venerdì 25 marzo 2022

Perché Columbia ce l'ha con Dylan?

Dylan (1973)


Premetto che faccio fatica nel non provare affetto e simpatia verso un’operazione bislacca, fuori fuoco e discutibile come questa raccolta "Dylan" (1973) pubblicata in Europa con il titolo Bob Dylan (A Fool Such as I). In alcuni casi si è parlato di un tentativo di auto-sabotaggio, ma nella migliore delle ipotesi fu la vendetta dell’etichetta verso l’artista che era passato all’Asylum. Per la prima dozzina d’anni di carriera, Dylan registrò con la Columbia Records: un’eternità, per un business in cui gli artisti, i manager e gli A&R, cambiano etichetta con la stessa velocità con cui oggi gli atleti professionisti cambiano squadra. Tra pochi bassi e parecchi alti, il sodalizio tra l’artista e la CBS era durato 12 anni, periodo in cui Dylan aveva dato alle stampe 12 lp, di cui solo uno costituito da brani non autografi e un altro prevalentemente strumentale (la colonna sonora del film Pat Garrett & Billy the Kid). 

Non è raro che le case discografiche saccheggino il materiale d’archivio non utilizzato quando un grosso artista (e Dylan all’epoca lo era, eccome!) migra verso altre etichette. Tuttavia risulta stramba la scelta di pubblicare proprio quel tipo di brani, principalmente cover e tradizionali, che erano stati registrati durante le sessioni di Self Portrait e New Morning.

Immancabile come la nuvola fantozziana arriva il critico a chiosare su questo disco, affermando che si tratti di “un inetto confezionamento dei momenti più bizzarri di un grande artista, che fortunatamente finora erano stati dimenticati”.

Il capitolo Dylan vs Critica musicale, prima o poi dovrà essere affrontato e risolto al suono di flautate e suadenti pernacchie. Non intendo dire che una leggenda vivente debba per forza essere perdonata, quando produce canzoni mediocri, ma non esiste altro caso di tale portata mediatica, dove il giudizio della stampa sia così fazioso e demolitivo. In pratica se andiamo a sommare e a unire tutte le stroncature sull’opera dylaniana, potremmo compilare senza difficoltà un volume della portata di "Guerra e pace". In certi casi le critiche sono immotivate, in altre addirittura fantasiose e per niente costruttive.

 Guardando in ottica retrospettiva, il disco prodotto da Bob Johnston regala alcuni bei momenti, come nell’iniziale Lily of the West, in Sarah Jane, nella sbracata e umoristica versione di Mr. Bojangles, in Big Yellow Taxi di Joni Mitchell, nella conclusiva Spanish Is the Loving Tongue. C’è poi un brano interessante come The Ballad of Ira Haynes, la cui storia è stata trasposta sul grande schermo da Clint Eastwood nel film Flags of Our Fathers. 

Sono però le canzoni appartenenti al repertorio di Elvis Presley che offrono a questo disco una certa dignità e importanza, se non altro in una cornice storica e aneddotica.

Elvis aveva infatti proposte alcune versioni di brani scritti ed eseguiti da Bob Dylan. Il preferito dall’autore sembrerebbe Tomorrow is a long time, ma ebbe successo anche la versione presleyana di Don’t think twice, it’s all right. In questa occasione è Dylan che esegue due brani di Presley. Bisogna fare un piccolo passo indietro, arrivati a questo punto. 

Dopo aver inciso John Wesley Harding e Nashville Skyline, Dylan decide di realizzare un paio di album dall’atmosfera rilassata e un po’ svagata. In particolare questo aspetto emerge dalle sessioni di Self Portrait. Per l'occasione Dylan esegue Blue Moon, brano che in precedenza era stato inciso proprio da Elvis. In New Morning l’omaggio è più sentito e personale, con la composizione autografa di Went to see the Gypsy, titolo dedicato proprio a The King. Del resto Dylan non ha mai fatto mistero di essere un sincero appassionato di Elvis, Little Richards e dei pionieri del rock and roll e del rockabilly. Elvis ha di diritto un posto speciale nel suo cuore, come anche Buddy Holly. Specialmente nella fase Sun Records, Elvis esercita un ruolo determinante in alcune scelte artistiche di Dylan. Questa eco giungerà fino alle sessions di Time Out of Mind del 1997, poi ancora oltre. Si tratta di un’ispirazione continua.

Appena venne dimesso dall'ospedale per istoplasmosi negli anni Novanta, dichiarò: "Sono davvero felice di sentirmi meglio. Ho pensato davvero di rivedere presto Elvis". Del resto all'epoca (nel 1977) Dylan fu profondamente colpito per la morte di Elvis, come avverrà successivamente anche per quella di John Lennon. "Non parlai a nessuno per una intera settimana dopo che Elvis morì", ricordò. "Se non fosse stato per Elvis ed Hank Williams, non farei quel che sto facendo oggi". 

Ecco, se vogliamo trovare una ragione che possa dare significato a questo disco incidentale del 1973, i brani A Fool Such As I e Can’t Help Falling in Love, al di là della loro riuscita, sono un motivo sufficiente, a livello storico e retrospettivo, per dare una certa dignità artista a questa operazione. Il giudizio sull’opera in sé deve rimanere sospeso, ma se proprio dovessi sbilanciarmi direi che è un disco tutto sommato divertente, godibile, scanzonato. Capace di mostrarci una vena comica come raramente è successo nella produzione discografica dylaniana.

 

Dario Greco


sabato 12 marzo 2022

Knocked Out Loaded (1986)


EPOPEA SESSUALE DI UN ROMANTICO SALMONE

Si intitola Knocked Out Loaded, ma avrebbe dovuto chiamarsi "Epopea sessuale di un romantico salmone". Bob Dylan non è mai stato bravo a ingraziarsi la critica, non era capace da giovane, figuriamoci durante un periodo caotico come gli anni ottanta. 

La critica musicale lo avevo abbandonato, girando le spalle alla prima occasione. In effetti era da Self Portrait, il secondo e spiazzante album doppio della sua carriera, che tentavano di impallinarlo, sforzandosi di inventare storielle piccanti, motivazioni risibili per giudicare uno dei più grandi autori e performer di sempre. In questo caso come si usa dire, Dylan mostra il fianco debole, già dalle premesse. Compilando un disco collaborativo e riempito a forza di cover e brani non autografi. Eppure qualcosa di selvaggio e di buono, a impegnarsi, la si trova anche in questo primo disco prodotto dal Nostro. Ci troviamo davanti a quello che potrebbe essere Another Side of Empire Burlesque. Peccato che già il prequel non fosse stato salutato con grande favore da parte di critica e pubblico. Strano, perché nel delirio e nella festa esagerata e sfavillante degli anni ottanta, poteva starci un po’ di indulgenza per questo salmone romantico che si ostina a cercare ancora un’altra gemma in un’epoca dominata da suoni sintetici e vetroresina. Forse il management e l’ufficio stampa avrebbero potuto insistere e fare qualcosa in più. Il guaio è che Dylan non era propriamente uno che stava al gioco, semmai era l’esatto opposto. Perché durante questo “triste” e sfavillante decennio per le vecchie glorie c’era ancora uno spazio e una nicchia, occupata ad esempio da Phil Collins, Mark Knopfler e soprattutto da Bruce Springsteen. Di certo il Boss era la gallina dalle uova d’oro per Sony-CBS, molto più semplice da piazzare e da vendere. Dylan come al solito mostrava il suo lato bizzoso e capriccioso. Però le canzoni, anche nella peggiore delle ipotesi, c’erano ancora. Oggi sappiamo quanto possa contare tutto questo, dopo aver bypassato e recuperato gli anni Novanta, decennio in cui, non a caso, il Nostro torna a essere autorevole e importante, perlomeno in termini di industria musicale. Facciamogli vincere un premio, ripuliamolo e mettiamolo con una chitarra davanti a un microfono, potrebbe bastare, in tempi di magra. 

Non si può evitare di citare la performance non memorabile di We Are The World – Usa For Africa. C’erano tutti o quali, c’era Willie Nelson che stava al gioco, Springsteen che faceva un figurone in mezzo al top del pop e della black music. E Dylan? Dylan sta in un angolino e oggi scopriamo fa fatica a portare a casa la sua strofa nel brano benefico e collettivo. Chi vi scrive ha sempre nutrito grande rispetto per Quincy Jones, Stevie Wonder, così come per Lionel Richie e per la maggior parte della produzione musicale di Michael Jackson. Pur avendo in simpatia Dylan, ci sarebbe da chiedersi, col senno di poi, se la sua apparizione nel brano (e soprattutto nel video) sia stata una mossa saggia e costruttiva. Chi vi scrive non è del tutto convinto non solo dell’operazione discografica, ma soprattutto della presenza di un artista come Dylan. Vale il gettone di presenza, ma non aiuta a vendere un solo biglietto, né tantomeno un lp. Anzi, semmai è un danno di immagine e di lesa maestà, di una leggenda vivente. Sinatra non l’avrebbe fatto ed Elvis per sua fortuna era assente giustificato. Eppure tra la confusione che regna sovrana e la volontà di rovinarsi vita e carriera, Dylan continua a fare musica, a suonare dal vivo con una band come Tom Petty and The Heartbreakers, a collaborare e a rischiare. Rischiare un mezzo scivolone, nonostante il talento e l’estro che da sempre gli parano i colpi, salvando il più delle volte baracca e burattini.

Delle otto tracce presente in questo Knocked Out Loaded, nessun pezzo, fatta esclusione per Brownsville Girl, può dirsi un capolavoro. Se andiamo a cercare il pelo nell’uovo dylaniano, scopriamo che questa perla è stata scritta a quattro mani con l’attore e commediografo Sam Shepard, vecchia conoscenza di Dylan dai tempi della RTR e del tour del 1975. Non solo, il brano è in realtà un outtake di Empire Burlesque, con un testo e un titolo differente. La prima versione per chi fosse interessato si chiama appunto New Danville Girl, circola da qualche tempo su YouTube e nel 2021 è stata pubblicata su “Springtime in New York 1980-1985”, sedicesimo volume di The Bootleg Series. Qualcuno potrebbe anche affermare senza problemi che gli anni ottanta di Dylan sono in larga parte da archiviare come periodo buio e poco brillante della sua grandiosa carriera. Non siamo affatto di questo avviso, ritenendo che la critica dovrebbe invece fare l’esatto opposto: gettare nuova luce proprio sulle ombre di un percorso artistico e umano così importante, in termini retrospettivi. Dylan era dato per finito già durante gli anni settanta, quando non aveva ancora quarant’anni. 

Lo stesso errore è stato fatto durante gli anni ottanta, e ancora più volte da allora fino ai giorni nostri. Eppure ci sono ancora concerti da fare, canzoni da incidere e dischi da pubblicare. Il 24esimo lavoro in studio viene accolto male dopo la pubblicazione, considerato a torto come uno dei dischi meno riusciti, dal punto di vista artistico e tecnico. A guardar bene nessun artista di alto profilo come Dylan è mai stato trattato così dalla critica musicale. Solo Dylan ha avuto questo poco lusinghiero privilegio. Solo Dylan poteva fregarsene e andare avanti per la sua strada. Pubblicherà ancora un disco “brutto”, forse addirittura il peggiore, due anni dopo con Down in the Groove. 

Tuttavia anche in questa occasione conserverà la dignità e l’integrità morale e artistica. Potete dire lo stesso voi che leggete e ascoltate? Lo posso pacificamente escludere. Così come posso escludere che un Greil Marcus abbia davvero capito qualcosa di importante della vicenda artistica, umana e professionale di Bob Dylan. Le chiacchiere stanno a zero, visto che dalle paludi degli anni ottanta Dylan sarebbe uscito con un gioiello da aggiungere alla corona: Oh, Mercy del 1989 prodotto dal talentuoso Daniel Lanois. Anche questa è storia e anche questo è sud, per il romantico salmone e la sua epopea erotica.


Questo post dedicato a Jack Kerouac, è stato scritto nel giorno del suo centenario  (1922 - 2022)

Dario Greco