martedì 23 aprile 2024

Io, Bob Dylan e il cinema come veicolo della miseria umana

 


Io, Bob Dylan e il cinema come veicolo della miseria umana

 

<<Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi.>> Parto da questa citazione di Arthur Rimbaud, perché trovo giusto irretire il lettore e persuaderlo del fatto che questo possa essere davvero un buon articolo da leggere! Nel corso degli anni, crescendo ho sviluppato una passione viscerale nei confronti di alcuni autori, indifferentemente legati al mondo dell'arte, della letteratura, del cinema e della musica popolare. Oggi, 42 anni compiuti, osservo il mondo da un punto di vista privilegiato, facendo della scrittura il mio mestiere per vivere e per pagare i conti.

C'è un artista, anzi un musicista, che più di altri ho seguito durante gli ultimi 18-20 anni e risponde al nome di Bob Dylan.

Bob Dylan? Ma non era morto? Può essere. Del resto lo dice egli stesso: I'm Not There.

Dylan è un autore agile, ma con gli scarponi pesanti e pensanti dell'agricoltore e come dice uno dei sei personaggi in cerca di autore nel film di Todd Haynes, "io sono un agricoltore, non posso permettermi di essere fatalista", parafrasando. In effetti per chi non conosce bene la sua musica, Dylan è l'ennesimo vaccaro stile John Wayne con lo Stetson, gli stivali e la giacca di cuoio. Immagine ficcante che in effetti lo descrive piuttosto bene. L'errore però con un artista così ondivago è proprio volerlo fotografare e mettere in archivio. Probabilmente per questo motivo non si reca quasi mai a ritirare un premio. Nemmeno quando si tratta del premio che ogni paroliere sogna di ottenere: il Nobel. Non è stato facile utilizzarlo nel mondo del cinema, anche se molti autori hanno tentato questa strada, in modo diretto e non. Uno dei primissimi film ispirati alla figura di Dylan fu questo Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me? diretto da Ulu Grosbard e interpretato da un brillante Dustin Hoffman. Il film narra le vicende della star del rock Georgie Soloway, assillato per le molestie che sta subendo da questo oscuro personaggio di nome Harry Kellerman. Per chi conosce bene le vicende di Dylan è facile associare questo plot narrativo alla figura dell'autoproclamato dylanologo, A.J. Weberman, personaggio discutibile che usava frugare tra i rifiuti di casa di Dylan, durante la fine degli anni sessanta. Oggi lo potremmo definire un mitomane, complottista cospirazionista. Del resto figure come quelle di Dylan, Sinatra o Lennon, hanno sempre attratto lunatici, fissati e mitomani. Anche io nel mio piccolo, potrei essere additato come un mitomane, se non fosse per il rispetto che nutro verso l'arte e gli artisti che ispirano il mio quotidiano.

Andando avanti sul fronte dylaniano e per quanto concerne il connubio cinema e musica, scopriamo come la sua prima vera apparizione sul grande schermo avvenga per la pellicola di Sam Peckinpah, Pat Garrett and Billy the Kid, del 1973. La breve apparizione in questo film per i fan resta iconica, ma è la colonna sonora il piatto forte di questo progetto. Dylan scrive infatti le musiche, ma soprattutto compone e pubblica il brano Knockin' On Heaven's Door, canzone che ha avuto più vite e più versioni, più o meno note, come quella appunto realizzata dai Guns N' Roses, ma anche da Eric Clapton, in versione reggae.  Tuttavia nonostante il cast di tutto rispetto, uno script intrigante e un regista importante, il film non fu affatto un successo. Una costante per quel che riguarda il ruolo di Bob Dylan, come attore cinematografico. Pochi ricorderanno infatti il film interpretato da Rupert Everett e diretto da Richard Marquand (Return of the Jedi), Hearts of Fire. In questa pellicola del 1987 Dylan è addirittura co-protagonista, ma il film si rivela un colossale flop, sia per incassi che a livello critico. È diventato un cult ma sono per dylaniani hardcore, nel corso del tempo.

In effetti le uniche apparizioni sul grande schermo che si ricordano per il loro valore artistico restano i documentari realizzati da Martin Scorsese e da D.A. Pennebacker.

Vanno meglio pellicole come Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me? Quelle che giocano più che altro su assonanze e sui proverbiali easter egg, come l'esordio alla regia del bravo e impegnato Tim Robbins. L'attore californiano realizzerà infatti una pellicola piena zeppa di rimandi alla produzione discografica dylaniana con il suo Bob Roberts. Primo film come regista di Robbins, che è anche sceneggiatore e interprete principale di una pellicola satirica girata in stile falso documentario su un candidato senatore populista conservatore. I rimandi a Dylan e a Orson Welles (Quarto Potere, ma anche Vérités et mensonges) si sprecano e mostrano un Tim Robbins abile anche nel ruolo di interprete musicale. L'attore aveva appena finito di girare I protagonisti di Robert Altman, altra pellicola importante per i primi anni novanta e forse oggi un po' ingiustamente dimenticata. Bob Roberts ruota attorno alla figura fittizia di un cantante country che tenta la strada della politica e si candida al Senato. Un piccolo gioiello assolutamente consigliato e da recuperare se non lo avete visto.

Sempre per ribadire che Dylan funziona a fasi alterne sul grande schermo voglio ricordare due pellicole speculari e molto differenti come esito critico e di pubblico. Si tratta di Wonder Boys e di Masked And Anonymous. Il film diretto nel 2000 dal compianto e talentuoso Curtis Hanson (8 Mile, L.A. Confidential) non ha bisogno di presentazioni. Qui troviamo un cast ispirato, guidato dal sempre bravo Michael Douglas, con un giovane Tobey Maguire, e in ruoli non meno importanti affidati, ma comunque incisivi, Robert Downey Jr. e Frances McDormand. Il film oltre a raccontare una storia insolita, brillante e originale, si fregia di una colonna sonora di assoluto livello. Tra vecchi classici e brani scritti appositamente per il film, troviamo infatti nomi come quello di Van Morrison, Leonard Cohen, Tom Rush, Neil Young e naturalmente Bob Dylan. Dylan fa la parte del leone con Shooting Star, tenera ballata dedicata al suicidio di un vecchio compagno di strada, Buckets of Rain, brano tratto dal capolavoro del 1975, Blood on the tracks e infine componendo per l'occasione il brano Things have changed. La canzone gli valse importanti premi e riconoscimenti come il Golden Globe e il premio Oscar per la miglior canzone nel 2001. Indovinato in che modo Dylan ritirò il premio? Apparendo in collegamento satellitare dall'Australia ed eseguendo il brano dal vivo. Mitico Bob!

Un po' meno brillante invece la sua nuova apparizione nella doppia-tripla veste di sceneggiatore, autore della colonna sonora e co-protagonista nel confuso e a tratti incomprensibile Masked And Anonymous, diretto dal futuro regista di Borat, Larry Charles. Circondato da un cast di stelle, come Jessica Lange, Jeff Bridges, Penelope Cruz, Val Kilmer, Mickey Rourke e Bruce Dern, tra gli altri, il film sembra un manifesto cubista-futurista, dove troviamo dialoghi e situazioni puramente dylaniane, ma senza il sostegno di una vera sceneggiatura e di una trama credibile. Non fa meglio nella colonna sonora, dove mette nel calderone brani rifatti da vari artisti giapponesi, turchi, nordamericani e perfino italiani. Così troviamo senza soluzione di continuità Jerry Garcia, Los Lobos, Francesco De Gregori e gli Articolo 31 che massacrano un classico come Like a Rolling Stone. È proprio il caso di dire che l'orgoglio precede la caduta, ma l'umiltà precede la gloria. Peccato che in questa occasione l'umiltà abbia inviato certificato medico, come illustre assente.

Concludo questo inutile pistolotto agreste ricordando che nemmeno il biopic I'm Not There, realizzato nel 2007 dal talentuoso Todd Haynes, ha messo d'accordo critica e fan sfegatati. Stavolta la pellicola da un punto di vista critico può dirsi pienamente riuscita o comunque ben fatta, nel suo intento cubista, a tratti dadaista. Co-sceneggiato e diretto da Todd Haynes e Oren Moverman, il film ripercorre la storia del musicista in sette distinti momenti della sua vita, venendo interpretato da sei attori diversi. Una didascalia all'inizio del film dichiara di essere "ispirato dalla musica e alle molte vite di Bob Dylan", e questa è l'unica menzione a Dylan nell'intero film, assieme alla colonna sonora. L'unica apparizione del cantante arriva proprio nel finale, con delle immagini di repertorio di un vecchio live del 1966, prima del famoso incidente motociclistico che segnerà l'abbandono dalle scene per lungo tempo. Ma questa è decisamente un'altra storia. Storia che probabilmente vedremo presto sul grande schermo, dato che James Mangold e Timothée Chalamet sono impegnati attualmente nelle riprese di A Complete Unknown. Non ci sono invece grosse novità sul fronte Guadagnino-Dylaniano. 

Il talentuoso regista siciliano aveva annunciato la realizzazione di una pellicola ispirata al capolavoro dylaniano del 1975, Blood on the tracks. La notizia però soffia nel vento, visto che risale al 2018. Ci aggrappiamo però alla speranza, che come si sa è l'ultima a morire per chi vive in un podere occupato, ma senza lavorare la terra. Perché come diceva il maestro Woody, Questa terra è la mia terra! 

(Articolo scritto per la blogzine The Clerks nel 2021)

Dario Greco



- SITUAZIONISMO DYLANIANO - 

lunedì 15 aprile 2024

Time Out of Mind (1997)

Time Out of Mind (1997)


Un trionfale ritorno per Bob Dylan. Time Out of Mind è il trentesimo lavoro in studio di Bob Dylan, nonché uno dei suoi più grandi successi, riconosciuto dalla critica, dal pubblico, e per una volta anche dai premi che ricevette. Oggi può suonare strano, ma questo disco venne salutato come Album of the Year, davanti a produzioni come Flaming Pie di Paul McCartney e OK Computer dei Radiohead. Nonostante venga pubblicato come cd singolo, Time Out of Mind è in realtà un doppio album in studio. Wikipedia afferma si tratti del primo doppio dai tempi di Self Portrait (1970), ma in realtà l’ultimo era stato The Basement Tapes (1975). La durata complessiva sarà di 72 minuti e 50 secondi, con il solo brano Highlands che raggiunge doppia cifra, arrivando a 16 minuti e 31 secondi. Registrato negli imponenti Criteria Studios di Miami, il lavoro si avvale nuovamente di Daniel Lanois in cabina di regia. Per certi versi possiamo considerarlo una sorta di sequel di Oh Mercy, nonostante vi siano alcune evidenti differenze, nel suono, nell'impostazione e nella realizzazione. Il suo autore qui sembra avere maggior controllo e liberà di movimento. Laddove Oh Mercy era un lavoro agile, breve e conciso, Time Out of Mind, pur avendo un marchio preciso che lo definisce nel suono e nell'atmosfera, ricorda per certi versi il metodo di lavoro che Dylan avevano adottato con successo, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. È un disco molto cupo, a tratti deprimente, ma che al suo interno contiene una delle migliori raccolte di canzoni dai tempi di Blood on the Tracks, Desire e Infidels. In più, rispetto a quel tipo di lavori che i fan di Dylan hanno apprezzato e amato nel tempo, questo disco è stato capace di mettere d'accordo un po' tutta la comunità musicale, sia quella del blues e del country, ma soprattutto quella più eterogenea del rock, per via del suo suono gonfio, presente e per una volta ben centrato e calibrato, durante gli episodi maggiori dell'album.

È innegabile come l'autore che si presenti in studio sia in stato di grazia a livello compositivo. Non è un caso se dal cilindro riesca a togliere fuori oltre alle sue solite ballate ispirate anche un singolo di successo come Make You Feel My Love, che verrà in seguito ripresa da diversi artisti come Billy Joel, Adele, Bryan Ferry e Garth Brooks. Tornano i grandi testi e possiamo affermare di ascoltare almeno quattro nuovi classici dylaniani, altrettante canzoni di valore assoluto e forse giusto due-tre riempitivi come 'Till I Feel In Love With You, Dirt Road Blues e Million Miles. Le atmosfere richiamano certi western crepuscolari sulla fine del mito della frontiera e lo stesso Greil Marcus, dirà che il disco gli ricorda per certi versi uno score alternativo degli Spietati di Clint Eastwood. In questo caso però ascoltiamo i lamenti e il male di vivere di chi ha sempre saputo stillare oro dalle proprie paturnie. Musicalmente il disco risente dell'ispirazione di alcuni importanti artisti seminali come Charley Patton, Little Walter e Little Willie John, a cui lo stesso Dylan aggiungerà durante il discorso di cerimonia dei Grammy anche il nome di Buddy HollyDylan è in viaggio, diretto verso l'ignoto, il Nowhere, anche se qui e lì accenna a posti reali, come Baltimora, New Orleans, il Missouri, Boston-town, oppure descriva di aver visitato Londra e Parigi, come in passato aveva fatto con Roma in When I Paint My Masterpiece. Torna anche la garra agonistica di confrontarsi col suo ingombrante passato. L'impressione è che i suoi guai sentimentali e la chiamata alle armi di un cuore sofferente, metaforicamente e non, gli abbiano fornito l'assist giusto e la volontà per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità e verità. A livello di ispirazione lirica i critici citano spesso John Keats, Robert Burns e il visionario William Blake. In particolare le liriche di Not Dark Yet sembrano una risposta proprio al poema Ode to a Nightingale di Keats. Per Jochen Markhorst Tryin' to Get to Heaven è tra le "opere più belle" dell'autore, data la somiglianza "più accessibile" della celebre Not Dark Yet perché qui offre la "prospettiva di redenzione in un aldilà". Anche da un punto di vista sonoro bisogna annotare il gran lavoro di Mark Howard  rispetto all'uso dell'armonica di Dylan, che qui possiamo apprezzare per la sua qualità elettrica, di distorsione del suono, predominante tra una strofa e l'altra. Un brano superbo e maiuscolo, come del resto lo è tutto il disco, nei suoi momenti di maggiore ispirazione e intensità.

Oltre al plauso che va condiviso tra l’autore e il produttore, è bene citare alcuni dei musicisti che prendono parte alle sessions del disco. Dylan schiera quella che all’epoca era la sua band di palcoscenico, dove troviamo il fidato Tony Garnier al basso, David Kemper alla batteria, Bucky Baxter alla chitarra acustica e pedal steel e alcune vecchie conoscenze come Jim Keltner e soprattutto l’organista Augie Meyers e la suonatrice di steel guitar e dobro, Cindy Cashdollar. Questa combo, che comprende naturalmente anche gli stessi Dylan e Lanois, si avvale poi di altri musicisti addizionali come il percussionista Tony Mangurian, Duke Robillard, Robert Britt e altri due batteristi: Winston Watson e Brian Blade. Un sistema di produzione e registrazione che sembra la versione aggiornata di Blonde on Blonde, a tratti. Per quanto riguarda la parte testuale, il marchio speciale di disperazione di Bob Dylan sta tutto nelle parole di testi come Not Dark Yet, Love Sick, Tryin' To Get To Heaven e soprattutto di Cold Irons Bound, quando afferma:

"Ci sono troppe persone, troppe da rammentare. Credevo che alcuni di loro fossero miei amici; mi sono sbagliato su tutti. Bene, la strada è rocciosa ed il pendio della collina è fangoso. Sopra la mia testa ci sono solo nuvole di sangue. Ho trovato il mio mondo, trovato il mio mondo in te. Ma il tuo amore non si è dimostrato vero. Sono a venti miglia dalla città, incatenato a fredde manette."

Tra le dichiarazioni migliori su questo disco, alcune sono proprio dello stesso Dylan e di Daniel Lanois.

"Quei dischi furono fatti molto tempo fa, e sai, sinceramente, le registrazioni che furono fatti in quei giorni erano tutte buone. Avevano dentro un po' di magia perché la tecnologia non andava oltre ciò che stava facendo l'artista. Era molto più facile riportare l'eccellenza in quei giorni su un disco di quanto non lo sia ora. La massima priorità adesso è la tecnologia. Non è l'artista o l'arte. È la tecnologia che sta arrivando. Questo è ciò che rende Time Out of Mind particolare. Non si prende sul serio, ma poi di nuovo, il suono è molto significativo per quel disco. Se quel disco fosse stato realizzato in modo più casuale, non sarebbe suonato in quel modo. Non avrebbe avuto l'impatto che ha avuto. Non c'è stato alcuno spreco di sforzo su Time Out of Mind e non credo che ci sarà più nei miei dischi. Una dichiarazione d'intenti che a distanza di quasi 25 anni possiamo condividere e sposare. Bob Dylan dopo il suo trentesimo e ispirato lavoro in studio è tornato ai suoi livelli di eccellenza, dove i passi falsi si sono notevolmente ridotti e ridimensionati. Anche se a onor del vero, bisogna ricordare come successivamente alla pubblicazione di Time Out of Mind, darà alle stampe solo cinque dischi contenenti brani autografi, uno dei quali scritto in collaborazione con Robert Hunter, paroliere dei Grateful Dead. Uno degli ultimi fondamentali squilli di tromba, una chiamata alle armi, che arriva quasi dall'Oltretomba.

Fatto non trascurabile: da queste sessions, verranno scartate canzoni del calibro di Mississippi (poi pubblicata nel successivo Love and Theft) della splendida e rara Red River Shore, di Marching to the City (pubblicata sul volume 8 dei Bootleg Series) e di Dreamin’ on You, anch’essa recuperata sull’antologico Tell Tale Signs del 2008.

Tra le bellissime interpretazioni di questo disco, sono da segnalare almeno tre cover: Not Dark Yet del compianto Jimmy LaFave, Tryin’ To Get To Heaven rifatta da David Bowie e Make You Feel My Love di Bryan Ferry, tratta dall'album tributo Dylanesque del 2007.

Disco monumentale e imprescindibile per conoscere in maniera più approfondita l’opera del suo autore.

Dario Twist of Fate

mercoledì 31 gennaio 2024

Un altro brutto, inutile articolo su Bob Dylan!



Post aggiornato al 31 gennaio 2024

Oh, no! Ci risiamo! Ecco un altro brutto articolo su Bob Dylan! 

E' ormai consuetudine per chi frequenta la blogosfera e per i tanti naviganti del web incappare in un nuovo brutto articolo su Bob Dylan. E non sono solo i blogger a riempirci di inutili ed inesatte notizie sul musicista statunitense. Una prassi dei cronisti del web è ripercorrere i suoi 50 anni di carriera con una carrellata degna delle migliori pellicole di Kubrick. Qui si scoprirà che Dylan, dopo aver fatto parte del movimento dei diritti civili e della controcultura anni '60, passò al folk-rock influenzato dai Beatles, e a cominciare dal 1965 vestì con strumenti elettrici le sue canzoni. Immancabile l'incidente in moto che segnò il suo ritiro dalle scene, la sua svolta in stile country Nashville, il suo disco peggiore, Self Portrait, la colonna sonora del film Pat Garrett and Billy the Kid che contiene la celebre Knockin' on heavens door poi ripresa dai Guns'n' Roses. Il ritorno sui palchi con i The Band è del '74. Poi il ritorno all'impegno col brano Hurricane in difesa del pugile nero Rubin Carter, ingiustamente accusato di omicidio. La svolta religiosa del '79 e il periodo di cristiano rinato con dischi gospel soul. E mi fermo qui, vi voglio risparmiare gli anni ottanta. 

Non so se avete notato, ma ho parlato di tante cose meno che di musica, di dischi e di fatti veramente rilevanti. E in tutto questo voglio farvi notare un' altra cosa. Siamo nel 2010 e se proprio vogliamo ripercorrere la carriera di Dylan a ritroso perché non cominciare dagli anni recenti. Dal 1989 ad esempio o dal '97. Parlare ad esempio di dischi come Oh, Mercy Time out of mind o Love and theft potrebbe aiutare a contestualizzare Dylan nel giusto periodo storico musicale. Che senso ha dire che Dylan non suona più la chitarra acustica nei concerti, che le sue canzoni sono irriconoscibili, che la sua band è mediocre, che non ha più voce. Tutte cose davvero inutili e che poi servono a concludere questi brutti articoli scritti solo per dovere di cronaca. A proposito Dylan è attualmente in tour, da circa vent'anni e dal 2006 ad oggi ha pubblicato Modern Times, Tell Tale Signs, Together Through Life e Christmas In The Heart. E nonostante il mio brutto e sarcastico post è considerato una delle figure più rilevanti della seconda metà del novecento, un musicista caparbio e uno dei maggiori autori di canzoni vivente. 

Questo post l'ho scritto nel 2010, ma strano a dirsi, è ancora oggi relativamente attuale, odierno. Purtroppo è stato rilasciato un nuovo documentario sugli anni ottanta, per nostra fortuna Dylan ha un ruolo marginale, se non del tutto cosmetico. Nonostante questo il suo nome, strano ma vero, sta sempre in testa al cartellone. Perché Bob Dylan è il MENESTRELLO, l'eroe proletario che flagella la propria coscienza. Non serve a nulla sottrarsi in questo gioco al massacro. Solo una pedina nel loro gioco, cantava un giovane ma scaltro cantautore negli anni Sessanta. Non cambierà nulla. Passano gli anni e siamo ancora costretti a sentire e a leggere fesserie su Dylan. Oltretutto si potrebbe semplicemente dire che a Dylan la canzone non piaceva. Appare evidente e se non sbaglio dopo qualche tempo l'ha pure detto a chiare lettere. Eppure c'è sempre il Mister Jones di turno, che anziché fare un po' di inchiesta, sforzarsi di capire il motivo della presenza di Dylan durante la registrazione di WE ARE THE WORLD, continua a sciorinare le solite cavolate, sul fatto che Dylan non sia in grado di cantare due versi di un brano pop zuccheroso, tutto retorica e buoni propositi democratici. Va bene, ve lo dico io allora come stavano e come stanno le cose, il pezzo sembra un jingle pubblicitario brutto, Dylan cambia idea e si rifiuta di incidere la sua parte. O meglio fa resistenza. Però poi si arrende alle giuste richieste del produttore Quincy Jones, di Stevie Wonder, coinvolto nel progetto dalle prime battute, da fonici e assistenti di produzione. Viene incoraggiato e alla fine, la sfanga. Di mestiere, di malavoglia. 

E non serve essere grandi firme del giornalismo musicale per capirlo, per vedere. E' una cosa palese, evidente. E sì, tutta l'operazione era e resta discutibile, una gran porcata, artisticamente parlando. Non conoscevo alcuni dettagli e consiglio a tutti la visione di questo CAPOLAVORO degli anni anni ottanta, che si intitola WE ARE THE WORLD: LA NOTTE CHE HA CAMBIATO IL POP. 

Titolo onesto, che non nasconde la sua natura smargiassa, pomposa e autocelebrativa. Con buona pace di chi sostiene a distanza di 39 anni che Dylan abbia fatto una figuraccia in mondovisione. La figuraccia per me l'ha fatta chi scritto, suonato e prodotto questa spazzatura che ebbe un successo commerciale senza precedenti. Personalmente non mi interessa conoscere i motivi per cui Dylan abbia voluto partecipare. Per me è stato un errore, uno dei tanti, troppi passi falsi del suo decennio nero, gli anni Ottanta!

lunedì 15 gennaio 2024

I 50 anni di Planet Waves

 

Planet Waves (1974) 

“Così canta la tua glorificazione del progresso e della macchina del giudizio. La verità nuda è ancora proibita dovunque possa essere vista.”

Discutere e analizzare in termini retrospettivi alcuni dischi di Bob Dylan è una buona occasione per mettere meglio a fuoco la sua produzione in studio. Specialmente quando si tratta di commentare un album frainteso come Planet Waves del 1974. I più anziani di voi certamente ricorderanno la pessima abitudine di metà anni novanta di descrivere un artista e un prodotto artistico come "commerciale". Probabilmente questo termine prese piede per via del genere di musica dance, conosciuto nel nostro Paese proprio con il nome di Commerciale. Ecco, questo album all'epoca della sua uscita venne bollato come "il disco commerciale di Bob Dylan", mentre avrebbe potuto essere uno dei suoi grandi ritorni. In effetti ci sono molte novità e qualche sguardo al passato. Le due novità più rilevanti sono il fatto che questo disco venisse prodotto e registrato nella West Coast, durante un momento dove la musica californiana stava prendendo il sopravvento rispetto alla East Coast dove Dylan si era fatto conoscere e si era affermato. La seconda novità riguarda l'etichetta, non più Columbia, a Asylum Records, che significa in pratica David Geffen ed Elliot Roberts, due nomi che non hanno certo bisogno di presentazione. A queste due novità sostanziali bisogna inoltre aggiungere un elemento che collega questo disco con gli anni sessanta di Dylan, quindi un ritorno alle radici e al suo passato: Planet Waves vede come gruppo di accompagnamento The Band. Nonostante il sodalizio artistico tra Dylan & The Band risalga al 1965, questa è la prima volta e unica volta in cui il cantautore registrerà in studio un disco con gli ex-Hawks. È vero, c'era già stato The Basement Tapes, ma come sicuramente saprete quello non era nato come un progetto ben definito e comunque non è stato registrato in un vero studio. Le uniche sessions in studio con The Band sono quelle poi scartate da Blonde on Blonde, che spinsero Dylan e il suo produttore a lasciare New York per incidere a Nashville, ma quella è un'altra storia.

Planet Waves risente in termini di accoglienza critica di una duplice ostilità nei confronti del suo autore. Tuttavia il disco ottiene per la prima volta il numero uno in termini di vendite per il mercato statunitense. Le critiche sono tendenzialmente favorevoli, ma spesso fuori bersaglio. Si pensi ad esempio a questa affermazione da parte di Ellen Willis del New Yorker: "Credo che le parole siano intese come riempitivo, qui Dylan sta tentando di sottrarsi alla sua reputazione di poeta per farci concentrare sulla musica".

Quella che sembra una critica nemmeno così feroce, rispetto a quei buontemponi di Landau, Marcus e Marsh, è in effetti una delle considerazioni più errate di sempre. Prima di tutto Dylan non si reputa poeta e non ha mai affermato di scrivere per dare maggior peso alle parole. Questa è il punto di vista della critica, che durante gli anni abbiamo poi scoperto essere un po' impreparata sul discorso puramente sonoro. In pratica è facile prendere un disco di Dylan e scrivere qualche cartella sul presunto significato di questo e di quel testo. Che egli fosse un autore sfuggente e un po' enigmatico ci sono pochi dubbi, ma resta il fatto che nella maggior parte dei casi non abbia avuto un pari trattamento rispetto ai suoi illustri colleghi e questo considerando la sua importanza e la carriera longeva e ricca di successi, appare una questione difficile da comprendere, in termini retrospettivi.

Planet Waves non è quindi il sequel di New Morning, nonostante sia la prima vera raccolta di brani inediti pubblicata a tre anni di distanza da quel disco. Il valore dei testi e delle canzoni non ha bisogno di alcuna difesa d'ufficio. A parte il successo di Forever Young, diventata una delle canzoni simbolo del suo autore, bisogna citare brani di spessore come Dirge, Wedding Song e Going Going Gone. Di questo disco registrato durante il mese di novembre del 1973 bisogna dire che forse non è il suo lavoro più ispirato e coeso, ma contiene almeno metà dei brani che sono sopra la media, come Hazel, Never Say Goodbye e You Angel You. Certo, ci sono anche pezzi come On a Night Like This che potevano essere risolti meglio, ma qui era importante tornare sulla strada e riprendere da dove la giostra aveva lasciato esattamente ben otto anni prima.

Eppure questo Planet Waves spicca come lavoro, in quanto diverso rispetto agli altri. Più apertamente personale: un dilemma pratico ed estetico, del suo autore nei confronti della consorte. Un buon disco, a tratti notevole, a tratti trascurabile, ma comunque gradevole. Lavoro ragguardevole, ma strambo. Forse l'elemento di disturbo, ingombrante è proprio The Band, da cui francamente chiunque sia appassionato di rock si aspetterebbe qualcosa in più. Per Jim Beviglia alcune esecuzioni risentono infatti del "pilota automatico" innestato da Levon Helm, Rick Danko, Garth Hudson, Richard Manuel e Robbie Robertson. Ci sono momenti in cui questo lavoro è semplicemente fantastico, altri in cui sembra un po' rigido e messo in circolazione in maniera un po' frettolosa. Premesso che oggi un disco così sarebbe acclamato come un capolavoro assoluto, bisogna escludere dal concetto di pilota automatico gli incastri e le dinamiche che fanno di Going Going Gone, di Forever Young, di Hazel e di altre tracce che si avvalgono invece di esecuzioni importanti, oggi storiche per la canzone rock seventies. Dylan sta per tornare, e se anche fosse in una fase strana e "commerciale", che male c'è? 

Troviamo che il disco sia ben realizzato e con quattro, cinque brani che suonano tra i migliori di sempre realizzati in studio. Non tutti sanno che in questo lavoro c'è un omaggio e un debito verso uno degli autori chiave di Bob Dylan. Si tratta di Jack Kerouac e del suo meraviglioso Angeli di desolazione. Per chi fosse interessato consiglio la lettura del capitolo 15, prima parte, Desolazione nella solitudine. Detto questo, la cosa che ci crea un po' di rammarico, in questa occasione è la scelta del titolo. Nonostante Planet Waves sia un funzionale claim da copywriter, gli avremmo preferito il più suggestivo Ceremonies Of The Horsemen, una citazione dal brano del 1965 Love Minus Zero/No Limit. Il disco compie oggi 50 anni. Uscì infatti il 17 gennaio del 1974. 

Ci sono colori i quali adorano la solitudine, io non sono uno di loro. In quest'epoca di vetroresina sto cercando una gemma. La sfera di cristallo non mi ha ancora mostrato niente. Ho pagato il prezzo della solitudine, ma finalmente non ho più debiti.

Dario Greco

martedì 19 dicembre 2023

Il 2023 è stato un anno decisamente dylaniano

 


Il 2023 dylaniano è stato un anno ricco di eventi e uscite. Si è aperto con la pubblicazione del diciassettesimo volume del Bootleg Series, Fragments, dedicato esclusivamente al periodo del capolavoro Time Out of Mind. Due versioni disponibili, tra cui quella standard a due dischi e quella deluxe composta da cinque lp. Secondo fonti non ufficiali questa potrebbe essere stata l’ultima pubblicazione della serie Bootleg Series, che era partita nel marzo 1991 con la pubblicazione dei primi tre volumi.

Ad aprile è ripartito il World Wide Tour, che questa volta toccherà anche mete che Dylan aveva trascurato negli ultimi tempi, tra cui l’Italia con cinque date. Non si esibiva nel nostro Paese dall’aprile 2018, quindi in epoca pre-Covid. La band con cui suona in Italia nel 2023 è piuttosto diversa rispetto a quella di cinque anni prima.

A giugno viene pubblicato il nuovo disco in studio. Si tratta della colonna sonora di Shadow Kingdom. Viene svelata l’identità dei musicisti che hanno partecipato alle sessioni dell’album. Tra i nomi spiccano quelli di due vecchi collaboratori di Dylan. In particolare citiamo il chitarrista T-Bone Burnett e il produttore e bassista Don Was. Dylan aveva collaborato con T-Bone Burnett ai tempi della Rolling Thunder Revue e più recente alle nuove incisioni nel formato “ionic recording” di Blowin’ in the Wind del 2022. Don Was aveva prodotto invece con Dylan il disco Under the Red Sky del 1990.

Sempre per quanto riguarda vecchi collaboratori e musicisti che hanno segnato una generazione, l’11 agosto si spegne il membro di The Band, Robbie Robertson. Robertson, oltre a essere stato amico e stretto collaboratore di Dylan, aveva partecipato alle registrazioni di tre importanti lavori in studio: Blonde on Blonde, The Basement Tapes e Planet Waves. Inoltre aveva accompagnato Dylan in tour dal 1966 al 1974. Con The Band aveva inciso diversi brani scritti da Dylan come When I Paint My Masterpiece, This Wheel’s on Fire, Tears of Rage, ma soprattutto il classico I Shall Be Released. Inoltre entrambi facevano parte del cast del film documentario di Martin Scorsese, The Last Waltz, dedicato all’addio alle scene di The Band, salvo ripensamenti e una line up differente. Nel libro autobiografico TESTIMONY, Robertson si sofferma sul rapporto di amicizia e di collaborazione tra la Band e Dylan in modo approfondito e affettuoso.   

A settembre Dylan partecipa a sorpresa al Farm Aid, unendosi alla band di Mike Campbell & The Dirty Knobs, con la partecipazione di Benmont Tench alle tastiere. I due ex-Heartbreakers (lo storico gruppo di Tom Petty) avevano più volte partecipato a sessioni in studio e concerti facendo da spalla a Bob Dylan. Per l’occasione Dylan torna a suonare la chitarra elettrica in un mini set composto dai brani Maggie’s Farm, Positively 4th Street e Ballad of a Thin Man.

Le informazioni che vanno a completare e a concludere un anno ricco di novità e uscite, riguarda due uscite antologiche. La prima è The Complete Budokan, box deluxe composto da due live risalenti al tour giapponese del 1978, di cui ho parlato qui. La seconda è la più recente e riguarda il 50th Anniversary Collection 1973, con la pubblicazione integrale delle 28 tracce appartenenti alle sessioni della colonna sonora del film Pat Garrett & Billy The Kid. Al momento della stesura del testo non ho ancora ascoltato la compilation antologica, ma presumo debba trattarsi dei mitici bootleg noti ai fan dylaniani più accaniti come Peco’s Blues. Il bootleg non ufficiale Peco’s Blues, contemplava però una scaletta ridotta, composto da 23 brani, anziché i ventotto ora pubblicati. Si tratta di un’uscita in edizione limitata, realizzata per garantire i diritti d’autore di queste sessioni che altrimenti sarebbe diventate libere, dato che stavano scadendo i diritti essendo trascorsi 50 anni. Questa legge riguarda in special modo la vigente regola europea sui diritti d’autore. Un prodotto destinato alla super nicchia dei completisti e dei fandom dylaniani più hardcore, di cui però mi sembrava giusto parlare, dato che in Italia la notizia non sta circolando in modo adeguato e sufficiente.     

Capitolo a parte meriterebbe il Tour 2023, concluso lo scorso 3 dicembre a Evansville, Indiana. Ci sono state grandi novità in scaletta, con Dylan e i suoi che hanno spesso eseguito cover di altri importanti artisti come Leonard Cohen, Billy Joel, Merle Haggard, Grateful Dead e via dicendo.

A memoria, da quando seguo Dylan, cioè da oltre 20 anni ormai, non ricordo un anno più ricco di novità e di uscite. Una vera manna per noi fandom devoti! 

Di questo ve ne parlerò presto in separata sede. Ora vi auguro buone vacanze e un felice anno nuovo!



giovedì 14 dicembre 2023

Christmas in the Heart (2009)

Avete mai sentito dire che il tempismo è tutto nella vita? Oppure che l’uomo saggio aspetta il momento giusto, mentre il pazzo lo anticipa e l’imbecille lo lascia passare? Già, il tempo, uno dei topos dylaniani per eccellenza, se vogliamo. 

Le feste danno il senso del tempo che passa. Basterebbe solo questo per fornire la motivazione sufficiente a spiegare il progetto Christmas in the Heart.

Per le grandi star le uscite natalizie sono una tradizione fin dagli albori dell’industria discografica. Ora è bene specificare come alcuni degli eroi di gioventù di Dylan, fecero album natalizi. Ci sono esempi importanti che hanno contribuito a consolidare la carriera artistica di alcuni cantanti, e non ci stiamo riferendo ai classici cantanti etichettati come artisti natalizi, che oggi purtroppo sono diventati un problema sonoro durante il periodo che anticipa la natività del Cristo. In questo caso però parliamo di un disco di tradizione cristiana, realizzato da un artista ebreo come Bob Dylan. L’intento è nobile, visto che gli incassi sono destinati in beneficenza in favore delle associazioni Feeding America e del World Food Programme delle Nazioni Unite. 

Il capitolo che riguarda la generosità e l’impegno sociale dell’artista sarebbe da trattare in separata sede, visto che probabilmente si tratta di uno dei musicisti che hanno sempre messo davanti al proprio ego, cause nobili. Senza elencarli tutti, diciamo solo che Bob Dylan è stato uno degli artisti più longevi e socialmente impegnati di sempre. Tuttavia il disco va contestualizzato a livello critico, come il primo di quella che sarebbe divenuta una nuova fase di riscoperta e rivalutazione di materiale non autografo pubblicato dal cantautore.

Tra il 1992 e il 2017 pubblica infatti 6 lavori in studio basati su cover, riproposizioni e brani tradizionali. Christmas in the Heart è il sequel di Together Through Life, pubblicato appena sei mesi prima, durante la primavera del 2009. Motivo per cui venne realizzato nello stesso modo in cui aveva inciso gli album precedenti. Qui troviamo la sua band che lo accompagna anche dal vivo, con l’aggiunta di David Hidalgo dei Los Lobos, del pianista Patrick Warren e di un coro che lo segue nelle tracce presenti in questo lavoro. Piuttosto che volgere tipici brani natalizi in una forma peculiare, Dylan li suonò in modo diretto. Il risultato fu sorprendente, quanto scioccante. Un abbraccio a tutto campo a quella vecchia e tranquillizzante America, un omaggio ai dischi natalizi che profuma di anni Cinquanta, dell’atmosfera in cui Dylan è cresciuto.

Restituisce tutto in modo diretto, rilevando un’anima pop insospettabile, ed è magicamente suonato, prodotto e arrangiato. Un piccolo gioiello da scartare sotto l'albero. Non sorprende per chi aveva compreso e mandato a memoria ciò che Dylan porta avanti dal 1997 con Time Out of Mind e in misura maggiore con “Love and Theft” e Modern Times. Qui però c’è pochissimo blues ed è quasi del tutto assente lo stile roadhouse, ma non è detto che questo sia un male, anzi. Col senno di poi è una dichiarazione di intenti che pubblico e critica faranno fatica a capire.  

Dopo la pubblicazione dei dischi Great American Songbook (quelli della Fase Sinatra, per intenderci) diventa più semplice analizzare il percorso del Dylan anni Novanta che si affacciava al nuovo millennio. Oggi l’hype è dovuto principalmente al fatto che da dopo Tempest si attende la pubblicazione del suo ultimo, conclusivo disco in studio. Ci hanno provato già ad azzardare che lo fosse Tempest, così come sono state fatte parecchie illazioni quando è arrivata la cinquina sinatriana. Stessa cosa era capitata durante il lockdown, quando a sorpresa l’artista rilasciava sulle piattaforme una lunga dissertazione poetica, che sembra una meditata replica di American Pie di Don McLean. Il brano Murder Most Foul, dalla durata insolita e importante, è stato l’apripista del suo ultimo disco in studio: Rough and Rowdy Ways, pubblicato nel 2020.

Sottostimato e considerato un lavoro bizzarro, Christmas in the Heart ha dalla sua un cambio radicale nell’approccio sonoro, ma soprattutto nel cantato. Oltre a essere decisamente pop, ha delle qualità insite del folk, visto che dopo Time Out of Mind e “Love and Theft” dove le voci erano dominanti, qui avviene una svolta. È un lavoro disadorno, capace di mettere al centro il fraseggio e l’esecuzione. Suona maledettamente bene ed è a fuoco, tanto che ci sarà chi lo elogerà come un disco importante, proprio sotto il profilo sonoro e dell’esecuzione.

Da qui in poi Bob Dylan rilascerà album forse poco noti e con un appeal inferiore, ma suonati e cantati in modo impeccabile, con arrangiamenti raffinati e piuttosto lontani da quello che aveva realizzato in studio, durante i primi vent’anni di produzione musicale. Quasi nessuno se ne accorge e sono pochi i critici che mettono in evidenza tale aspetto. L’artista durante gli anni avrà anche perso la voce, ma ha imparato a cantare, a trovare nuove strade per accompagnare le sue canzoni e l’esecuzione di materiale altrui. Piaccia o meno, quello che ha prodotto da questo punto in avanti è realizzato in modo professionale, con arrangiamenti minimali, per certi versi originali e innovativi. In pratica uno dei paladini del low-fi ha iniziato a produrre con maggior criterio e ricchezza di mezzi. Non sono dischi per chi ama i Pink Floyd forse, ma di strada rispetto agli anni Sessanta ne è stata battuta, e nemmeno poca. Il percorso discografico di Dylan proseguirà senza sosta, ma questo disco natalizio è stato molto più importante rispetto a quanto la critica e il pubblico vogliano farci credere. 

Riascoltare per credere Christmas in the Heart.


mercoledì 13 dicembre 2023

Il 2023 di Bob Dylan in pillole

Il 2023 di Bob Dylan in pillole

 

Gennaio

Il 27 gennaio viene pubblicato The Bootleg Series Vol. 17: Fragments – Time Out of Mind Sessions (1996–1997) è il titolo del diciassettesimo album discografico di Bob Dylan appartenente alla serie Bootleg Series, pubblicato nel 2023 dalla Legacy Records.

La compilation include una versione remixata dell'album Time Out of Mind, outtake, versioni alternative e dal vivo di vari brani dell'epoca. Il disco è stato pubblicato in una versione standard su due CD e in versione estesa come cofanetto box set da 5 dischi.

Febbraio

Prosegue la mostra “Retrospectrum” al MAXXI di Roma, dedicata alle opere di Bob Dylan. Per l’occasione viene pubblicato anche il catalogo, col titolo omonimo della mostra.

Aprile

Il 6 aprile, con la data di Osaka, Bob Dylan torna in tour. Questa volta tornerà anche in Europa e suonerà per cinque serate in Italia, a Luglio, con due date a Milano, una a Lucca, Perugia e Roma.

Giugno

Viene pubblicato in versione Cd e DVD la colonna sonora del film Shadow Kingdom, 40esimo lavoro in studio di Bob Dylan. La scaletta non contiene inediti e bonus track, fatta eccezione per la traccia strumentale Sierra’s Theme. 

In termini di archivio, la pubblicazione getta nuova luce sull’operazione Shadow Kingdom, in quanto svela chi ha partecipato alle sessioni in studio di questo progetto. Si tratta di vecchi e nuovi collaboratori, che non sono le persone che si erano viste in video. 

Tra questi citiamo Jeff Taylor alla fisarmonica, Don Was al contrabbasso e T-Bone Burnett alla chitarra. Dylan quindi non utilizza la band che è solito accompagnarlo sia in tour che nei dischi in studio. Una novità assoluta, per questi anni più recenti.

Agosto

L’11 agosto muore il chitarrista, cantante e compositore Robbie Robertson. Robertson, membro di The Band, è stato per lungo tempo collaboratore di Bob Dylan, sia in studio (Blonde on Blonde, The Basement Tapes, Planet Waves) che dal vivo (1966 e 1974). Era nato il 5 luglio 1943 e da tempo stava combattendo la sua battaglia con il cancro.

Settembre

Viene pubblicata la compilation Mixing Up The Medicine / A Retrospective, cd antologico che funge da accompagnamento al mastodontico volume cartaceo dal titolo quasi omonimo: Mixing up the Medicine, realizzato da Parker Fishel e Mark Davidson ed edito da Callaway Arts & Entertainment, in lingua inglese. 

Ad oggi non ci sono informazioni su una possibile traduzione e pubblicazione in lingua italiana.

Sabato 23 settembre, sul palco del Ruoff Music Center di Noblesville, Indiana, per il Farm Aid 2023, accompagnato dagli Heartbreakers di Tom Petty, Dylan ha eseguito per l’occasione con la chitarra elettrica tre brani dal suo repertorio storico, Maggie’s Farm, Positively 4th Street e Ballad of a Thin Man.

Novembre

Viene pubblicato The Complete Budokan, live che documenta i concerti del tour giapponese del 1978. Il cofanetto deluxe include 4 cd che testimoniano le due serate del Budokan, con i soliti gadget, libri e memorabilia delle grandi occasioni. 

Il costo del box è importante, ma getta nuova luce e rivaluta parzialmente la precedente pubblicazione del live di Budokan, album live doppio pubblicato durante la primavera del 1979.

Dicembre

Il 3 dicembre con il concerto di Evansville, IN si conclude la sezione del World Wide Tour dedicata al 2023.

Il 14 dicembre viene pubblicata in edizione limitata 50th Anniversary Collection: 1973.

Si tratta di un cd composto da 28 tracce, perlopiù inedite, tratte dalle sessions della colonna sonora di Pat Garrett & Billy the Kid di Sam Peckinpah.

Ecco ora la sezione dedicata ai principali anniversari del 2023

The Freewheelin’ Bob Dylan festeggia i 60 anni dalla sua prima pubblicazione. Era il 27 maggio 1963. 

-        Pat Garrett & Billy the Kid, prima colonna sonora realizzata da Dylan, festeggia 50 anni dalla sua pubblicazione. Lo stesso discorso vale anche per la pellicola, la cui prima proiezione avveniva il 23 maggio 1973. La sera prima del compleanno di Bob!

 Compie 40 anni anche il disco Infidels, ventiduesimo lavoro in studio pubblicato il 27 ottobre 1983. Il disco, che già ai tempi venne salutato come un ritorno, oggi è considerato tra le prove più convincenti della discografia dylaniano post anni Settanta.          

Compie 30 anni anche World Gone Wrong, 29esima prova in studio che presenta esclusivamente materiale non autografo, essendo composto da cover di canzoni folk tradizionali, eseguite da Dylan in solitaria con l’accompagnamento di chitarra acustica e armonica.

-         Compie 30 anni anche la registrazione del concerto The 30th Anniversary Concert Celebration, pubblicata per la prima volta il 24 agosto 1993. Il live documenta la serata di tributo realizzata il 16 ottobre 1992. Allo spettacolo hanno partecipato numerosi tra i principali artisti della musica rock statunitense e britannica - già collaboratori dell'artista di Duluth - che salutavano con la loro presenza e con l'esecuzione di cover dei classici dylaniani la carriera del cantante.

-         Compie poi 20 anni anche la colonna sonora del film Masked & Anonymous: Music from the Motion Picture. Il film era uscito nelle sale americane durante l’estate del 2003.