"E un anno passa, un anno vola, un anno cambia faccia. E una città che muore, che protegge e che minaccia." (cit.)
Non ho la presunzione di scrivere un pezzo su quelli che
sono stati i migliori dischi del 2020. Ho ascoltato forse meno di venti nuovi lavori, parlo di album usciti tra il primo gennaio e il 27 dicembre 2020. Proverò quindi a tracciare una sorta di bilancio personale, rispetto a quelle che erano le mie aspettative, su questo
anomalo periodo: su quanto sia realmente accaduto.
Dal cappello sono usciti fuori
almeno cinque/sei dischi che mi hanno emozionato, esaltato e accompagnato in questi
tempi funesti. C'è stato un carico di responsabilità maggiore, rispetto agli altri anni, primo perché ho ricominciato ad ascoltare seriamente musica, secondo perché sono stato coinvolto in
un bel progetto di nicchia. Mi riferisco all'etichetta messa in piedi dagli amici Vladimir
Costabile, Mattia Tenuta e Andrea Lato, che poi sarebbero i tenutari
di una piccola realtà come La Lumaca Dischi.
Approfittando di una tregua durante questa pandemia, ci siamo permessi addirittura il lusso di
partecipare a qualche concerto, allestendo il nostro piccolo banchetto delle
meraviglie. Insieme abbiamo assistito a esibizioni di amici e di artisti che fanno parte
della nostra etichetta, ma mi piace citare anche altri stimati professionisti, che abbiamo avuto il piacere di
conoscere, di incontrare, di approfondire.
I miei gusti, lo sapete bene, virano tendenzialmente sul
classico. Ci sono stati alcuni titoli che mi hanno fatto emozionare e
tornare a parlare con vigore e passione di musica, di quella che con un filo di presunzione definisco "la mia musica". Impossibile non citare Bruce
Springsteen e la sua effimera lettera per noi, Letter To You: lavoro che
però, devo essere sincero, una volta esaurito il suo carico emozionale immediato, mi ha lasciato un po' tiepido sulla lunga distanza. In mezzo ho ascoltato altre cose di artisti e band meritevoli di elogi come Bill
Callahan, The Avett Brothers, Calexico e una delle migliori voci e firme
del cantautorato attuale: Sufjan Stevens. Il suo pregevole The
Ascension è forse uno dei migliori dischi ascoltati durante questo 2020. Mentre
compilavo questo testo ho scoperto che erano usciti anche lavori di artisti che
apprezzo molto, cioè Fleet Foxes e soprattutto Jeff Tweedy
leader dei Wilco. In particolare il suo Love Is The King mi ha particolarmente
colpito, perché per certi versi mi pare il disco che avrebbe potuto pubblicare
Tom Petty se fosse ancora tra noi. Sigh! A proposito di Tom Petty, il cofanetto di Wildflowers &
All The Rest, è stato una delle più gradite sorprese musicali di questo ultimo
periodo autunnale. Ascoltare alcune canzoni in versione naked mi ha
ispirato molto e nello stesso tempo mi ha fatto scendere qualche lacrima di
gioia e di pura emozione, in ricordo di un grande come il Nostro compianto Tom!
Last minute mi sono stati segnalati anche i nuovi lavori di Fiona Apple e di Paul McCartney. Fetch the Bolt Cutters, quinto lavoro in studio dell'autrice newyorkese, ricorda per certi versi i dischi di artisti come Tori Amos, Suzanne Vega e Laura Nyro. Si tratta di un disco che ha avuto una lunga e travagliata gestazione, culimanata con la pubblicazione un po' a sorpresa durante lo scorso aprile, in piena pandemia. Secondo molti critici questo lavoro affonda a piene mani a livello tematico nell'esplorazione del confinamento e confronta la solitudine dell'autrice con le restrizioni derivate dall'isolamento. Per certi versi questo nuovo disco di Fiona Apple mi ha fatto tornare alla mente quel gioiello di destrutturazione che era stato Central Reservation, secondo album in studio di Beth Orton. Fatto curioso, la Apple ha partecipato come ospite anche all'ultimo disco di Bob Dylan, Rough and Rowdy Ways, primo lavoro di canzoni inedite pubblicate dal Bardo di Duluth, da Tempest (2012) in poi.
Devo ancora ascoltare per bene il nuovo disco solista di Paul McCartney, intitolato McCartney III anche se le premesse ci sono tutte per ciò che potrebbe risultare tra dei best seller di questo incredibile anno! Diamo tempo al tempo.
Tirando le somme, se proprio dovessi scegliere un solo disco rappresentativo di questo
2020, la scelta sarebbe piuttosto ovvia e scontata: Rough and Rowdy Times di
Bob Dylan. Forse non il capolavoro senile e definitivo per un autore che ci ha
abituato a standard qualitativi elevati e duraturi. Ma se non è il capolavoro
definitivo, si tratta comunque di un disco che entra di diritto tra le sue
migliori uscite dal 1997 a oggi. Personalmente continuo a preferirgli “Love And
Theft” del 2001, ma per ragioni meramente affettive e di contenuto
esclusivamente sonoro. In effetti c'è poco da chiedere a un lavoro di un
artista 79enne dove tra i solchi troviamo brani di pregevole fattura come Key
West (Philosopher Pirate), False Prophet, My Own Version of You, I've Made Up
My Mind to Give Myself to You o Goodbye Jimmy Reed. Come sempre però, quando
parliamo di autori maggiori come Van Morrison, Neil Young, Leonard Cohen, Nick Cave o Paul
Simon, bisogna considerare la forza e la coesione dell’insieme, piuttosto ché i
singoli brani che oggi vengono definiti highlights. Ed è un disco che nel suo
insieme fa le scarpe a molti giovani autori emergenti e affermati.
“Queste canzoni sono più fotografie istantanee che composizioni, ma potrebbe anche essere che alla fine, tutte assieme, facciano un’unica grande fotografia. E potrebbe anche non essere un lavoro artistico, ma qualcosa più funzionale, come la foto del passaporto di qualcuno che è sempre in viaggio per il prossimo concerto”
Bob Dylan è tornato ancora una volta, al suo meglio, come non faceva ormai da dieci anni forse. Questo nuovo lavoro è infatti la migliore produzione dylaniana dai tempi di Time Out Of Mind e Oh, Mercy. Forgetful Heart è quello che si dice un brano epico, uno dei migliori ruggiti del decennio da parte del cantautore statunitense. Si tratta di un pezzo in grado di convince sin dalla prima nota e dal primo verso. Chi meglio di Dylan potrebbe cantare di questo "cuore smemorato"? Nessuno saprebbe essere così convincente oggi, tranne forse il miglior Tom Waits.
Dylan ha scoperto il gusto dell’auto citazione, e Forgetful Heart richiama con vigore alle passate incisioni di Time Out Of Mind, Oh Mercy e Modern Times, ma lo fa con un dono di sintesi espressiva e lirica che forse era mancata in Modern Times, se prendiamo a modello il brano Ain ’t Talkin’ che può benissimo essere sovrapposto a Forgetful Heart.
Il banjo appalachiano di Donnie Herron, la fisarmonica zydeco di David Hidalgo e la chitarra a saturazione valvolare di Mike Campbell creano un connubio di nervi, sangue e sabbia, in bilico fra aria e fuoco. Prodotto da un settantenne, ma realizzato con la mano grintosa e professionale, manco ne potesse dipendere il proprio sostentamento.
Solo If you ever go to Houston (che ricorda vagamente Midnight Special) annoia a tratti, coi suoi cinque minuti, il resto è un capolavoro di sintesi, superiore in questo a Love and Theft e quindi rapportabile a Oh Mercy, almeno sotto il profilo della produzione. In questo disco possiamo sentire gli echi di Desire, Pat Garrett and Billy The Kid, e Time out of Mind.
La fisarmonica di Hidalgo e la chitarra di Campbell colorano panorami di sole e terra, come non si sentivano e vedevano da tempo e c’è quel tipo di energia che non ti aspetteresti su It's All Good e Beyond Here Lies Nothin’, così come c'è vigore sonoro anche in I Feel a Change Comin’On, ancora una citazione proveniente dai Basement Tapes e Planet Waves.
Tra fisarmoniche sporche di sangue e di sudore. Di recente è venuto a mancare uno dei più insoliti e schivi organisti e fisarmonicisti, Danny Federici della E Street Band, ed è molto bello che proprio Dylan abbia riscoperto con grande passione l’amore verso uno strumento così legato alla tradizione di in un certo folk come quello dei Calexico, che tanto bene avevano suonato le sue canzoni riproposte sulla colonna sonora di I’m Not There, la quale a ben pensarci era una sorta di imbeccata verso il Maestro. In particolare David Hidalgo coi Los Lobos aveva riproposto in versione zydecoBilly #1. Si tratta di musica di confine, tra il Messico e la redenzione, sospesa tra cactus e nuvole. E già si è parlato di una vicinanza fra questo Dylan e Willy DeVille.
Ritorna a livello testuale un'immagine che ossessiona e che Dylan ripropone spesso, quella di una porta: aperta, chiusa o solo immaginata.
Uno dei momenti più convincenti del disco è It’s all good, dove energia, ironia e rinuncia confluiscono nel grande fiume dell’ispirazione dylaniana, mentre intorno a lui i palazzi crollano e il pianto delle vedove si mescola al sangue degli orfani. Le svisate di basso in stile Rick Danko dei The Band ci accompagnano in uno dei brani più significativi dell’opera, I Feel a change comin’on, un brano che speriamo di ascoltare presto anche in versione live.
Cambiano le cose, cambiano i suoni e tutto sembra diverso. Però poi un voce, familiare, comprensibile arriva nelle nostre case, macchine, iPod e tutto il resto. E’ il nuovo disco di Bob Dylan, e soprattutto e' la voce autentica dell'America che fu... La voce di una rara e devastata umanità che sembra vacillare, ma non cede di un millimetro... perché quella voce non può cantare la resa, e neppure il crepuscolo degli Eroi... e' la voce della Gente, e' la voce di una generazione che ancora non cede il passo alla sconfitta...
Come ha detto RJ Eskow “Oggi Dylan non fa musica, lui è la musica!” Come dice Roy Menarini a proposito di Gran Torino, c’è un filo sottile che unisce la letteratura di Cormac McCarthy, il cinema di Clint Eastwood e i dischi di Dylan, sono questi autori gli ultimi bardi della “mitografia” di una Nazione… I dischi della Sun Records e della Chess, Elvis e Muddy Waters, Memphis e Chicago
Otis Rush e All your love, Willie Dixon e I Just Want To Make Love To You, Sam Cooke e A change is gonna come; insomma sembra davvero che ci sia il sangue del Paese nella sua voce!
Dylan canta con la consapevolezza del sopravvissuto, al proprio mito, all’America dei Faulkner e dei Twain, di Melville e di Masters, è lui probabilmente l’ultimo discendente di una stirpe ormai estinta di cantastorie
David Hidalgo suona frasi di fisarmonica a mezza strada fra i trilli d’organo di Al Kooper e la senile e sontuosa mano di Auggie Meyers… ma non è solo la fisarmonica l’arma vincente di questo disco, le chitarre trattenute e distorte ad opera di Mike Campbell, sono cuciture di cuoio essenziali nel loro ricamo avvolgente…
La seconda metà del disco si avvicina lentamente a pagine passate più elettriche e aggressive: c’è una maggiore presenza della chitarra elettrica e alla fisarmonica si sostituisce lentamente un violino country (in “This dream of you”) che non può che richiamare alla mente l’intensissimo e danzante “Desire” del ’76 (e in particolare Romance in Durango) ma anche le ballate meticcie del compianto Willy De Ville.
I go right where all things lost are made good again
I sing the songs of experience like William Blake
I have no apologies to make
Everything's flowing all at the same time
I live on a boulevard of crime
I drive fast cars, and I eat fast foods
I contain multitudes"
Giusto per dovere di cronaca, vorrei ribadire un concetto: Bob Dylan, "canzoni di esperienza" sul canone di "I contain multitudes" le ha sempre composte e incise. A dirla tutta, il suo primo brano "autografo" era proprio un talking blues, contenuto nel suo esordio discografico. Quindi con queste nuove canzoni "enunciate" più che cantate, Dylan torna alle sue radici, back to the roots, perché nel folk, così come per la ballad o il blues, le radici sono importanti. Fondamentali. Questo disco, (link d'ascolto: https://www.youtube.com/watch?v=8d1gT_Femh0) New Morning, pubblicato 50 anni fa, era il riflesso del suo autore verso un riconoscimento importante, la laurea ad honorem dalla Princeton University, documentata dal brano Day of the Locusts. Ed è proprio a New Morning che tocca guardare, visto che anche in quella fase Dylan veniva fuori da un periodo particolare: aveva da poco pubblicato due album che non avevano convinto del tutto, in particolare quel Self Portrait, composto per lo più da cover, traditonal ed riprese live.
E' come sosteneva Agatha Christie: “Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova" e qui mancherebbe giusto il terzo, a voler essere cauti, ma come potete pretendere da noi semplici appassionati, che ci siamo scaldati già per la pubblicazione degli ultimi Bootleg Series, pretendere così tanto!
Così, oggi, 18 aprile 2020, possiamo affermare che Bob Dylan sta tornando con un nuovo disco, composto da brani scritti di proprio pugno. Era ora, e che diamine, Mike-Porco-Judas!
Impressioni sul brano "Murder Most Foul" di Bob Dylan
Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
I'm not sleepy and there is no place I'm going to.
Hey! Mr. Tambourine Man, play a song for me,
In the jingle jangle morning I'll come followin' you.
Ci sono Shakespeare, Allen Ginsberg, Lee Harvey Oswald e una miriade di rimandi e citazioni, in questo nuovo brano pubblicato, a sorpresa, il 27 marzo da Bob Dylan. Murder Most Foul, questo il titolo di un nuovo capitolo della saga dylaniana, partita nel lontano 1962 con le prime due canzoni scritte di proprio pugno, Talkin' New York e Song to Woody.
Il testo nella prima parte racconta dell'omicidio di JFK avvenuto a Dallas, nello stato del Texas, quel maledetto 23/11/1963. Un'ossessione tipicamente americana, visto che anche lo scrittore horror Stephen King, vi dedicherà un pregevole romanzo di fantascienza, pubblicato nel 2011, che avrà in seguito una riduzione televisiva, realizzata da J. J. Abrams nel 2016, con protagonista James Franco. Da ricordare anche il monumentale affresco filmico realizzato da Oliver Stone. nel 1991, con un cast all-stars, guidato da un Kevin Costner in stato di grazia. Ma sto divagando!
"Murder Most Foul" è la prima nuova canzone autografa di Dylan in otto anni: un affascinante ritratto sul quadro storico dell'assassinio di JFK, ricco di dettagli culturali pop e che fotografa, in modo nitido, il terrore apocalittico e il mutamento sociale dell'epoca. Una ricca e struggente cavalcata, dove il Nostro non lesina uno stile dichiaratamente in debito nei confronti di Allen Ginsberg e della poesia beat. Bob Dylan avrà forse percepito che era giusto pubblicare questo brano, proprio ora che il mondo è alle prese con la pandemia da Covid-19. Lui, più di altri, con il tempo e con la storia, ci gioca da anni. Strano poi notare come ci sia stata simultaneità, per questo brano, pubblicato lo stesso giorno in cui Papa Francesco prega per la fine dell’Epidemia. Bergoglio prega sotto una dura dura pioggia, in un clima da Giudizio Universale, che pare davvero fare da contraltare a una canzone apocalittica del Dylan anni sessanta, settanta e novanta (sì, ometto di proposito gli anni ottanta!). Non sarà il più grande intellettuale in vita, ma di sicuro è tra gli artisti più influenti della sua epoca, ed è ancora in vita. È un brano evocativo e di rara potenza, almeno a livello testuale.
Una sorta di Requiem, sul sogno che tramonta. Sull'America idealista degli anni sessanta, che ha sicuramente un legame forte e una connessione con l'attualità. Non può essere un caso che questa canzone, presumibilmente in archivio da anni, sia apparsa proprio oggi, dopo le dichiarazioni di Donald Trump: un leader politico in cui Bob Dylan non può certo rispecchiarsi, né riconoscersi. La morte che sfida la vita, la rassegnazione contro la speranza. Ed è tutto racchiuso nei versi finali:
Play darkness and death will come when it comes
Play "Love Me Or Leave Me" by the great Bud Powell
Play "The Blood-stained Banner", play "Murder Most Foul"
Una perfetta e circolare chiusura del cerchio, con un brano che per certi versi sembra ricordare e citare un altro pezzo epico ed epocale. Un brano sulle speranze e sui sogni di una generazione, all'epoca forte dell'energia vitale della giovinezza:
With all memory and fate driven deep beneath the waves,
Let me forget about today until tomorrow.
Che sia questo un congedo definitivo per il cantautore Premio Nobel per la letteratura 2016?