stato un errore, uno dei tanti, troppi passi falsi del suo decennio nero, gli anni Ottanta!

lunedì 15 gennaio 2024

I 50 anni di Planet Waves

 

Planet Waves (1974) 

“Così canta la tua glorificazione del progresso e della macchina del giudizio. La verità nuda è ancora proibita dovunque possa essere vista.”

Discutere e analizzare in termini retrospettivi alcuni dischi di Bob Dylan è una buona occasione per mettere meglio a fuoco la sua produzione in studio. Specialmente quando si tratta di commentare un album frainteso come Planet Waves del 1974. I più anziani di voi certamente ricorderanno la pessima abitudine di metà anni novanta di descrivere un artista e un prodotto artistico come "commerciale". Probabilmente questo termine prese piede per via del genere di musica dance, conosciuto nel nostro Paese proprio con il nome di Commerciale. Ecco, questo album all'epoca della sua uscita venne bollato come "il disco commerciale di Bob Dylan", mentre avrebbe potuto essere uno dei suoi grandi ritorni. In effetti ci sono molte novità e qualche sguardo al passato. Le due novità più rilevanti sono il fatto che questo disco venisse prodotto e registrato nella West Coast, durante un momento dove la musica californiana stava prendendo il sopravvento rispetto alla East Coast dove Dylan si era fatto conoscere e si era affermato. La seconda novità riguarda l'etichetta, non più Columbia, a Asylum Records, che significa in pratica David Geffen ed Elliot Roberts, due nomi che non hanno certo bisogno di presentazione. A queste due novità sostanziali bisogna inoltre aggiungere un elemento che collega questo disco con gli anni sessanta di Dylan, quindi un ritorno alle radici e al suo passato: Planet Waves vede come gruppo di accompagnamento The Band. Nonostante il sodalizio artistico tra Dylan & The Band risalga al 1965, questa è la prima volta e unica volta in cui il cantautore registrerà in studio un disco con gli ex-Hawks. È vero, c'era già stato The Basement Tapes, ma come sicuramente saprete quello non era nato come un progetto ben definito e comunque non è stato registrato in un vero studio. Le uniche sessions in studio con The Band sono quelle poi scartate da Blonde on Blonde, che spinsero Dylan e il suo produttore a lasciare New York per incidere a Nashville, ma quella è un'altra storia.

Planet Waves risente in termini di accoglienza critica di una duplice ostilità nei confronti del suo autore. Tuttavia il disco ottiene per la prima volta il numero uno in termini di vendite per il mercato statunitense. Le critiche sono tendenzialmente favorevoli, ma spesso fuori bersaglio. Si pensi ad esempio a questa affermazione da parte di Ellen Willis del New Yorker: "Credo che le parole siano intese come riempitivo, qui Dylan sta tentando di sottrarsi alla sua reputazione di poeta per farci concentrare sulla musica".

Quella che sembra una critica nemmeno così feroce, rispetto a quei buontemponi di Landau, Marcus e Marsh, è in effetti una delle considerazioni più errate di sempre. Prima di tutto Dylan non si reputa poeta e non ha mai affermato di scrivere per dare maggior peso alle parole. Questa è il punto di vista della critica, che durante gli anni abbiamo poi scoperto essere un po' impreparata sul discorso puramente sonoro. In pratica è facile prendere un disco di Dylan e scrivere qualche cartella sul presunto significato di questo e di quel testo. Che egli fosse un autore sfuggente e un po' enigmatico ci sono pochi dubbi, ma resta il fatto che nella maggior parte dei casi non abbia avuto un pari trattamento rispetto ai suoi illustri colleghi e questo considerando la sua importanza e la carriera longeva e ricca di successi, appare una questione difficile da comprendere, in termini retrospettivi.

Planet Waves non è quindi il sequel di New Morning, nonostante sia la prima vera raccolta di brani inediti pubblicata a tre anni di distanza da quel disco. Il valore dei testi e delle canzoni non ha bisogno di alcuna difesa d'ufficio. A parte il successo di Forever Young, diventata una delle canzoni simbolo del suo autore, bisogna citare brani di spessore come Dirge, Wedding Song e Going Going Gone. Di questo disco registrato durante il mese di novembre del 1973 bisogna dire che forse non è il suo lavoro più ispirato e coeso, ma contiene almeno metà dei brani che sono sopra la media, come Hazel, Never Say Goodbye e You Angel You. Certo, ci sono anche pezzi come On a Night Like This che potevano essere risolti meglio, ma qui era importante tornare sulla strada e riprendere da dove la giostra aveva lasciato esattamente ben otto anni prima.

Eppure questo Planet Waves spicca come lavoro, in quanto diverso rispetto agli altri. Più apertamente personale: un dilemma pratico ed estetico, del suo autore nei confronti della consorte. Un buon disco, a tratti notevole, a tratti trascurabile, ma comunque gradevole. Lavoro ragguardevole, ma strambo. Forse l'elemento di disturbo, ingombrante è proprio The Band, da cui francamente chiunque sia appassionato di rock si aspetterebbe qualcosa in più. Per Jim Beviglia alcune esecuzioni risentono infatti del "pilota automatico" innestato da Levon Helm, Rick Danko, Garth Hudson, Richard Manuel e Robbie Robertson. Ci sono momenti in cui questo lavoro è semplicemente fantastico, altri in cui sembra un po' rigido e messo in circolazione in maniera un po' frettolosa. Premesso che oggi un disco così sarebbe acclamato come un capolavoro assoluto, bisogna escludere dal concetto di pilota automatico gli incastri e le dinamiche che fanno di Going Going Gone, di Forever Young, di Hazel e di altre tracce che si avvalgono invece di esecuzioni importanti, oggi storiche per la canzone rock seventies. Dylan sta per tornare, e se anche fosse in una fase strana e "commerciale", che male c'è? 

Troviamo che il disco sia ben realizzato e con quattro, cinque brani che suonano tra i migliori di sempre realizzati in studio. Non tutti sanno che in questo lavoro c'è un omaggio e un debito verso uno degli autori chiave di Bob Dylan. Si tratta di Jack Kerouac e del suo meraviglioso Angeli di desolazione. Per chi fosse interessato consiglio la lettura del capitolo 15, prima parte, Desolazione nella solitudine. Detto questo, la cosa che ci crea un po' di rammarico, in questa occasione è la scelta del titolo. Nonostante Planet Waves sia un funzionale claim da copywriter, gli avremmo preferito il più suggestivo Ceremonies Of The Horsemen, una citazione dal brano del 1965 Love Minus Zero/No Limit. Il disco compie oggi 50 anni. Uscì infatti il 17 gennaio del 1974. 

Ci sono colori i quali adorano la solitudine, io non sono uno di loro. In quest'epoca di vetroresina sto cercando una gemma. La sfera di cristallo non mi ha ancora mostrato niente. Ho pagato il prezzo della solitudine, ma finalmente non ho più debiti.

Dario Greco