sabato 31 dicembre 2022

Il sodalizio artistico tra Dylan, Harrison, Petty, Orbison & Lynne


Bob Dylan & The Traveling Wilburys Project 

“L’epoca in cui ogni mio concerto era occasione di grandi sommovimenti aveva già subìto una brusca frenata, ormai si era fermata. Troppe volte mi ero dato la zappa sui piedi. Bisogna saper onorare gli impegni, non sprecare il proprio tempo e quello degli altri. Non era sparito dalla scena, ma la strada si era ristretta, si era quasi interrotta e invece avrebbe dovuto essere ben larga. Dentro di me c’era una persona scomparsa che dovevo ritrovare. In natura c’è un rimedio per tutto ed era lì che di solito andavo a cercare il mio. Magari mi ritiravo su una casa galleggiante, sperando di sentire un’antica voce, avanzando lentamente l’imbarcazione tirava a riva su una spiaggia riparata, di notte, in mezzo alla natura, popolata da alci, orsi e cervi tutto attorno a me. Non molto distante avvertivo la presenza di un lupo grigio, quiete sere d’estate ad ascoltare il richiamo della strolaga. Mi sentivo finito, un rottame vuoto, consumato. Dovunque io sia, sono un trovatore degli anni settanta, un relitto del folk-rock, un fabbro di parole dei tempi andati, il falso capo di stato di una nazione che nessuno conosce. Finito nel pozzo senza fondo dell’oblio culturale.” (Bob Dylan, Chronicles Volume One)

C’è un momento in cui bisogna essere obiettivi: i colorati e frivoli anni ottanta raramente sono stati un periodo felice per Bob Dylan. Specialmente a partire dal 1985 il cantautore americano è apparso un po’ opaco e fuori forma, rispetto ai suoi elevatissimi standard. Tuttavia dopo la pubblicazione di Down in the Groove, album che merita ugualmente una rivalutazione critica e una contestualizzazione differente, Dylan torna a produrre dischi capaci di intercettare e di coinvolgere nuovamente il suo network, facendo addirittura gridare al miracolo e al capolavoro. Si tratta di Oh, Mercy, prodotto da Daniel Lanois e pubblicato il 18 settembre 1989. Che cosa aveva riportato il cantautore sulla retta via dell’ispirazione come non avveniva da tempo?

Le risposte possono essere molte. Formalmente Dylan apre quello che in seguito sarà chiamato NET, Never Ending Tour il 7 giugno 1988. Appena un anno prima si era unito ai Grateful Dead per un breve tour, di cui possiamo ascoltare il live ufficiale Dylan & The Dead, pubblicato a febbraio del 1989, mentre facendo un ulteriore passo indietro si torna al 1986, anno del True Confessions Tour con Tom Petty and The Heartbreakers. L’esperienza dal vivo con The Heartbreakers come backing band si concluderà l’anno seguente con il Temples in Flames Tour. Tra un tour e l’altro Dylan diede alle stampe Knocked Out Loaded e il già citato Down on the Groove. Knocked Out Loaded segue per certi versi il più meritevole Empire Burlesque, album del 1985 che vede tra i musicisti impiegati alcuni elementi degli Heartbreakers come Howie Epstein, Mike Campbell e Benmont Tench. Il tastierista di Tom Petty aveva iniziato la collaborazione con Dylan già con Shot of Love del 1981 e in seguito prenderà parte anche alle sessions di Rough and Rowdy Ways, 39esimo lavoro in studio pubblicato lo scorso 2020. Anche Mike Campbell prenderà parte a un disco di Bob Dylan come unico elemento degli Heartbreakers. Sono sue le chitarre che caratterizzeranno un disco solido e coeso come Together Through Life, 33eesima prova in studio del cantautore americano.

Avevo fatto diciotto mesi di tournée con Tom Petty and The Heartbreakers, che sarebbe stata l’ultima. Mi sentivo tagliato fuori da ogni forma di ispirazione. Tom stava dando il meglio di sé e io stavo dando il peggio. Non riuscivo a superare gli ostacoli, tutto era pezzi. Il mio momento era passato. Adesso con Petty si trattava di arrivare alla fine del mese, dopo di che avrei detto basta. Ero ormai sulla china discendente e se non ci stavo attento rischiavo di ritrovarmi a gridare al muro, pieno di furia e con la bava alla bocca. Lo specchio aveva fatto un giro su stesso grazie al quale vedevo nel mio futuro: un vecchio attore che rovista nei bidoni della spazzatura fuori dal teatro dove un tempo aveva trionfato. Avevo scritto e inciso tantissime canzoni, ma non ne suonavo molte. Mantenevo le apparenze, ma per quanto mi sforzassi, i motori non si mettevano in moto. Benmont Tench, uno dei musicisti della band di Tom Petty, mi chiedeva sempre di inserire diversi pezzi nello spettacolo, ma io tiravo fuori qualche povera scusa per non provarle. Dopo essermi affidato così tanto all’istinto, questo si era trasformato in un avvoltoio che mi stava lentamente dissanguando. Anche la spontaneità era diventata una capra pazza. I miei covoni non erano stati legati tanto bene al suolo e io cominciavo ad avere paura del vento. La tournée era divisa in parti e durante uno dei tempi morti Elliott Roberts mi aveva trovato dei concerti con i Grateful Dead. (Bob Dylan, Chronicles Volume One)

La collaborazione tra Dylan e Tom Petty (band inclusa) caratterizza la seconda parte degli anni ottanta. Insieme i due scrivono Jammin’ Me e Got My Mind Made Up che finiranno rispettivamente su Let Me Up (I’ve Had Enough) e su Knocked Out Loaded. Ora senza nulla togliere ai brani scritti in collaborazione, è indubbio che il meglio di questo featuring venne realizzato attraverso le esibizioni live del 1986 e del 1987. Per nostra fortuna però il caso vorrà che le strade di Bob Dylan e di Tom Petty si incroceranno ancora, anche se mancherà l’apporto degli Heartbreakers.

Dario Greco

- FINE PRIMA PARTE -


venerdì 30 dicembre 2022

Time Out of Mind (1997)

Time Out of Mind (1997)


Un trionfale ritorno per Bob Dylan. Time Out of Mind è il trentesimo lavoro in studio di Bob Dylan, nonché uno dei suoi più grandi successi, riconosciuto dalla critica, dal pubblico, e per una volta anche dai premi che ricevette. Oggi può suonare strano, ma questo disco venne salutato come Album of the Year, davanti a produzioni come Flaming Pie di Paul McCartney e OK Computer dei Radiohead. Nonostante venga pubblicato come cd singolo, Time Out of Mind è in realtà un doppio album in studio. Wikipedia afferma si tratti del primo doppio dai tempi di Self Portrait (1970), ma in realtà l’ultimo era stato The Basement Tapes (1975). La durata complessiva sarà di 72 minuti e 50 secondi, con il solo brano Highlands che raggiunge doppia cifra, arrivando a 16 minuti e 31 secondi. Registrato negli imponenti Criteria Studios di Miami, il lavoro si avvale nuovamente di Daniel Lanois in cabina di regia. Per certi versi possiamo considerarlo una sorta di sequel di Oh Mercy, nonostante vi siano alcune evidenti differenze, nel suono, nell'impostazione e nella realizzazione. Il suo autore qui sembra avere maggior controllo e liberà di movimento. Laddove Oh Mercy era un lavoro agile, breve e conciso, Time Out of Mind, pur avendo un marchio preciso che lo definisce nel suono e nell'atmosfera, ricorda per certi versi il metodo di lavoro che Dylan avevano adottato con successo, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. È un disco molto cupo, a tratti deprimente, ma che al suo interno contiene una delle migliori raccolte di canzoni dai tempi di Blood on the Tracks, Desire e Infidels. In più, rispetto a quel tipo di lavori che i fan di Dylan hanno apprezzato e amato nel tempo, questo disco è stato capace di mettere d'accordo un po' tutta la comunità musicale, sia quella del blues e del country, ma soprattutto quella più eterogenea del rock, per via del suo suono gonfio, presente e per una volta ben centrato e calibrato, durante gli episodi maggiori dell'album.

È innegabile come l'autore che si presenti in studio sia in stato di grazia a livello compositivo. Non è un caso se dal cilindro riesca a togliere fuori oltre alle sue solite ballate ispirate anche un singolo di successo come Make You Feel My Love, che verrà in seguito ripresa da diversi artisti come Billy Joel, Adele, Bryan Ferry e Garth Brooks. Tornano i grandi testi e possiamo affermare di ascoltare almeno quattro nuovi classici dylaniani, altrettante canzoni di valore assoluto e forse giusto due-tre riempitivi come 'Till I Feel In Love With You, Dirt Road Blues e Million Miles. Le atmosfere richiamano certi western crepuscolari sulla fine del mito della frontiera e lo stesso Greil Marcus, dirà che il disco gli ricorda per certi versi uno score alternativo degli Spietati di Clint Eastwood. In questo caso però ascoltiamo i lamenti e il male di vivere di chi ha sempre saputo stillare oro dalle proprie paturnie. Musicalmente il disco risente dell'ispirazione di alcuni importanti artisti seminali come Charley Patton, Little Walter e Little Willie John, a cui lo stesso Dylan aggiungerà durante il discorso di cerimonia dei Grammy anche il nome di Buddy HollyDylan è in viaggio, diretto verso l'ignoto, il Nowhere, anche se qui e lì accenna a posti reali, come Baltimora, New Orleans, il Missouri, Boston-town, oppure descriva di aver visitato Londra e Parigi, come in passato aveva fatto con Roma in When I Paint My Masterpiece. Torna anche la garra agonistica di confrontarsi col suo ingombrante passato. L'impressione è che i suoi guai sentimentali e la chiamata alle armi di un cuore sofferente, metaforicamente e non, gli abbiano fornito l'assist giusto e la volontà per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità e verità. A livello di ispirazione lirica i critici citano spesso John Keats, Robert Burns e il visionario William Blake. In particolare le liriche di Not Dark Yet sembrano una risposta proprio al poema Ode to a Nightingale di Keats. Per Jochen Markhorst Tryin' to Get to Heaven è tra le "opere più belle" dell'autore, data la somiglianza "più accessibile" della celebre Not Dark Yet perché qui offre la "prospettiva di redenzione in un aldilà". Anche da un punto di vista sonoro bisogna annotare il gran lavoro di Mark Howard  rispetto all'uso dell'armonica di Dylan, che qui possiamo apprezzare per la sua qualità elettrica, di distorsione del suono, predominante tra una strofa e l'altra. Un brano superbo e maiuscolo, come del resto lo è tutto il disco, nei suoi momenti di maggiore ispirazione e intensità.

Oltre al plauso che va condiviso tra l’autore e il produttore, è bene citare alcuni dei musicisti che prendono parte alle sessions del disco. Dylan schiera quella che all’epoca era la sua band di palcoscenico, dove troviamo il fidato Tony Garnier al basso, David Kemper alla batteria, Bucky Baxter alla chitarra acustica e pedal steel e alcune vecchie conoscenze come Jim Keltner e soprattutto l’organista Augie Meyers e la suonatrice di steel guitar e dobro, Cindy Cashdollar. Questa combo, che comprende naturalmente anche gli stessi Dylan e Lanois, si avvale poi di altri musicisti addizionali come il percussionista Tony Mangurian, Duke Robillard, Robert Britt e altri due batteristi: Winston Watson e Brian Blade. Un sistema di produzione e registrazione che sembra la versione aggiornata di Blonde on Blonde, a tratti. Per quanto riguarda la parte testuale, il marchio speciale di disperazione di Bob Dylan sta tutto nelle parole di testi come Not Dark Yet, Love Sick, Tryin' To Get To Heaven e soprattutto di Cold Irons Bound, quando afferma:

"Ci sono troppe persone, troppe da rammentare. Credevo che alcuni di loro fossero miei amici; mi sono sbagliato su tutti. Bene, la strada è rocciosa ed il pendio della collina è fangoso. Sopra la mia testa ci sono solo nuvole di sangue. Ho trovato il mio mondo, trovato il mio mondo in te. Ma il tuo amore non si è dimostrato vero. Sono a venti miglia dalla città, incatenato a fredde manette."

Tra le dichiarazioni migliori su questo disco, alcune sono proprio dello stesso Dylan e di Daniel Lanois.

"Quei dischi furono fatti molto tempo fa, e sai, sinceramente, le registrazioni che furono fatti in quei giorni erano tutte buone. Avevano dentro un po' di magia perché la tecnologia non andava oltre ciò che stava facendo l'artista. Era molto più facile riportare l'eccellenza in quei giorni su un disco di quanto non lo sia ora. La massima priorità adesso è la tecnologia. Non è l'artista o l'arte. È la tecnologia che sta arrivando. Questo è ciò che rende Time Out of Mind particolare. Non si prende sul serio, ma poi di nuovo, il suono è molto significativo per quel disco. Se quel disco fosse stato realizzato in modo più casuale, non sarebbe suonato in quel modo. Non avrebbe avuto l'impatto che ha avuto. Non c'è stato alcuno spreco di sforzo su Time Out of Mind e non credo che ci sarà più nei miei dischi. Una dichiarazione d'intenti che a distanza di quasi 25 anni possiamo condividere e sposare. Bob Dylan dopo il suo trentesimo e ispirato lavoro in studio è tornato ai suoi livelli di eccellenza, dove i passi falsi si sono notevolmente ridotti e ridimensionati. Anche se a onor del vero, bisogna ricordare come successivamente alla pubblicazione di Time Out of Mind, darà alle stampe solo cinque dischi contenenti brani autografi, uno dei quali scritto in collaborazione con Robert Hunter, paroliere dei Grateful Dead. Uno degli ultimi fondamentali squilli di tromba, una chiamata alle armi, che arriva quasi dall'Oltretomba.

Fatto non trascurabile: da queste sessions, verranno scartate canzoni del calibro di Mississippi (poi pubblicata nel successivo Love and Theft) della splendida e rara Red River Shore, di Marching to the City (pubblicata sul volume 8 dei Bootleg Series) e di Dreamin’ on You, anch’essa recuperata sull’antologico Tell Tale Signs del 2008.

Tra le bellissime interpretazioni di questo disco, sono da segnalare almeno tre cover: Not Dark Yet del compianto Jimmy LaFave, Tryin’ To Get To Heaven rifatta da David Bowie e Make You Feel My Love di Bryan Ferry, tratta dall'album tributo Dylanesque del 2007.

Disco monumentale e imprescindibile per conoscere in maniera più approfondita l’opera del suo autore.

Dario Twist of Fate

John Wesley Harding: il rock biblico secondo Bob Dylan

 

Mi ritiro dalle scene per produrre rock biblico

Durante il dicembre 1967 Bob Dylan diede alle stampe il suo ottavo lavoro discografico, John Wesley Harding

Prodotto da Bob Johnston e registrato nuovamente a Nashville, con un ristretto gruppo di musicisti, dove ritroviamo Charlie McCoy al basso, Kenneth Buttrey alla batteria e la pedal steel guitar di Pete Drake in due brani. Il resto lo fa Dylan che suona chitarra, piano e armonica. E' un lavoro diverso rispetto ai tre dischi elettrici che l'hanno preceduto. Anche a livello testuale e tematico vi sono differenze sostanziali. Troviamo in questo contesto dodici brani, sei per facciata, dove la traccia più lunga, The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest non va oltre i 5 minuti e 35 secondi.

Da quando il suo autore ha iniziato a produrre dischi autografi, non era mai accaduto che desse alle stampe un numero cospicuo di canzoni tanto brevi. In un paio di occasioni scendiamo sotto la soglia dei due minuti e mezzo, segno che qualcosa era cambiato nella scrittura. Del resto questo lavoro arriva dopo l'incidente motociclistico e dopo che Blonde on Blonde aveva concluso la prima parte della sua carriera musicale. La cosa incredibile sta nel fatto che Dylan non torna indietro alle incisioni che lo avevano mostrato al pubblico. Il disco è una virata sul country e contribuisce a gettare le basi per il concetto del back to the roots, di cui oggi si continua a parlare. Nonostante i suoi testi siano stati altre volte influenzati da riferimenti biblici, in particolare The Times They Are a-Changin' del 1964, in questa occasione possiamo davvero parlare del primo disco di rock biblico della storia. Anche stavolta il tempo viene in nostro soccorso, in un contesto di analisi retrospettiva, ma dobbiamo tentare di immedesimarci su cosa volesse dire dare alle stampe alle soglie del 1968 un disco così "conservatore" e nel contempo capace di andare oltre i fronzoli e la psichedelia imperante di quel momento particolare.

Questo è un disco che è rimasto, mostrando il suo valore nel tempo e per il tempo. Non si tratta di limitarsi a citare un classico come All Along the Watchtower, che certamente merita un posto privilegiato non solo per ciò che riguarda il suo autore, ma per la storia della canzone rock. È un disco seminale e importante per il suo autore in primis e poi per l’intero trend della canzone d'autore. Da questo momento in poi prenderà piede e si delineerà un nuovo stile di composizione dei brani, il quale dimostra come Dylan tornando sulle scene, sia capace di dettare una linea da seguire. Certo, lo farà altre volte, ma qui ha ancora la forza e la tenacia della giovinezza. I dodici brani che compongono l’album, tra citazioni bibliche e modi di dire del linguaggio parlato, sono tutti esemplari e daranno idee a una schiera di artisti e musicisti, di diverso genere, che andranno ad attingere a questo tipo di canzoni. Da Jimi Hendrix a Patti Smith, da The Black Keys ai Judas Priest, che prenderanno il loro nome proprio dal brano di Dylan, gli esempi ancora una volta si sprecano. In pratica siamo di fronte a un lavoro coeso, ispirato e musicalmente brillante nella sua dichiarata semplicità. Non è un caso se questo disco è considerato un album di svolta. L’artista che torna a pubblicare dopo un anno e mezzo è molto diverso. Questi brani sono sogni che si rivelano, in qualche luogo del passato, per il loro minimalismo centrato, da autentico cecchino della canzone. Ora, se è vero che i sogni sono dal principio un elemento importante per la scrittura dylaniana, è evidente come qui vi sia una predominante indeterminatezza piena di simboli e di significato. Le canzoni hanno la capacità di aprirsi in molte direzioni e di essere letti secondo differenti prospettive interpretative. Un lavoro innovativo e sorprendente, specialmente se messo in relazione alla semplicità degli arrangiamenti eseguiti con una strumentazione così scarna e al contempo particolare. C’è qui una vera rinascita, che arriva attingendo in modo consapevole dalle sorgenti del materiale originale.

Si gioca di sottrazione, ma questo non significa produrre un lavoro lontano anni luce dalla trilogia Bringing /Highway 61/Blonde, semmai si parla di dare un degno seguito a una fase caratterizzata da capolavori di livello eccezionale. Le preferenze, escludendo i due brani chiave, All Along the Watchtower, vero fulcro del disco e la conclusiva I’ll Be Your Baby Tonight, che già anticipa nei toni Nashville Skyline, sono del tutto personali e soggettive. La title track è senza dubbio una canzone semplice e ispirata. Si passa così a una sequenza come As I Went Out One Morning, I Dreamed I Saw St. Agustine, Drifter’s Escape, Dear Landlord e Down Along the Cove, che mostrano un Dylan capace come interprete e come scrittore. La voce funzionale e duttile rispetto al valore dei brani fa un tutt’uno con la sezione ritmica che accompagna questo disco in modo adeguato. Come se non bastasse si tratta di uno degli album meglio invecchiati, a livello musicale, viste le scelte minimali e bucoliche. Siamo infatti dalle parti dell’alt country contemporaneo. Oggi possiamo ascoltare le belle incisioni alternative presenti sul volume antologico The Bootleg Series 15 – Travelin’ Thru per farci un quadro più esaustivo e per riprendere in mano questo grande affresco minimale che è John Wesley Harding.  

Dedicare un disco al Vecchio Testamento potrebbe forse sembrare una cosa eccessiva, oggi. Eppure in un decennio turbolento e un po' folle come gli anni sessanta, sembra quasi un'idea innocente e una metafora di protesta, come quella dei molti personaggi che affollano queste canzoni e le sue liriche. Dylan era ancora al top e la sua ispirazione parte proprio dalla Bibbia fino a raccontare di fuorilegge, di amori e follia, tutti temi cari all’autore. Sembra una sorta di profeta sceso dalla montagna per narrare le sue dure verità. Un comportamento che oggi potrebbe sembrare eccentrico ed esagerato, ma che sembra essere in linea con il personaggio di quel momento. Una ricerca di spiritualità che avrebbe accompagnato il suo autore nel corso della sua lunga e ricca carriera. Per fortuna in questa occasione molte critiche furono lungimiranti e obiettive, indicando questo come uno dei suoi dischi migliori, seppur diverso, all'interno di una discografia che fino a quel momento non aveva mostrato ancora alcun segno di cedimento, a livello di ispirazione e di furore poetico. Citiamo, tra le altre cose, "l'omaggio" al poeta Wystan Hugh Auden di As I Walked Out One Evening. Dylan nella sua As I Went Out One Morning canta di un uomo che offre una mano a una donna in catene, ma si rende conto che lei vuole più di quello che offre e che intendeva fargli del male. Appare un personaggio identificato come Tom Paine, il quale "le ordina di arrendersi" e si scusa con il narratore per le azioni della donna.

Gli scivoloni sarebbero arrivati a breve, ma durante quell'ultima settimana del 1967 Dylan e la Columbia poterono ancora una volta usufruire di una critica attenta, obiettiva e capace. Le cose sarebbero repentinamente mutato, ma non è questo il momento. La Bibbia è la stoffa con cui sono fatti i suoi testi migliori, come questi. Come ci ricorda Northrop Frye, si tratta del Grande Codice della letteratura occidentale. Bob Dylan che conosceva queste sfumature già nel corso della sua giovinezza, continuerà a farne tesoro lungo una ricca carriera costellata da successi, quasi tutti meritati, a nostro parere.

Non il capolavoro definitivo in cui il pubblico sperava, ma un tassello fondamentale per quello che sarebbe venuto nei decenni successivi. Fondamentale per la carriera del suo autore. Dico bene?

Dario Twist of Fate

Bob Dylan: il 2022 in "pillole"


Il 2022 di Bob Dylan in "pillole"

- Il 3 marzo Bob Dylan riparte in tour da Phoenix, Arizona, dopo due anni di assenza di performance dal vivo, a causa della pandemia (Covid-19).

- Il 19 marzo "festeggia" 60 anni del suo debutto discografico con Columbia Records. 

- (Aprile) T Bone Burnett produce una nuova versione di Blowin' in the Wind, distribuita in esclusiva sul nuovo format chiamato Iconic Original. Bob Dylan per l'occasione canta una nuova versione del brano.

- Il 10 maggio viene inaugurato il Bob Dylan Center di Tulsa, Oklahoma.

- (Maggio) Viene rilasciato il remake del video di Subterranean Homesick Blues a cui partecipano artisti di vario genere e ambito, tra cui musicisti e registi cinematografici.

- (Novembre) Bob Dylan pubblica il suo quarto libro The Philosophy of Modern Song. Si tratta di un volume illustrato che è composto da 66 brevi saggi dedicati alle sue canzoni preferite.   

- (Dicembre) Dylan rilascia una lunga e dettagliata intervista pubblicata sul Wall Street Journal.

- (Dicembre) Al Maxxi di Roma viene inaugurata la prima mostra monografica europea dedicata alla produzione di arte visiva di Bob Dylan. 

- (Gennaio 2023) Viene pubblicato il 17esimo volume di The Bootleg Series, con il titolo di Fragments, incentrato sulle sessioni e sulle incisioni live del disco capolavoro del 1997, Time Out of Mind, prodotto da Daniel Lanois con la partecipazione dello stesso Dylan. Il volume verrà pubblicato in diversi formati, tra cui uno deluxe composto da cinque dischi e uno "standard" che ne contempla invece due. Nella raccolta troveremo un nuovo remix dell'album che vinse nel 1998 tre Grammy Awards.


giovedì 29 dicembre 2022

Dylan and I (Un'altra curva nella memoria)

DYLAN & I (TIME PASSES SLOWLY)

Approfitto di questo momento di pace apparente, quiete prima della tempesta, per vuotare il sacco. In maniera definitiva. Non è stato facile, almeno per chi vi scrive, diventare un appassionato di musica. Sarà che non ero nato nel posto giusto, forse avrò sbagliato a scegliere famiglia. Oppure ho frequentato persone che non mi facevano sentire parte di qualcosa, parlo in termini esclusivamente musicali, sia chiaro. Fatto sta che prima dei 16-17 anni, che poi coincide con le premature cotte, sbandate per ragazze irraggiungibili, inarrivabili, non era ancora scattata la scintilla tra me e la musica. Ascoltavo canzoni, quello sicuramente, ma non pensavo di essere portato per diventare un vero e grande appassionato. Preferito i libri, preferivo i film, la scrittura, la contemplazione. A pensarci bene in effetti, ancora oggi preferisco scrivere, leggere, guardare film. Ma non è questo il punto. Il punto è che in una zona segreta e oscura, scattò qualcosa dentro me. Un qualcosa di selvaggio e arcaico, di sacro e profano. Un movimento, un suono, un'idea. L'idea che ci sono canzoni che possono contribuire a rendere la tua vita meno faticosa, meno brutta, meno priva di significato, forse. Lo chiamavamo rock, ma non sapevamo bene che cosa fosse di preciso. Era il 1996 quando ascoltai per la prima volta con cognizione una musicassetta di Sting, un disco dei R.E.M. e qualcos'altro degli U2, Red Hot Chili Peppers. Molto buoni, ma forse c'era dell'altro per me. Arrivai perciò a Eric Clapton, a Neil Young e di conseguenza anche a Bruce Springsteen, agli Stones. Mancava ancora qualcosa. Un ulteriore tassello, quello che oggi viene definito un upgrade: il salto di qualità. Per me è stato ascoltare Biograph, Greatest Hits vol. 3, Blood on the Tracks, Like a Rolling Stone e Blonde on Blonde. Sissignora, sto parlando di lui! Del mio primo, indimenticabile, ascolto delle canzoni di Bob Dylan. Ricordo ancora la prima cassettina. All Along the Watchtower, Forever Young, Mr. Tambourine Man, Blowin' in the Wind, Knockin' on Heaven’s Door e qualche altro brano. Sono state sufficienti poche canzoni, ed è stato sufficiente leggere altri titoli. You're a Big Girl Now. Non conoscevo bene l'inglese, ma fin lì ci arrivavo, inoltre conoscendo un po' Fabrizio De André sapevo che Avventura a Durango fosse una cover di un brano di Dylan. E mi piaceva.

Me lo feci bastare per un pezzo. Poi, facendo un salto in avanti, ricordo di aver ascoltato uno dei volumi di Biograph, credo fosse il terzo. Altro scarto e conseguente esplosione cambriana. Come un trip del Grande Lebowski, che appena un anno dopo avrei visto al cinema, ascoltando per la prima volta un altro pezzo forte come The Man In Me. I vinili prestati dal papà di un amico, ed ecco anche Infidels, Nashville Skyline, Another Side of Bob Dylan. Non tutti mi presero, come invece fece la colonna sonora di Pat Garrett & Billy The Kid, come il primo clamoroso ascolto di Ballad of a Thin Man. Come Highway 61 Revisited. Poi venne il giorno di Blood on the Tracks, e più o meno nello stesso periodo, di Time Out of Mind, di "Love and Theft", dell'Unplugged. Avrò fumato non sono quanta marjuana ascoltando questi dischi, ok, erano in formato CD, ma mi piace comunque chiamarli DISCHI. Perché Dylan è uno che suona, produce e pubblica ancora oggi dischi. Ricordo un viaggio a Roma con l'ascolto prolungato, sostenuto di Before the Flood. Avrò consumato quel nastro a furia di ascoltarlo. E mi piaceva. E mi piacevo. Scrivevo e leggevo, ascoltando Bob Dylan, adesso! 

Sono trascorsi non meno di 25 anni da quando mi sono appassionato a questo genere di canzoni. Andando avanti ho scoperto Lou Reed e mi sono innamorato del sound di The Band. Ho ascoltato ancora e meglio Neil Young, ho scoperto Tom Waits, ma questo prima di diventare un fan totale, sfegatato di Van Morrison. Ecco forse quello è stato il mio ultimo salto nel vuoto, ma è decisamente un'altra storia. Una storia fantastica. Come quella dei primi ascolti di ogni disco di Bob Dylan. Inclusi quelli del periodo Sinatra, incluso Modern Times, l'estate del primo live di Dylan a Cosenza. Altra storia, altro biglietto, stesso regalo. I due concerti del 2007 di Torino e Milan, poi il lungo viaggio in Irlanda, con Bob Dylan, Springsteen e Van Morrison portati nel cuore. E la rivalutazione di Mark Knopfler solista. 

E ancora Bob Dylan, sempre Dylan. Poi Malta, poi ancora Cosenza, il sentimento ritrovato e infine perduto, il giro del Partyzan, dove quasi nessuno ascoltava Dylan e poi Tempest, un periodo piuttosto duro, difficile, travagliato, marcato. Ma ancora Bob Dylan, sempre Dylan. Non era finita, non è certo finita qui 'sta storia. Solamente un piccolo ricordo, un'altra curva nella memoria. Un po' come avere 17-18-28-38 anni. Come averne quasi 45. Come aver superato il Lockdown. Come ascoltare un 45 giri di Bob Dylan, naturalmente! Questo e molto altro ancora è Dylan per me. Dylan & I.

"È passato così tanto tempo da quando una sconosciuta ha dormito nel mio letto. Guarda come dorme dolcemente, quanto devono essere belli i suoi sogni. In un'altra vita deve aver posseduto il mondo, o essere stata fedelmente sposata a qualche virtuoso re che scriveva salmi al chiaro di luna."  (Bob Dylan, I and I)

Dario Greco


- SITUAZIONISMO DYLANIANO - 

DYLAN & I (TIME PASSES SLOWLY)

mercoledì 28 dicembre 2022

Down in the Groove (1988)


Ugliest Bob in the World

Scrive Joel Selvin, critico musicale del San Francisco Chronicle: “Bob Dylan ha fatto parecchi cattivi dischi. Ora i cattivi dischi sono il frutto del tentativo di realizzare buoni album. Bob Seger e Tom Petty probabilmente non hanno mai fatto dischi cattivi. Ma non hanno realizzato neanche un grandissimo album nella loro longeva attività discografica. Hanno prodotto invece buoni, ottimi dischi. Sul fatto che Knocked Out Loaded possa essere considerato il suo peggior album, ci sarebbe parecchio da discutere. Possiamo però pacificamente riconoscere che si tratti di uno dei sui peggiori 10 lavori in studio. Magari non è il peggiore in assoluto, ma di certo sta a fondo classifica.”

Ho scelto di iniziare questo commento retrospettivo dedicato a Down in the Groove, facendo un piccolo passo indietro. Premetto che questo non sarà un pezzo semplice da scrivere e di conseguenza neppure da leggere e da fruire, specialmente da dispositivo mobile. Il punto è che trovo davvero troppo semplice e riduttivo bollare questi dischi (che sono giustamente considerati minori) come se fossero cose di poco conto, nella carriera di un artista importante, unico e geniale come Bob Dylan. Specialmente perché questo specifico disco, pubblicato il 30 maggio 1988, segna in un certo senso la conclusione degli “anni ottanta” per il suo autore. Anni ottanta, tra virgolette, perché a questa definizione attribuiamo la fase più oscura, sottostimata e gestita male, dal cantautore statunitense. Eppure il 1988 per chi conoscerà un minimo la vicenda umana e la carriera professionale di Dylan, mostra una svolta fondamentale, in termini retrospettivi. Il motivo è piuttosto evidente. Appena 8 giorni dopo la pubblicazione di Down in the Groove, (disco di cui parlerò più avanti) il suo autore decide di partire per un nuovo tour. 

E il tour è quello che oggi conosciamo come NET: Never Ending Tour.

Secondo alcune tesi, questa tournée durerà 135 date, ma per molti non è ancora terminata. A causa del Covid-19, Dylan è stato fermo ai box 2 anni, ma appena ha avuto la possibilità, è tornato in giro, con un tour mondiale che avrà termine (si ipotizza) nel 2024. Scaramanzia e cabala a parte, da quel 1988, Dylan è tornato a interpretare il ruolo di assoluto protagonista nei live acts. Piaccia o meno, questa è la data a cui fare riferimento. Questo è il disco che segna una nuova tappa, fondamentale. Sotto un certo punto di vista la carriera dell’artista deve molto a quello che comprensibilmente è considerato il suo lavoro peggiore. Non sono qui per interpretare l’avvocato del diavolo, dato che nemmeno mi piace questo album, ma gli andrebbe riconosciuta una qualità intrinseca, che forse nemmeno i lavori più incensati della critica possiedono. Rolling Stone, così tanto per cambiare, nel 2007 attribuisce a Down in the Groove la scomoda etichetta di peggior disco di Dylan. Come afferma Alan Light, critico newyorkese, se sei un vero appassionato o uno studioso della carriera di Dylan, questo è il lavoro più ingannevole, ragione per cui è comprensibile trovare i brutti dischi tanto interessanti. Perché ci raccontano qualcosa in più della storia. E dopo aver esaminato quello che viene prima, dopo e durante (in questo caso) anche un album difettoso è ancora importante.

Diciamo che con Dylan è possibile frammentare e unire il corpus discografico, ma resta il fatto che è il totale, la somma delle differenti parti, che diventa interessante rispetto alla specificità dei singoli dischi. Abbiamo già raccontato di quel magnifico e proverbiale colpo di coda che è stato Oh, Mercy, disco prodotto e firmato da Daniel Lanois nel 1989, ma troviamo che in questa occasione sia più interessante e divertente vedere in che modo i cattivi dischi sono cattivi, che cosa hanno rappresentato all’epoca, come vanno giudicati e catalogati adesso. Oltretutto per chi non lo conoscesse, stiamo parlando di un disco che dura appena 30-32 minuti. Che Dylan negli anni ottanta fosse artisticamente apatico è questione di opinioni, ma il fatto che avesse rallentato nel ritmo compositivo è invece un dato di fatto.

Down in the Groove certifica questo aspetto, visto che troviamo nella raccolta di brani solo quattro canzoni autografe, di cui due sono scritte a quattro mani con Robert Hunter. Il paroliere dei Grateful Dead tornerà più avanti a comporre assieme a Dylan Together Through Life, album del 2009. Non solo: uno dei quattro brani autografi è un outtake risalente a Infidels, disco del 1983. Si tratta di Death is not the end, brano che verrà riproposto più avanti da Nick Cave, il quale darà alla canzone una seconda vita e una certa dignità artistica che forse nella versione originale non possiede.

Forse non bisognerebbe limitarsi ad analizzare unicamente i brani autografi, dove comunque troviamo "Silvio", canzone che mette in evidenza un Dylan performer divertito e divertente, che ribadisce una delle sue qualità a molti forse un po' nascosta. Quella rara capacità di essere autore divertente e interprete spigliato e agile. Già l’agilità considerata unicamente come qualità e virtù, aspetto secondario e poco valutato per un autore che in passato aveva composto brani epici e monumentali come Desolation Row, Lily, Rosemary and the Jack of Hearts o Sad Eyed Lady of the Lowlands. Ho scelto proprio queste tre canzoni, tra le tante, perché sommando la durata si arriva a trentuno minuti. La stessa durata di questo trascurabile Down in the Groove. Album che contiene appunto quattro brani autografi, tra cui la terribile Ugliest Girl in the World, senza dubbio la peggiore canzone scritta dal cantautore.

Scrive Calvino nelle sue Lezioni americane: "La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura, tutte qualità che si accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento ad un altro, a perdere il filo cento volte e ritrovarlo dopo cento giravolte." Dylan, autore di canzoni conosce bene il significato di rapidità e disinvoltura. Sono queste le ragioni per cui la sua penna è sempre occupata, il suo piede sempre svelto, parafrasando Forever Young. "Silvio" ci mostra che il Dylan autore e quello performer godono di buona salute, in questo 1988. Ed è pur vero come il disco mostri un cantautore in evidente difficoltà compositiva. Era dal lontano 1970, anno in cui pubblica Self Portrait, che Dylan non pubblica un disco infarcito di cover, brani tradizionali o composizioni di altri autori. Eppure qualcosa si smuove. Perché sotto il nome di Traveling Wilburys, pubblica assieme a George Harrison, Tom Petty, Roy Orbison e Jeff Lynne, uno dei suoi più grandi successi commerciali del periodo. Un altro colpo di coda, nel quale spiccano brani come Tweeter and the Monkey Man, Congratulations e Dirty World. Così quella che potrebbe risultare l’ennesima parentesi, di fatto getterà le basi per un nuovo, ennesimo ritorno, in grande stile. Archiviati questi goffi tentativi di collaborazioni con Grateful Dead, Tom Petty, Stones e addirittura con membri dei Sex Pistols, (nel brano Sally Sue Brown, figura nei crediti il chitarrista Steve Jones) Dylan torna ancora una volta a casa.

Attingendo dalla migliore vena compositiva, darà alle stampe un disco maturo, triste e concentrato come Oh, Mercy. Perché la festa degli anni ottanta volge al termine. Inizia una nuova decade dove il Political World avrà ancora bisogno dei versi di Bob Dylan. Come diceva (più o meno) Franco Battiato nella canzone: Mister Tamburino, non ho voglia di scherzare, rimettiamoci la maglia, i muri stanno per crollare!


Dario Greco



martedì 27 dicembre 2022

Nashville Skyline (1969)

Nashville Skyline (1969)

 

Greetings from Nashville, Tennessee!

Nella sua lunga produzione discografica, Bob Dylan ha prodotto 39 album in studio, molti dei quali non sono certo dei capolavori. Nashville Skyline non rientra tra questi, eppure è uno dei suoi lavori più divertenti, leggeri e frizzanti. La produzione vira in modo evidente verso il country, quel tipo di musica che oggi viene giustamente chiamata Americana. È un lavoro che ricevette una buonissima accoglienza da parte del pubblico, arrivando al primo posto nel Regno Unito e al terzo in Usa. Siamo certi che forse nel corso del tempo, sia stato amato e apprezzato anche in Italia, visto che è citato da autori come De Gregori e Baglioni e se pochi brani furono considerati tra le sue composizioni più memorabili, bisogna considerare il successo da classifica ottenuto dal singolo Lay Lady Lay. Questo brano era stato scritto in origini per la colonna sonora del film Midnight Cowboy con Dustin Hoffman e Jon Voight. Tuttavia la canzone venne scartata e gli fu preferita invece Everybody's Talkin' di Fred Neil, interpretata da Harry Nilsson, che ebbe un successo straordinario. Per la prima volta Dylan incide un brano strumentale, The Nashville Rag, stesso discorso sul fronte dei duetti: il disco si apre con la riproposizione a due voci di un suo classico contenuto nel secondo disco, Girl from the North Country. Il duetto con Johnny Cash è memorabile e per lungo tempo resteranno inedite le altre tracce eseguite assieme, oggi finalmente raccolte nel Bootleg Series Vol. 15 Travelin' ThruÈ interessante notare come l'album sembri continuare laddove il precedente si era concluso. 

I'll Be Your Baby Tonight chiudeva il precedente John Wesley Harding, mostrando la via per la nuova direzione musicale che l'autore avrebbe percorso con il suo lavoro successivo, Nashville Skyline appunto. Una cosa che balza subito all'occhio e all'orecchio di questo nono album, rilasciato il 9 aprile del 1969, le cui sessioni guidate dal produttore Bob Johnston si tennero proprio nella capitale dello Stato del Tennessee tra il 12 e il 21 febbraio dello stesso anno, è la durata. Disco snello e agile, non solo non arriva a trenta minuti, come durata complessiva, ma fatto più unico che raro, non contempla brani troppo strutturati nei testi e nella durata, appunto. Si pensi che la traccia più lunga, non va oltre i tre minuti e quarantatré secondi, mentre quella più breve, Country Pie, dura appena un minuto e trentanove. Pensiamo che ciò avviene molto prima rispetto all'urgenza del punk-rock (genere che non c'entra nulla con questo disco) e che risulta insolita, visto che Dylan ha pubblicato brani celebri e importanti che arrivano anche a dieci minuti di durata.

Tra gli episodi più significativi bisogna citare oltre alla prima traccia, eseguita in duetto con l'amico e collega Johnny Cash, almeno altre quattro tracce: I Therew It All Away, Lay Lady Lay, il pezzo che è rimasto di più del disco, Tell Me That It Isn't True, con un arrangiamento solido e brillante, scelta piuttosto particolare per gli standard dylaniani del periodo e la chiusura, affidata alla stupenda Tonight I'll Be Staying Here With You, brano che avrà una seconda vita durante il tour della Rolling Thunder Revue nel 1975.

Nashville Skyline ha il difetto di essere un album allegro e brillante, per certi versi molto erotico e sensuale. Dotato di un timbro vocale differente, che può spiazzare al primo ascolto, visto che Dylan aveva dichiarato di aver smesso di fumare in quel periodo, secondo Marshall Chapman è un disco sexy, dove è la semplicità della musica a rendere tutto così potente. Sembra che Dylan stia cercando di semplificare mantenendo un basso profilo da signorotto di campagna, tornando alla terra, tagliando la legna e seguendo l'esempio di Walden di Henry David Thoreau e delle Foglie d'erba di Walt Whitman.

Eppure l'uomo che registra Nashville Skyline si avvale di alcuni musicisti locali che rispondono ai nomi di Norman Blake, Kenneth Buttrey, Charlie Daniels, Bob Wilson, Charlie McCoy, Pete Drake e Carl Perkins. Per chi conosce la musica in modo più approfondito, qui verrebbe da esclamare, giustamente: - Alla faccia del disco minore! 

Subito dopo la pubblicazione di Nashville Skyline gli studi di registrazione e i musicisti utilizzati da Dylan diventeranno molto gettonati e richiestissimi. E probabilmente senza questo album, giudicato a torto o a ragione un disco minore, non ci sarebbe stato Harvest di Neil Young, o meglio, non sarebbe stato quel grande successo di critica e pubblico che il disco ha ottenuto. Non ci sembra affatto una questione marginale, a ben vedere.  

Dario Greco

lunedì 26 dicembre 2022

The Basement Tapes (1975)

 

The Basement Tapes and The Bootleg Series Vol. 11 (1975)  

"L'idea era di registrare dei demo per altri artisti. Non sono mai stati concepiti per essere pubblicati, per diventare un disco, per essere presentati al pubblico." Fortunatamente Robbie Robertson ci conferma ciò che appare evidente dopo l'ascolto di questo doppio disco pubblicato per la prima volta il 26 giugno 1975. Otto dei 24 brani sono eseguiti da The Band, senza Dylan, ma bisogna tenere un altro numero ben più imponente e voluminoso, per questa raccolta che conta 139 tracce complessive. Le registrazioni risalgono però al periodo che va da giugno 1967 al 1968. Successivamente verranno eseguite delle sovraincisioni durante il 1975. La gestazione di questo disco non è quindi molto omogeneo, così come la scaletta. Le composizioni sono di Dylan, Robbie Robertson, Richard Manuel e Rick Danko, alcune delle quali scritte in collaborazione a quattro mani. Il materiale include almeno 4-5 brani che entreranno di diritto nella storia della musica popolare, ma la cosa più importante, in termini di documento storico è come avvengono le sessions e le prove. Resta da dire che non si può parlare di un vero lavoro in studio, ma che sarebbe riduttivo dire che si tratti di semplici provini, visto anche il valore e l'intensità con cui vengono eseguite. Purtroppo le registrazioni e l'acustica della cantina renderanno il suono decisamente lo-fi, ma se il disco viene ascoltato oggi il problema non sussiste, dato che spesso la musica viene spesso prodotta in modo simile, anche se la tecnologia ha fatto passi in avanti, naturalmente.  

Escludendo il primo triennio (1962-1964) più qualche occasionale ripensamento, Bob Dylan ha scritto, inciso e pubblicato dischi supportato da una band elettrica o comunque elettro-acustica. Nonostante abbia pubblicato solo 6 album su 39 con questo tipo di line-up per moltissimi lui sarà sempre una voce folk, un menestrello armato di chitarra acustica e armonica pronto a regalare note emozioni e nuove canzoni al mondo. Questa premessa obbligatoria ci conduce nella cantina più famosa degli anni sessanta. Perlomeno per un certo tipo di pubblico affascinato dal fenomeno crescente del folk rock. Di quel genere musicale che oggi abbiamo imparato a chiamare Americana. The Basement Tapes sono una mappa alternativa, cartina tornasole di un gruppo che stava muovendo i primi passi e di un autore già celebre e incensato alla ricerca di ispirazione di un nuovo sound del groove con cui prima o poi sarebbe tornato a far parlare di sé. Ufficialmente queste registrazioni risalgono al periodo 1966-1967 ma il disco venne rilasciato dalla Columbia Records solo durante l'estate del 1975. Bob Dylan all'epoca era già tornato sia in studio che dal vivo, prima con i The Band e successivamente con un altro nucleo di musicista che lo avrebbero accompagnato in studio e nelle esibizioni live di quel carrozzone noto come Rolling Thunder Revue. Le canzoni e le registrazioni, eccettuate alcune sovraincisioni che fecero più danno che altro, risalgono quindi a circa 8 anni prima. E questo non è certo un elemento trascurabile per un artista sfuggente e mutevole come il Nostro.

La qualità è rozza, cruda, l'approccio diretto, spontaneo e inconsapevolmente lo-fi. In maniera libera e informale prende vita un ritratto totale della cultura americana, attingendo da ogni vena pulsante della storia della musica degli States. Qui respiriamo l'aria di pianure sterminate, dei deserti e sentiamo gli odori della terra, dei fiumi, percependo infinite sfumature cromatiche di questo luogo infinito. I testi si ispirano gioco-forza a quell'America rurale, entrando nelle viscere di personaggi che sono al contempo santi e peccatori, prostitute e vergini, amanti del vizio alla ricerca della salvezza dell'anima. Il fatto che Bob Dylan e The Band si siano chiuso a fare questa musica arcana e blasfema mentre il mondo sta andando a ferro e fuoco, è un dettaglio da non trascurare. In effetti ascoltando bene tra le tracce, qualcosa si avverte anche. Tears of Rage, You Aint' Goin' Nowhere, This Wheel's on Fire e I Shall Be Realesed (che tuttavia non sarà inclusa nel doppio album, ma pubblicata separatamente prima da The Band e poi dallo stesso Dylan.) sono figlie illegittime di questi tempi turbolenti e solo per alcuni mitizzati e ancora oggi celebrati come una stagione irripetibile. Nota a parte per il brano I’m Not There, pubblicato ufficialmente solo nel 2007 come colonna sonora dell’omonimo film ispirato alle molte vite di Dylan e diretto dal talentuoso e visionario regista statunitense Todd Haynes (ma della pellicola e della colonna sonora vi parlerò in maniera estesa in un post a parte, più in là nel tempo).

Non tutto il lavoro verrà però svolto invano, visto che The Byrds, Peter, Paul and Mary e soprattutto il britannico Manfred Mann sapranno valorizzare questo materiale. Personalmente ho sempre apprezzato molto un brano come Goin' to Apaculpo o lo stesso Million Dollar Bash, mentre il valore di Quinn the Eskimo (Mighty Quinn) è certificato dal primo posto di questo singolo nelle classifiche UK, nella versione di Manfred Mann.

Che dite, ne valeva la pena raccogliersi in uno scantinato con un gruppo di amici cane sdraiato sul pavimento a fare da groupie casuale?

A rendere giustizia a queste take ci penserà il tempo e la storia, visto che nel 2014 viene pubblicata la compilation di registrazioni edite, inedite, nastri demo e versioni alternative che troverete su The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes Complete. Se posso suggerirvi, vi consiglierei di recuperare direttamente questa versione delle incisioni, se non siete dei completisti anche in versione RAW a due compact disc. Trentotto tracce che fanno da mappa riduttiva rispetto alla versione completa da 139 tracce e 6 cd.

Dario Twist of Fate

Saved (1980)

Secondo capitolo gospel di Bob Dylan

 

Nessuno può salvare Dylan da sé stesso, nemmeno Dylan stesso. Il problema è che il cantautore americano non ha nessuna intenzione di fare sconti a nessuno, quando entra in studio per registrare il suo ventesimo disco. SAVED è per molti versi il sequel di Slow Train Coming che lo aveva preceduto meno di un anno prima. Eppure nonostante la produzione di Barry Beckett e Jerry Wexler e le registrazioni realizzate nuovamente al Muscle Shoals Sound Studio, le differenze sono nette fin dalla prima traccia. Al disco collaborano Tim Drummond, Jim Keltner e Fred Tackett, motivo per cui il disco ha gran bel tiro, che gli permette di esplorare, se possibile in maniera più radicale e profonda, l'ossessione dylaniana per il gospel. Nella migliore delle ipotesi si tratta di un solido e nervoso blues rock, con alcuni degli episodi musicalmente più vibranti di tutto il repertorio. Il problema, se si problema si può parlare, è derivato da una certa allegoria e da testi che sono inequivocabilmente in debito verso il Nuovo Testamento. Bob Dylan è entrato in una fase della sua carriera in cui ha smesso di chiedersi cosa possa volere il pubblico. Pensa a sé stesso e tira dritto. Col senno di poi questo è uno di quei dischi che poteva restare nel cassetto. 

Eppure ci sono aspetti che lo rendono unico, meritevole di fare da contraltare alla sua produzione in studio più celebrata e iconica. Del resto appena dopo Desire il Nostro aveva iniziato a produrre lavori che la critica faticava a comprendere e a mettere a fuoco con analisi obiettive ed equilibrate. Sono passati appena cinque anni dal suo ultimo vero capolavoro: quel Blood on the Tracks concepito come un'autentica opera d'arte. Un lavoro coeso, vibrante e toccante, come pochi. Saved in effetti pare sia stato realizzato da un artista totalmente differente. Qui ci troviamo di fronte a un musicista che scrive in modo nuovo, diverso. Quello del 1975 usava metafore e linguaggio da poeta stilnovista ispirato da Shakespeare e da altri campioni della letteratura mondiale come il russo Cechov; l’autore di Saved parla una lingua più piana, forse più banale, almeno rispetto allo standard e al metro precedente. Eppure oggi a distanza di 40 anni abbiamo imparato ad ascoltare i suoi diversi stili, che includono tanto le fisime quanto le rivelazioni, ma per il mondo che viaggiava sui meridiani e le prospettive del 1980 deve essere stato uno shock ascoltare questo disco da invasato. 

Un fanatico religioso, dirà la critica, nonostante fosse poco chiaro se Dylan stesse facendo sul serio o no. Di certo stava facendo sul serio con i suoi spettacoli dal vivo, visto che raramente ha suonato dal vivo con questa intensità, con il furore e il fuoco sacro del rock che divampava. Attraverso le testimonianze live ufficiali oggi possiamo collocare questo Saved in una cornice molto più precisa e consona. Abbiamo visto dove ha portato il viaggio degli anni ottanta, il cammino senza tregua (il Never Ending Tour) degli anni Novanta, dove Dylan sembrava davvero un salmone infaticabile, capace com' era di andare contro ogni stile, formula e soluzione che in quel momento sembrava essere paradigma e prerogativa di successo. Dylan ha fatto grande musica in ogni decade. Questo oggi è un fatto con cui certa critica e certi giornalisti hanno imparato a fare i conti. Perché cadono i miti, cadono i poster della nostra gioventù, ma il buon vecchio Bob resta saldamente in sella. 

Forse era lui quello che stava cercando salvezza. È rimasto aggrappato al suo credo, cambiando naturalmente, ma con una chitarra a tracolla e un’armonica ferita. Con una penna a volte gentile, a volte di fuoco e di furore. Oggi possiamo sorridere per tutte le recensioni che avevano dato per finito e condannato all’oblio un autore che non aveva ancora compiuto 40 anni. Certo, bisogna dire che all’epoca un musicista a quell’età era considerato sul viale del tramonto, per quanto concerne la musica popolare. Dylan però ha saputo tenere botta, prima di tutto alle sue convinzioni, poi al pubblico e alla critica. Dalla sua ha avuto uno zoccolo duro di seguaci che ha sempre sostenuto l’artista, fregandosene perfino dei dischi brutti, inutili o banali che avrebbe prodotto durante una fase della sua carriera musicale. 

Tuttavia Saved non rientra in questa categoria: qui ci sono grandi canzoni, ottime idee musicali e una band che suona come se avesse alle spalle il baratro della dannazione eterna. Una canzone su tutte? "What Can I Do for You?", naturalmente, dove l'assolo finale di armonica è redenzione pura.

Oggi un disco del genere verrebbe accolto come un capolavoro, di certo nessuno si sarebbe scandalizzato per le idee estreme del cantante, men che meno per chi è in sella da più di 30-40-50 anni. C’è gente che cambia atteggiamento, stile musicale, ideologia e religione. Oggi un disco come Saved potrebbe perfino passare inosservato, ammesso che ci siano artisti pronti a rischiare e a produrre musica come questa. Ok, Nick Cave e pochi altri. Così mentre i miti mutano pelle per sopravvivere a loro stessi, Dylan è ancora su quel palco diretto verso un altro show. Avrà tradito il pubblico e di sicuro ha più volte silenziato le critiche e la stampa, ma questo non ha alcuna importanza. Quello che conta adesso come allora è la musica. Saved sotto questo punto di vista raggiunge il suo obiettivo, vincendo a mani basse la sfida e la posta in gioco. 

Dario Greco



domenica 25 dicembre 2022

Infidels - Nessuno canta come Dylan

Nessuno canta il blues come Dylan 

All'inizio degli anni Ottanta, Dylan si ritrova per la prima volta nella posizione di non essere né un prodotto commerciale alla moda né un artista di tendenza secondo la critica. Le mode dominanti dei tardi Settanta e dei primi Ottanta erano il punk, la new wave, il funk e la disco, generi dai quali Dylan era molto lontano, nonostante le sue contaminazioni in chiave di soul music, proprio di quest'epoca. Il suo ultimo successo commerciale risaliva al 1979, quando Slow Train Coming fu un grande successo, portandogli in dote il suo primo Grammy per merito del singolo Gotta Serve Somebody. Nonostante le tematiche religiose e una musica notevolmente in debito nei confronti del gospel, Dylan aveva chiuso in attivo un decennio caratterizzato da alcuni alti, ma parecchi bassi. Non ci fu mai un annuncio ufficiale o qualcosa di simile, ma Infidels segnò il ritorno per Bob Dylan alla musica laica o quantomeno a materiale privo di riferimenti cristiani espliciti. Va detto che i richiami religiosi non sono mai mancati nei suoi lavori, infatti sarebbero continuati anche in futuro. Comunque questa è un'altra storia, questo è Hemingway!

Infidels è il 22esimo album in studio di Bob Dylan. Viene rilasciato il 27 ottobre 1983 per conto di Columbia Records. Lo avevano preceduto tre lavori definiti dalla critica album "cristiano-evangelici" come Slow Train Coming, Saved e Shot of Love, anche se a onor del vero solo il secondo era stato un disco propriamente estremista nei toni e nelle liriche, dato che già Shot of Love in diversi episodi se ne discosta, musicalmente e a livello testuale. Infidels, tranne per qualche brano poi scartato in fase di editing e di missaggio, rappresenta il ritorno alla cosiddetta musica secolare. È un buon successo, a discapito di critiche circa la scaletta definitiva che lo andrà a comporre. Innegabile lo sforzo di essere attuale e contemporaneo. A tal proposito l'eminente Paul Zollo dirà nel tempo: "Infidels non ha perso nulla del suo potere, a differenza di tanti album del passato. Forse ha il suono migliore tra i suoi lavori in studio. Il suo genio è profondamente rispecchiato in ciascuno dei brani. Esclusioni a parte, resta uno dei suoi migliori dischi.

Sotto il punto di vista musicale il disco è saldamente nelle mani di Mark Knopfler, nella doppia veste di chitarra solista e di produttore. Fonti molto vicine all’artista dicono che in lizza per questo disco ci fossero David Bowie e Frank Zappa. Venne scelto invece il chitarrista di Glasgow, probabilmente più in linea con il feeling delle canzoni e che già aveva collaborato con Dylan in studio nel 1979. Lo affianca una band di livello eccellente, dove spicca la chitarra dell'ex Stones Mick Taylor, mentre la sezione ritmica è composta da Sly Dunbar e Robbie Shakespeare. Alle tastiere, Alan Clark. 

Infidels è la chiara istantanea di un autore che si esprime con consapevolezza ai massimi livelli, sotto ogni punto di vista: performativo, musicale e testuale. Un performer al massimo, consapevole di avere le carte in regole per tornare. C'è chi sostiene che questo poteva essere il miglior disco dai tempi di Blood on the Tracks se non addirittura superiore. E invece... è un dannato capolavoro!  Basti pensare al fatto che questo lavoro ha ispirato artisti del calibro di Caetano Veloso, Tom Petty, Jimmy LaFave, Built to Spill e Craig Finn i quali nel corso degli anni gli renderanno omaggio riprendendo alcuni dei pezzi migliori di questo lavoro.

Pochi dischi del Dylan post anni sessanta possono contare sulla solidità e la compattezza di questo album. Otto brani, quattro per ogni facciata con pezzi di valore assoluto come Jokerman, Sweetheart Like You, License to Kill e I and I, che da soli valgono già il disco. Ai quattro gioielli vanno poi aggiunti i seguenti brani: Dont' Fall Apart on me Tonight, Union Sundown, Man of Peace e Neighborhood Bully. La critica (per una volta benevola verso questo lavoro) resterà un po' spiazzata facendo spallucce quando Dylan utilizza l'arma dell'ironia venendo il più delle volte frainteso e scambiato per un lamentoso reazionario. Riascoltando oggi alcune canzoni verrebbe da dire che l’autore abbia un atteggiamento da boomer, quando afferma:

Le mie scarpe vengono da Singapore, le mie tovaglie dalla Malesia, la mia cintura con la fibbia dall'Amazzonia. Questa camicia che indosso viene dalle Filippine e la macchina che sto guidando è una Chevrolet fabbricata in Argentina. Questo abito di seta è di Hong Kong, il collare del cane è dell'India e il vaso di fiori è del Pakistan. Tutti i mobili recitano "Made in Brazil". 

Eppure un artista sul viale del tramonto non avrebbe dato alle stampe un disco così compatto, lucido e coerente. E poi, sorpresa delle sorprese, il meglio che aveva scritto (e registrato) non è neppure presente sul disco. Ci sono infatti almeno tre brani che avrebbero reso l'album se possibile più valido e di maggior peso specifico. Blind Willie Mc Tell, Death is Not The End, Lord Protect My Child, Foot of Pride, Someone's Got A Hold Of My Heart, Clean Cut Kid, Tell Me avrebbero costituito l'ossatura per un ottimo doppio album. Un ritorno? Forse, anche se per alcuni fan toccherà attendere ancora qualche anno. E' difficile giudicare in termini negativi un disco che lavora per sottrazione e che rinuncia a pezzi pregiati in nome di compattezza e coerenza in virtù del messaggio che vorrebbe lanciare. Dylan qui è uscito dall'ubriacatura religiosa e ritorna con la voce più credibile, quella del suo glorioso passato. Non più la voce di una generazione, visto che sono cambiate molte cose, ma un lucido visionario, che ha letteralmente superato le fiamme dell'inferno per tornare dai peccatori a raccontare una poco lieta novella. Peccatori? Meglio dire infedeli.

Considerazioni personali su Infidels (e sul brano Blind Willie Mc Tell)

Quanta potenza e quanta rinuncia c'è in questo disco, in questa prova in studio. Non è facile scrivere e argomentare su quello che poteva essere, ma non è stato. Eppure noi qui sappiamo come andranno le cose. Basta avere la volontà di riavvolgere il nastro. Basta acquistare un biglietto e se sei fortunato il tuo numero uscirà. È stato così per noi, è stato un gioco dove non c'erano vincitori e sconfitti, perché questo treno non porta più prostitute e biscazzieri, perché nessuno ha più occhi per vedere e sogni da infilare sotto cuscini improvvisati. C'è un pianoforte e una chitarra che suonano magnificamente e c'è una voce che si staglia. Non sembra bella, ma è urgente e sincera. È la voce di Bob Dylan. Il canto di un menestrello in preda ai deliri di un blues ancestrale e solitario. Infidels è il disco che poteva essere e non è stato. Blind Willie Mc Tell è una riflessione sulla fine dei tempi. Eppure Infidels resta ancora oggi un'idea di viaggio sonoro preciso, puntuale, consapevole che ci consegna una delle migliori canzoni dai tempi di Mr. Tambourine Man, quella splendida, ipnotica, meravigliosa, Jokerman. Una sorta di nuovo alter ego, dove l’autore e il performer trovano adesione e immedesimazione totale, quasi mimetica. Nessuno ora canta il blues come Bob Dylan. Nemmeno Dylan stesso!

Dario Twist of Fate

venerdì 23 dicembre 2022

Gli ottant'anni di Mr. Bob Dylan

Ci sono coloro i quali adorano la solitudine, io non sono uno di loro, in quest'era di vetroresina sto cercando una gemma. La sfera di cristallo lì sul muro non mi ha ancora mostrato nulla, ho pagato il prezzo della solitudine ma finalmente non ho più debiti. (Bob Dylan)

Tre mesi fa, senza rendermi conto mi imbarcavo in questa retrospettiva critica dedicata alla produzione in studio di Bob Dylan. Trentanove album, oltre 50 anni di musica, attraversando epoche, stili e generi differenti. È stata un'impresa non da poco. In effetti è stato utile in certi frangenti distaccarsi, svuotare la mente e fare tabula rasa rispetto ad alcuni preconcetti che in oltre 20 anni di ascolto si erano accumulati. Il risultato è la riscoperta di un artista che ha influenzato almeno un paio di generazioni di musicisti, ma che raramente è riuscito a entrare nei cuori e nelle menti del suo pubblico. Una storia professionale, dove i bassi superano abbondantemente gli alti, ma del resto quando produci, scrivi e registri musica per oltre 50 anni: il rischio c'è, eccome. Eppure ci sono lavori (meno riusciti) a cui mi sono molto affezionato, in questa ricognizione, all'interno di un percorso analitico necessariamente a ritroso.

Ho ritrovato canzoni, suoni, temi che avevo messo da parte. Dimenticato, forse mai esplorato e conosciuto in maniera adeguata. Ora ho terminato questo ciclo e posso andare avanti, oltre Bob Dylan. Ammesso che oltre Dylan, Van Morrison, Edward Hopper, Tom Waits, Jack Kerouac, Paul Auster, Saul Bellow, Martin Scorsese, Henry Miller, Franz Kafka, The Band e Neil Young, vi sia davvero qualcosa di valido da scoprire, conoscere e analizzare. Ho qualche dubbio, ma resto positivo e fiducioso. Qualcosa, prima o poi, capace di attirare la mia attenzione salterà fuori. 

Buona lettura, buona vita e buon viaggio, se vi va!

Link di lettura: https://bobdylanthestudioalbumsreview.blogspot.com/

"Così canta la tua glorificazione del progresso e della macchina del giudizio, la verità nuda è ancora proibita dovunque possa essere vista. La Signora Fortuna, che risplende su di me, ti dirà dove sono. Odio me stesso per averti amato, ma sopravvivrò." (Bob Dylan)

Scritto durante la primavera 2021


- SITUAZIONISMO DYLANIANO -

martedì 20 dicembre 2022

Blood on the Tracks (Una magnifica ossessione)


Tangled up in Blue (Storia di un ordinario capolavoro)

Non è facile scegliere una canzone capace di rappresentare al meglio i 29 anni di una persona. Indipendentemente da chi sia il soggetto, o la soggetta. Variabilmente all'approccio e all'attitudine, sono cazzi amari, ma la vita non è sempre dolce, nemmeno se fai il pasticciere Trotzkista con la licenza di uccidere.
Perché si parla di una delle linee d’ombra inevitabili, come una lama rugginosa che scava, come un riff violento degli Stones: la chitarra che commenta abilmente le scene di un gangster movie alla Scorsese. Nello stesso modo, per me è molto difficile scegliere, anche se mi vedo costretto a farlo. Il disco è Blood on the tracks, la canzone sarà Tangled up in blue. Fin qui tutto regolare, non fosse che per una questione di maniacale perfezionismo e dovere filologico, verso chi ancora non ha interrotto la lettura, devo motivare perché proprio un verso, perché questo verso mi trasmette al contempo: inquietudine, rabbia, speranza, prospettive di vita. Ambivalente oltretutto, visto che posso utilizzarlo per andare avanti, per tornare indietro e ovviamente per incespicare. Cosa che riesce meglio a un numero sempre maggiore di persone. E’ ineluttabile, in una misura esponenziale, possiamo dire. Ora, se una persona scrive, e lo fa spinto da una certa motivazione, è normale rimanere impigliato, nel goffo tentativo di dissimulare convinzioni. Un punto di vista, un dettaglio, una sorta di illuminazione, si spera. 
Domandiamoci allora perché le migliori letture e le pagine più belle vengano realizzate e assorbite durante il momento più buio, quando cede la resistenza, quando ti accovacci nel tuo piccolo giaciglio, avviluppato nella tristezza, in quella malinconia che per forza di cose, sarà adamantina color magenta. Si arriva a un punto in cui il colore è musica, le parole sono immagini e tutto si mescola bene, come un long drink, come un amabile fine settimana trascorso in compagnia di un’amica, quel gruppo di persone che puoi chiamare casa. Ho scritto finora questa piccola antologia con una precisa metrica, di notte, quando le forze mi venivano meno. Così sono riuscito meglio ad abbandonarmi alla malinconia, al ricordo di ciò che è stato, nel bene e nel male, giusto e sbagliato, seguendo una certa idea, di racconto, di prosa. Scelgo in questa occasione una precisa partitura e inizio da un verso. 

Questo:

Così ora sto tornando di nuovo indietro, devo raggiungerla in qualche modo. Tutte le persone che conoscevamo sono un'illusione per me ora. Alcuni sono matematici altre sono mogli di carpentieri. Non so come sia iniziato tutto non so cosa facciano delle proprie vite, ma io sono sempre sulla strada diretto verso un altro incrocio.
Ora, io non so se avete dimestichezza con il modo di suonare la chitarra di Dylan, con la sua metrica e il fraseggio. Posso solo assicurarvi che in questo brano, qualunque esecuzione voi prendiate, il Nostro non perde un colpo. Mi spiego: non sto parlando da un punto di vista tecnico, lì sappiamo bene che si tratta di un autore a cui è sempre piaciuto prendersi qualche libertà espressiva. Intendo a livello emozionale. E non è affatto una giustificazione, perché bisogna essere davvero ottusi o fatti di ghiaccio per non considerare in un lavoro del genere l’elemento e l’apporto emozionale. Basta ascoltare la versione naked del brano per ricredersi. Parliamo di un autore ispirato ai massimi livelli, oltre le barriere di un chitarrista scambiato frettolosamente per menestrello capace di fare il busker e vagabondare per le vie innevate di New York City. 

Questa volta Bob Dylan decide di fare sul serio e di mettere sul piatto tutto i mezzi di cui dispone. Inclusa la riscrittura, inclusa la possibilità di riconsiderare una registrazione cristallizzata e forse più adatta per descrivere il contesto. Però l’imponderabile e imprevedibile concetto di tempo, spazio e fiuto per l’arte, colpiscono ancora una volta, lasciando il segno. È veramente un altro punto di vista, aggrovigliato nella tristezza. C’è un sentore di sangue in bocca, come se avessi beccato un pugno dritto sui denti, e forse è così, forse invece si tratta di canzoni di redenzione che raccontano di una Terra straniera e desolata più che promessa, di un Tempo vissuto, forse immaginato. Tangled up in blue è quel tipo di brano dove l'autore, da solo, con una band di accompagnamento, in studio, o dal vivo, corre i maggiori rischi. Rischi verso sé stesso, verso gli affetti che aveva tentato per lungo tempo di proteggere. Senza riuscirci. Perché funziona così, tu cerchi di difendere qualcuno, qualcosa, ma in realtà è da te stesso che dovresti proteggerli. Specialmente se la tua componente migliore, quella principale, è autodistruttiva e quindi lesiva. Possono essere le metriche musicali, può essere una tela, può essere sicuramente un foglio bianco come questo o quello che stai visualizzando ora. Per circa 25 anni ho provato rispetto e timore reverenziale verso autori di cui non sapevo poi molto, lo stesso dicasi per scrittori, registi e poeti. Eppure il vero timore è quello che sperimentiamo nei confronti di noi stessi, dei nostri alti ideali, della coerenza. Mi resi conto che c’era qualcosa di distorto in tutto questo, molto presto, e ho tentato per lungo tempo di sfuggire, a me stesso e al mio giudizio rigoroso, avviluppato nella tristezza. Come un cardellino che si dimena e che batte le ali contro vento, in un freddo giorno di pioggia, qui nella campagna irlandese, dove mi trovo proprio ora, in questo momento, mentre sto ascoltando la canzone, senza skippare i brani che non mi piacciono, ma abbondando di repeat-one, quando il pezzo è uno della prima triade, quando ad esempio si sta cantando di un rifugio, un riparo dalla tempesta che infuria, impazza, contro il morire della luce. Davvero bella questa! Non vediamo la luce del sole da circa tre settimane; scarpe usate eppur bisogna andare! Bisogna pedalare, verso quella scoscesa rupe, verso la collina di Hollyhill, col Blues di Marri Again! Del resto la pausa per fare colazione nella spaziosa canteen è solo tra due ore e mezza: se mi dice bene ci saranno quelle salsicce che mi piacciono tanto! E allora, di cosa mi dovrei lamentare, se ieri sono stato in un locale a jammare con ragazzi provenienti da mezza Europa. Proprio io, che non sono mai stato un vero bassista. Forse non importa, forse ci siamo capito lo stesso, e anche loro avevano qualcosa da farsi passare, un dolore, un dispiacere, un momento di nostalgia, avviluppato nella tristezza.

Dario Greco


- SITUAZIONISMO DYLANIANO -