martedì 19 dicembre 2023

Il 2023 è stato un anno decisamente dylaniano

 


Il 2023 dylaniano è stato un anno ricco di eventi e uscite. Si è aperto con la pubblicazione del diciassettesimo volume del Bootleg Series, Fragments, dedicato esclusivamente al periodo del capolavoro Time Out of Mind. Due versioni disponibili, tra cui quella standard a due dischi e quella deluxe composta da cinque lp. Secondo fonti non ufficiali questa potrebbe essere stata l’ultima pubblicazione della serie Bootleg Series, che era partita nel marzo 1991 con la pubblicazione dei primi tre volumi.

Ad aprile è ripartito il World Wide Tour, che questa volta toccherà anche mete che Dylan aveva trascurato negli ultimi tempi, tra cui l’Italia con cinque date. Non si esibiva nel nostro Paese dall’aprile 2018, quindi in epoca pre-Covid. La band con cui suona in Italia nel 2023 è piuttosto diversa rispetto a quella di cinque anni prima.

A giugno viene pubblicato il nuovo disco in studio. Si tratta della colonna sonora di Shadow Kingdom. Viene svelata l’identità dei musicisti che hanno partecipato alle sessioni dell’album. Tra i nomi spiccano quelli di due vecchi collaboratori di Dylan. In particolare citiamo il chitarrista T-Bone Burnett e il produttore e bassista Don Was. Dylan aveva collaborato con T-Bone Burnett ai tempi della Rolling Thunder Revue e più recente alle nuove incisioni nel formato “ionic recording” di Blowin’ in the Wind del 2022. Don Was aveva prodotto invece con Dylan il disco Under the Red Sky del 1990.

Sempre per quanto riguarda vecchi collaboratori e musicisti che hanno segnato una generazione, l’11 agosto si spegne il membro di The Band, Robbie Robertson. Robertson, oltre a essere stato amico e stretto collaboratore di Dylan, aveva partecipato alle registrazioni di tre importanti lavori in studio: Blonde on Blonde, The Basement Tapes e Planet Waves. Inoltre aveva accompagnato Dylan in tour dal 1966 al 1974. Con The Band aveva inciso diversi brani scritti da Dylan come When I Paint My Masterpiece, This Wheel’s on Fire, Tears of Rage, ma soprattutto il classico I Shall Be Released. Inoltre entrambi facevano parte del cast del film documentario di Martin Scorsese, The Last Waltz, dedicato all’addio alle scene di The Band, salvo ripensamenti e una line up differente. Nel libro autobiografico TESTIMONY, Robertson si sofferma sul rapporto di amicizia e di collaborazione tra la Band e Dylan in modo approfondito e affettuoso.   

A settembre Dylan partecipa a sorpresa al Farm Aid, unendosi alla band di Mike Campbell & The Dirty Knobs, con la partecipazione di Benmont Tench alle tastiere. I due ex-Heartbreakers (lo storico gruppo di Tom Petty) avevano più volte partecipato a sessioni in studio e concerti facendo da spalla a Bob Dylan. Per l’occasione Dylan torna a suonare la chitarra elettrica in un mini set composto dai brani Maggie’s Farm, Positively 4th Street e Ballad of a Thin Man.

Le informazioni che vanno a completare e a concludere un anno ricco di novità e uscite, riguarda due uscite antologiche. La prima è The Complete Budokan, box deluxe composto da due live risalenti al tour giapponese del 1978, di cui ho parlato qui. La seconda è la più recente e riguarda il 50th Anniversary Collection 1973, con la pubblicazione integrale delle 28 tracce appartenenti alle sessioni della colonna sonora del film Pat Garrett & Billy The Kid. Al momento della stesura del testo non ho ancora ascoltato la compilation antologica, ma presumo debba trattarsi dei mitici bootleg noti ai fan dylaniani più accaniti come Peco’s Blues. Il bootleg non ufficiale Peco’s Blues, contemplava però una scaletta ridotta, composto da 23 brani, anziché i ventotto ora pubblicati. Si tratta di un’uscita in edizione limitata, realizzata per garantire i diritti d’autore di queste sessioni che altrimenti sarebbe diventate libere, dato che stavano scadendo i diritti essendo trascorsi 50 anni. Questa legge riguarda in special modo la vigente regola europea sui diritti d’autore. Un prodotto destinato alla super nicchia dei completisti e dei fandom dylaniani più hardcore, di cui però mi sembrava giusto parlare, dato che in Italia la notizia non sta circolando in modo adeguato e sufficiente.     

Capitolo a parte meriterebbe il Tour 2023, concluso lo scorso 3 dicembre a Evansville, Indiana. Ci sono state grandi novità in scaletta, con Dylan e i suoi che hanno spesso eseguito cover di altri importanti artisti come Leonard Cohen, Billy Joel, Merle Haggard, Grateful Dead e via dicendo.

A memoria, da quando seguo Dylan, cioè da oltre 20 anni ormai, non ricordo un anno più ricco di novità e di uscite. Una vera manna per noi fandom devoti! 

Di questo ve ne parlerò presto in separata sede. Ora vi auguro buone vacanze e un felice anno nuovo!



giovedì 14 dicembre 2023

Christmas in the Heart (2009)

Avete mai sentito dire che il tempismo è tutto nella vita? Oppure che l’uomo saggio aspetta il momento giusto, mentre il pazzo lo anticipa e l’imbecille lo lascia passare? Già, il tempo, uno dei topos dylaniani per eccellenza, se vogliamo. 

Le feste danno il senso del tempo che passa. Basterebbe solo questo per fornire la motivazione sufficiente a spiegare il progetto Christmas in the Heart.

Per le grandi star le uscite natalizie sono una tradizione fin dagli albori dell’industria discografica. Ora è bene specificare come alcuni degli eroi di gioventù di Dylan, fecero album natalizi. Ci sono esempi importanti che hanno contribuito a consolidare la carriera artistica di alcuni cantanti, e non ci stiamo riferendo ai classici cantanti etichettati come artisti natalizi, che oggi purtroppo sono diventati un problema sonoro durante il periodo che anticipa la natività del Cristo. In questo caso però parliamo di un disco di tradizione cristiana, realizzato da un artista ebreo come Bob Dylan. L’intento è nobile, visto che gli incassi sono destinati in beneficenza in favore delle associazioni Feeding America e del World Food Programme delle Nazioni Unite. 

Il capitolo che riguarda la generosità e l’impegno sociale dell’artista sarebbe da trattare in separata sede, visto che probabilmente si tratta di uno dei musicisti che hanno sempre messo davanti al proprio ego, cause nobili. Senza elencarli tutti, diciamo solo che Bob Dylan è stato uno degli artisti più longevi e socialmente impegnati di sempre. Tuttavia il disco va contestualizzato a livello critico, come il primo di quella che sarebbe divenuta una nuova fase di riscoperta e rivalutazione di materiale non autografo pubblicato dal cantautore.

Tra il 1992 e il 2017 pubblica infatti 6 lavori in studio basati su cover, riproposizioni e brani tradizionali. Christmas in the Heart è il sequel di Together Through Life, pubblicato appena sei mesi prima, durante la primavera del 2009. Motivo per cui venne realizzato nello stesso modo in cui aveva inciso gli album precedenti. Qui troviamo la sua band che lo accompagna anche dal vivo, con l’aggiunta di David Hidalgo dei Los Lobos, del pianista Patrick Warren e di un coro che lo segue nelle tracce presenti in questo lavoro. Piuttosto che volgere tipici brani natalizi in una forma peculiare, Dylan li suonò in modo diretto. Il risultato fu sorprendente, quanto scioccante. Un abbraccio a tutto campo a quella vecchia e tranquillizzante America, un omaggio ai dischi natalizi che profuma di anni Cinquanta, dell’atmosfera in cui Dylan è cresciuto.

Restituisce tutto in modo diretto, rilevando un’anima pop insospettabile, ed è magicamente suonato, prodotto e arrangiato. Un piccolo gioiello da scartare sotto l'albero. Non sorprende per chi aveva compreso e mandato a memoria ciò che Dylan porta avanti dal 1997 con Time Out of Mind e in misura maggiore con “Love and Theft” e Modern Times. Qui però c’è pochissimo blues ed è quasi del tutto assente lo stile roadhouse, ma non è detto che questo sia un male, anzi. Col senno di poi è una dichiarazione di intenti che pubblico e critica faranno fatica a capire.  

Dopo la pubblicazione dei dischi Great American Songbook (quelli della Fase Sinatra, per intenderci) diventa più semplice analizzare il percorso del Dylan anni Novanta che si affacciava al nuovo millennio. Oggi l’hype è dovuto principalmente al fatto che da dopo Tempest si attende la pubblicazione del suo ultimo, conclusivo disco in studio. Ci hanno provato già ad azzardare che lo fosse Tempest, così come sono state fatte parecchie illazioni quando è arrivata la cinquina sinatriana. Stessa cosa era capitata durante il lockdown, quando a sorpresa l’artista rilasciava sulle piattaforme una lunga dissertazione poetica, che sembra una meditata replica di American Pie di Don McLean. Il brano Murder Most Foul, dalla durata insolita e importante, è stato l’apripista del suo ultimo disco in studio: Rough and Rowdy Ways, pubblicato nel 2020.

Sottostimato e considerato un lavoro bizzarro, Christmas in the Heart ha dalla sua un cambio radicale nell’approccio sonoro, ma soprattutto nel cantato. Oltre a essere decisamente pop, ha delle qualità insite del folk, visto che dopo Time Out of Mind e “Love and Theft” dove le voci erano dominanti, qui avviene una svolta. È un lavoro disadorno, capace di mettere al centro il fraseggio e l’esecuzione. Suona maledettamente bene ed è a fuoco, tanto che ci sarà chi lo elogerà come un disco importante, proprio sotto il profilo sonoro e dell’esecuzione.

Da qui in poi Bob Dylan rilascerà album forse poco noti e con un appeal inferiore, ma suonati e cantati in modo impeccabile, con arrangiamenti raffinati e piuttosto lontani da quello che aveva realizzato in studio, durante i primi vent’anni di produzione musicale. Quasi nessuno se ne accorge e sono pochi i critici che mettono in evidenza tale aspetto. L’artista durante gli anni avrà anche perso la voce, ma ha imparato a cantare, a trovare nuove strade per accompagnare le sue canzoni e l’esecuzione di materiale altrui. Piaccia o meno, quello che ha prodotto da questo punto in avanti è realizzato in modo professionale, con arrangiamenti minimali, per certi versi originali e innovativi. In pratica uno dei paladini del low-fi ha iniziato a produrre con maggior criterio e ricchezza di mezzi. Non sono dischi per chi ama i Pink Floyd forse, ma di strada rispetto agli anni Sessanta ne è stata battuta, e nemmeno poca. Il percorso discografico di Dylan proseguirà senza sosta, ma questo disco natalizio è stato molto più importante rispetto a quanto la critica e il pubblico vogliano farci credere. 

Riascoltare per credere Christmas in the Heart.


mercoledì 13 dicembre 2023

Il 2023 di Bob Dylan in pillole

Il 2023 di Bob Dylan in pillole

 

Gennaio

Il 27 gennaio viene pubblicato The Bootleg Series Vol. 17: Fragments – Time Out of Mind Sessions (1996–1997) è il titolo del diciassettesimo album discografico di Bob Dylan appartenente alla serie Bootleg Series, pubblicato nel 2023 dalla Legacy Records.

La compilation include una versione remixata dell'album Time Out of Mind, outtake, versioni alternative e dal vivo di vari brani dell'epoca. Il disco è stato pubblicato in una versione standard su due CD e in versione estesa come cofanetto box set da 5 dischi.

Febbraio

Prosegue la mostra “Retrospectrum” al MAXXI di Roma, dedicata alle opere di Bob Dylan. Per l’occasione viene pubblicato anche il catalogo, col titolo omonimo della mostra.

Aprile

Il 6 aprile, con la data di Osaka, Bob Dylan torna in tour. Questa volta tornerà anche in Europa e suonerà per cinque serate in Italia, a Luglio, con due date a Milano, una a Lucca, Perugia e Roma.

Giugno

Viene pubblicato in versione Cd e DVD la colonna sonora del film Shadow Kingdom, 40esimo lavoro in studio di Bob Dylan. La scaletta non contiene inediti e bonus track, fatta eccezione per la traccia strumentale Sierra’s Theme. 

In termini di archivio, la pubblicazione getta nuova luce sull’operazione Shadow Kingdom, in quanto svela chi ha partecipato alle sessioni in studio di questo progetto. Si tratta di vecchi e nuovi collaboratori, che non sono le persone che si erano viste in video. 

Tra questi citiamo Jeff Taylor alla fisarmonica, Don Was al contrabbasso e T-Bone Burnett alla chitarra. Dylan quindi non utilizza la band che è solito accompagnarlo sia in tour che nei dischi in studio. Una novità assoluta, per questi anni più recenti.

Agosto

L’11 agosto muore il chitarrista, cantante e compositore Robbie Robertson. Robertson, membro di The Band, è stato per lungo tempo collaboratore di Bob Dylan, sia in studio (Blonde on Blonde, The Basement Tapes, Planet Waves) che dal vivo (1966 e 1974). Era nato il 5 luglio 1943 e da tempo stava combattendo la sua battaglia con il cancro.

Settembre

Viene pubblicata la compilation Mixing Up The Medicine / A Retrospective, cd antologico che funge da accompagnamento al mastodontico volume cartaceo dal titolo quasi omonimo: Mixing up the Medicine, realizzato da Parker Fishel e Mark Davidson ed edito da Callaway Arts & Entertainment, in lingua inglese. 

Ad oggi non ci sono informazioni su una possibile traduzione e pubblicazione in lingua italiana.

Sabato 23 settembre, sul palco del Ruoff Music Center di Noblesville, Indiana, per il Farm Aid 2023, accompagnato dagli Heartbreakers di Tom Petty, Dylan ha eseguito per l’occasione con la chitarra elettrica tre brani dal suo repertorio storico, Maggie’s Farm, Positively 4th Street e Ballad of a Thin Man.

Novembre

Viene pubblicato The Complete Budokan, live che documenta i concerti del tour giapponese del 1978. Il cofanetto deluxe include 4 cd che testimoniano le due serate del Budokan, con i soliti gadget, libri e memorabilia delle grandi occasioni. 

Il costo del box è importante, ma getta nuova luce e rivaluta parzialmente la precedente pubblicazione del live di Budokan, album live doppio pubblicato durante la primavera del 1979.

Dicembre

Il 3 dicembre con il concerto di Evansville, IN si conclude la sezione del World Wide Tour dedicata al 2023.

Il 14 dicembre viene pubblicata in edizione limitata 50th Anniversary Collection: 1973.

Si tratta di un cd composto da 28 tracce, perlopiù inedite, tratte dalle sessions della colonna sonora di Pat Garrett & Billy the Kid di Sam Peckinpah.

Ecco ora la sezione dedicata ai principali anniversari del 2023

The Freewheelin’ Bob Dylan festeggia i 60 anni dalla sua prima pubblicazione. Era il 27 maggio 1963. 

-        Pat Garrett & Billy the Kid, prima colonna sonora realizzata da Dylan, festeggia 50 anni dalla sua pubblicazione. Lo stesso discorso vale anche per la pellicola, la cui prima proiezione avveniva il 23 maggio 1973. La sera prima del compleanno di Bob!

 Compie 40 anni anche il disco Infidels, ventiduesimo lavoro in studio pubblicato il 27 ottobre 1983. Il disco, che già ai tempi venne salutato come un ritorno, oggi è considerato tra le prove più convincenti della discografia dylaniano post anni Settanta.          

Compie 30 anni anche World Gone Wrong, 29esima prova in studio che presenta esclusivamente materiale non autografo, essendo composto da cover di canzoni folk tradizionali, eseguite da Dylan in solitaria con l’accompagnamento di chitarra acustica e armonica.

-         Compie 30 anni anche la registrazione del concerto The 30th Anniversary Concert Celebration, pubblicata per la prima volta il 24 agosto 1993. Il live documenta la serata di tributo realizzata il 16 ottobre 1992. Allo spettacolo hanno partecipato numerosi tra i principali artisti della musica rock statunitense e britannica - già collaboratori dell'artista di Duluth - che salutavano con la loro presenza e con l'esecuzione di cover dei classici dylaniani la carriera del cantante.

-         Compie poi 20 anni anche la colonna sonora del film Masked & Anonymous: Music from the Motion Picture. Il film era uscito nelle sale americane durante l’estate del 2003.

martedì 21 novembre 2023

Bob Dylan Trouble No More (1979-1981)

 

The Bootleg Series 13: Trouble No More (1979-1981)

 

Pubblicato il 3 novembre 2017, The Bootleg Series Vol. 13: Trouble No More 1979-1981 chiude, in termini cronologici il decennio anni Settanta per quanto riguarda Bob Dylan live. Si tratta del cosiddetto periodo Gospel, durante il quale il cantautore ha realizzato tre dischi all’epoca piuttosto contestati; parliamo di Slow Train Coming, Saved e Shot of Love, pubblicati tra il 1979 e il 1981. Ascoltati oggi questi lavori possono essere rivalutati, sia a livello musicale e sonoro, sia per i contenuti, all’epoca considerati estremi e tipici di un certo fanatismo religioso. Sicuramente il secondo capitolo della serie, Saved, è quello maggiormente incentrato sul Nuovo Testamento, motivo per cui allo zoccolo duro dei fan, il disco potrebbe risultato indigesto. Musicalmente invece il discorso è piuttosto differente, sia per la qualità delle canzoni, sia per come sono state affrontate e realizzate le registrazioni in studio. Qui ci occupiamo però di analizzare l’aspetto concertistico di questo periodo. Rispetto al Tour 1978, dove Dylan aveva aggiunto fiati, archi e coriste, alcune cose cambiano, a cominciare dalle scalette che verranno proposte per supportare la pubblicazione del suo più recente lavoro, Slow Train Coming. Registrato nei leggendari Muscle Shoals Sound Studios di Sheffield, Alabama, il disco si avvale di una line up di prim’ordine che include Mark Knopfler e Pick Withers dei Dire Straits, il bassista Tim Drummond, Barry Beckett, i Muscle Shoals Sound Studio ai fiati, più un gruppo di coriste composto da Carolyn Dennis, Regina Havis e Helena Springs. Si occupano della produzione Barry Beckett e Jerry Wexler. Il disco ottiene un buon successo commerciale, ma a livello critico non va altrettanto bene, nonostante arrivi per Dylan il suo primo Grammy Awards per la migliore performance maschile. Sotto il profilo concertistico, i live ricalcano quello che possiamo ascoltare su disco, con qualche brano in più, ma con materiale che resta ancorato al nuovo repertorio gospel.

La testimonianza raccolta da Trouble No More, è piuttosto ricca ed esaustiva, visto che il tredicesimo volume delle Bootleg Series esce in versione standard composta da due cd e da quella estesa, deluxe, costituita invece da otto dischi più un DVD. Qui si possono ascoltare 100 esibizioni dal vivo più 14 brani altrimenti inediti. Ascoltando con attenzione e con il giusto tempo che il box richiede, possiamo assistere all’evoluzione di questo periodo di intensa attività concertistica per Dylan e la sua nuova formazione. Nella versione standard troviamo sette canzoni eseguite nel 1979, mentre le altre provengono dai tour del 1980 e del 1981. Inizialmente Dylan e la band eseguono solo materiale originale nuovo, senza riproporre i classici e i numerosi cavalli di battaglia presenti nel repertorio dell’artista. Le cose cambiano andando avanti. Nel box completo possiamo infatti ascoltare l’esibizione di Londra del 27 giugno 1981, dove a fianco alle nuove Gotta Serve Somebody, I Believe in You, Man Gave Names to All the Animals e Dead Man, Dead Man, trovano posto Like a Rolling Stone, Maggie’s Farm, I Don’t Believe You (She Acts Like We Never Have Met), Girl from the North Country e Ballad of a Thin Man. In pratica dopo aver condotto due anni di tour esclusivamente con il repertorio gospel, Dylan torna sui propri passi ed esegue alcuni dei suoi grandi classici, come Mr. Tambourine Man, Just Like a Woman, Blowin’ in the Wind, It’s All Over Now, Baby Blue e altri pezzi più recenti come Forever Young e Knockin’ on Heaven’s Door. Anche la critica intuisce che qualcosa è cambiato e Dylan gradualmente esce dalla sbornia cristiana, per tornare a scrivere, incidere e cantare materiale più eterogeneo, nonostante anche nel successivo Infidels, il tono da sermone a tema religioso sia ancora piuttosto presente, ma trattato in maniera differente, diciamo più ortodosso e in linea con i temi trattati già a partire dagli anni Sessanta.

Sotto il profilo live e di esecuzione, ascoltando oggi questo 13esimo capitolo delle Bootleg Series, bisogna annotare la grande forma di Dylan come esecutore e performer, per non parlare del groove, dell’energia e del tiro della band che lo accompagnava. Un’esperienza sonora di livello assoluto che fa ben sperare dopo alcune parentesi non del tutto riuscite e ispirate, vedi Budokan. Qui invece possiamo sentire il vero suono del Dylan attuale, che guarda al presente e al futuro, senza rinnegare completamente ciò che era stato. La fase kitsch è ormai solo un ricordo. Sono spariti sia gli archi che i flauti, la sezione ritmica è tornata quella di un tempo e l’energia delle chitarre, suonate da Steve Ripley e Fred Tackett, è nuovamente centrale, mentre le tastiere hanno ancora il loro spazio, ma senza stravaganze caraibiche ed esotiche, salvo durante l’esecuzione del brano reggae  Man Gave Names to All the Animals, che suona come il primo di molti omaggi alla musica di Bob Marley, di cui Dylan si scopre un grande estimatore e appassionato.




lunedì 20 novembre 2023

Bob Dylan - The Rolling Thunder Revue 1975

The Rolling Thunder Revue (1975)

 

Riavvolgendo il nastro dell'imponente discografia Dylaniana ritorniamo ora al 2001. A quando il Nostro aveva da poco dato alle stampe “Love and Theft”, 31esimo lavoro in studio. Il cantautore statunitense era fresco di Oscar per la canzone originale Things have changed e anche ai Grammy aveva trionfato nell'edizione del 1998.

Soprattutto il suo sterminato archivio era stato finalmente aperto dando la possibilità al pubblico di recuperare in versione ufficiale una delle sue esibizioni più celebri. Mi riferisco ovviamente alla Royal Albert Hall del 1966. Quella in cui Dylan si esibiva accompagnato da un gruppo elettrico per il tour europeo. Il quarto volume delle Bootleg series viene infatti rilasciato nel 1998 e segna una delle più importanti pubblicazioni antologiche live per Bob Dylan. Mentre ne scrivo la Bootleg Series è arrivata al volume 17, alternando materiale di archivio in studio con registrazioni di live epocali. Nel 2002 viene pubblicato il volume 5 che rende giustizia a uno dei periodi più importanti per quanto riguarda l'attività concertistica del cantautore americano. Si tratta ovviamente del Rolling Thunder Revue, tour del 1975. 

Fino a questo momento a livello ufficiale si conosceva solo quello che era contenuto nel film Renaldo e Clara. E poi c'era Hard Rain del 1976. Quella era però la seconda formazione e il tour successivo, con una scaletta e una band differente rispetto a quella del '75. In più Hard Rain era solo una porzione di una esibizione di Dylan. Il quinto volume delle Bootleg series è invece un bel doppio cd che getta nuova luce su un periodo esaltante e imperdibile per ogni appassionato di musica che si rispetti.

Ventidue tracce che comprendono brani di diversi periodi, inclusi alcuni inediti. Si parte subito forte, fortissimo con i nuovi arrangiamenti di Tonight I’ll Be Staying Here with You, di It Ain't me Babe e ancora di A Hard Rain’s A-Gonna Fall e di The Lonesome Death of Hattie Carrol. Arrivano poi due brani tratti da Desire, che all’epoca dell’esibizione non era ancora stato pubblicato. Tocca a Romance in Durango e a Isis, fare da apripista per quello che sarà poi uno dei dischi più riusciti e amati del Dylan anni Settanta. 

C’è poi spazio per il revival psichedelico di Mr. Tambourine Man per una nuova versione della recente Simple Twist of Fate, per il super classico Blowin’ in the Wind e si chiude con Mama, You Been on My Mind e I Shall Be Released. Entrambe queste canzoni il pubblico le aveva ascoltato e apprezzate nelle versioni di Rod Stewart e di The Band. Stavolta però è lo stesso Dylan a tornare su questo repertorio più insolito e quindi meno conosciuto.

Il secondo disco parte subito forte con un set acustico costituito da It’s All Over Now, Baby Blue, Love Minus Zero/No Limit, Tangled Up in Blue e la tradizionale The Water is Wide. Terminato il set acustico, si torna in pompa magna con una sequenza di brani eseguiti in modo tanto energetico, quanto impeccabile. It Takes a Lot to Laugh, It Takes a Train to Cry, Oh, Sister, Hurricane (che in seguito diventerà un simbolo di questo periodo e uno dei cavalli di battaglia di Dylan, anche se poco eseguito in formato live) la splendida nuova One More Cup of Coffee (Valley Below), Sara, magnifica canzone dedicata alla moglie, Just Like a Woman e la conclusiva e collettiva Knockin’ on Heaven’s Door. 

La formazione che accompagna Dylan comprende Joan Baez, David Mansfield, Roger McGuinn dei Byrds, Bob Neuwirth, la violinista Scarlet Rivera, conosciuta poco tempo prima passeggiando per le vie del Greenwich Village di NY, Rob Stoner al basso e direttore musicale, Howie Wyeth alla batteria, T-Bone Burnett alla chitarra, Luther Rix alle percussioni, Steven Soles alla chitarra, ma soprattutto Mick Ronson alla chitarra elettrica.

Avere in tour musicisti del livello di Ronson, T-Bone Burnett e lo stesso McGuinn, rese l’esperienza Rolling Thunder Revue, qualcosa di nuovo e inedito rispetto al solito. Innanzitutto Dylan era molto ispirato, sia in termini di performance vocale che di soluzioni sonore e di arrangiamento. Questo si percepisce ascoltando il live del 1975 già dalle prime battute e in particolare durante l’esecuzione di un classico come It Ain’t me Babe. 

Qui troviamo un performer ispirato che cavalca davvero la propria epoca, con una versione piuttosto rock ed energica del pezzo. Stoner giura di essere lui l’autore di tale arrangiamento, ma conoscendo Ronson non è facile pensare che quei licks di chitarra siano in realtà farina del suo sacco. Un bagaglio musicale e umano che lo aveva portato a produrre e suonare su dischi importanti come quelli di Lou Reed e soprattutto di David Bowie. 

Il tour della Rolling Thunder Revue, che per lungo tempo era stato rappresentato esclusivamente da Hard Rain (con le esibizioni del maggio 1976 a Fort Worth, Texas e Fort Collins, Colorado) viene di fatto riabilitato e sviscerato, prima attraverso questa quinta pubblicazione antologica delle Bootleg Series e in seguito con l’edizione di un voluminoso box denominato The Rolling Thunder Revue: The 1975 Live Recordings. Quattordici dischi per una durata monstre di 632 minuti, pubblicato il 7 giugno 2019. Il cofanetto venne pubblicato in occasione della realizzazione del film documentario di Martin Scorsese Rolling Thunder Revue: A Bob Dylan Story. Forse il box composto da 14 dischi è più un documento per completisti e maniaci dylaniani, ma ancora oggi la quinta uscita delle Bootleg Series costituisce uno dei migliori dischi dal vivo pubblicati da Dylan, almeno per quanto riguarda la discografia ufficiale.

A distanza di 20 anni possiamo certamente affermare che tale lacuna andava necessariamente colmata, anche perché per un certo periodo di tempo, le pubblicazioni di dischi ufficiali live di Dylan mostravano una certa sciatteria e quasi una volontà a non voler rilasciare il meglio delle esibizioni dal vivo. Pensiamo ad esempio a Real Live, a Dylan & The Dead, ma anche allo stesso Unplugged, quando ci sarebbe la possibilità di ascoltare live come quello del Supper Club di New York del 1993. Sono già passati 30 anni da quella leggendaria esibizione e non è ancora stato pubblicato un volume antologico ufficiale dedicato a quel repertorio. Speriamo venga pubblicato, prima o poi.

domenica 19 novembre 2023

Bob Dylan/ The Band - Before the Flood

Dylan torna in tour per restarci (On the Road Again)


Troppo presto parlare di Neverending Tour, ma il Dylan della seconda parte degli anni Settanta, mostra subito alcune delle sue carte migliori, con una lunga serie di concerti. Si parte forte con i sodali The Band e le cose si fanno subito serie, soprattutto si nota la distanza rispetto al tour di otto anni prima, sempre con la medesima formazione. A dire il vero questa volta partecipa anche Levon Helm, che nel 1966 era stato sostituito prima da Bobby Gregg, poi da Mickey Jones. La differenza più sostanziale è però un'altra. Stavolta The Band non partecipa alla tournée come semplice gruppo di musicisti d'accompagnamento del solista. Questa volta The Band dividono a tutti gli effetti il cartellone con Dylan, eseguendo un loro set, dove suonano i loro grandi successi. 

Il concerto infatti inizia con Dylan & The Band, prosegue poi con i canadesi senza Dylan, poi tocca a quest'ultimo fare un set da solo con chitarra e voce, poi torna The Band per concludere con Dylan e il gruppo che eseguono insieme pezzi del calibro di All Along The Watchtower, Highway 61 Revisited e Like a Rolling Stone. Viene pubblicato un disco doppio a testimonianza di queste esibizioni, con il titolo Before the Flood. I dischi includono esecuzioni realizzate a New York e a Los Angeles tra il 30 gennaio e il 14 febbraio. Durante questo tour Robbie Robertson, come ricordato nel suo memoriale Testimony soffrirà di un forte attacco di panico e avrà un po' di problemi a gestire la seconda trance del tour. Naturalmente nelle esibizioni non c'è alcuna traccia di tutto questo. Il gruppo gira senza intoppo, anzi forse si avverte, rispetto alle esecuzioni del 1966 una sorta di distacco e freddezza, quasi come se venisse azionato il pilota automatico. Probabilmente all'epoca questo disco deluse le elevate aspettative da parte della critica e del pubblico, ma a distanza di quasi 50 anni è una delle documentazioni più fedeli e attendibili della potenza di fuoco di Bob Dylan and The Band in concerto.

Non si tratta di esprimere punti di vista, ma bensì di certificare la qualità di questa formazione in versione live. Un reperto storico unico, che a distanza di anni suona ancora come una vera e propria macchina da guerra. Il merito è di un Dylan la cui resa vocale è tagliere, dura e potente nonché di una band che sapeva suonare ogni tipo di musica possibile. 

Duttile nell'accompagnamento del menestrello, ma in questa occasione con un proprio repertorio degno di nota e di attenzione. Un disco, Before The Flood, da rivalutare e ascoltare, con il punto di vista dello scenario attuale, dove i grandi vecchi del rock suonano ancora dal vivo, ma senza avere più questo tipo di resa ed elasticità. Nonostante ciò, il live non è considerato dai più come la migliore registrazione dal vivo del repertorio di Dylan. Chi vi scrive è d'accordo in parte con questo punto di vista. Detto questo si tratta di un live da recuperare e riascoltare con la giusta attenzione.


Il ritorno di Bob Dylan sulla strada (Pt. 1)

sabato 18 novembre 2023

Bob Dylan at Budokan

 

Bob Dylan at Budokan (1978)


Mentre vi scrivo ho appena terminato la full immersion in questa nuova uscita di Bob Dylan. Mi riferisco a The Complete Budokan 1978 (Live).

Quattro ore e 29 minuti di canzoni eseguite alla Nippon Budokan Hall, le sere del 28 febbraio e del primo marzo 1978, 45 anni fa. David Mansfield e Rob Stoner sono gli unici "superstiti" del leggendario tour 1975-1976 chiamato Rolling Thunder Revue. Ci sono per questa occasione coriste come Helena Springs, tastiere e addirittura un sax tenore suonato da un grande session man come Steve Douglas. È il Dylan che sta per mandare alle stampe un nuovo album che risponde al nome di Street-Legal, ma cosa più eclatante è un artista fresco di separazione con la propria compagna e madre dei suoi figli. Questo aspetto, unito alla perdita di un mito di gioventù come Elvis Presley crea un corto circuito nel modo di concepire le canzoni e quindi la performance dylaniana. Un altro aspetto significativo è che Dylan per la prima volta compie un tour mondiale, andando a suonare per la prima volta in Asia e Oceania.

La scelta più particolare di questo nuovo spettacolo non è solo legata agli arrangiamenti e ai suoni, che sono in realtà un proseguimento di quanto era stato realizzato durante il Rolling Thunder. La sensazione è di un Dylan davvero sopra le righe, che gigioneggia più del solito, quasi con una messa in scena da grande varietà. In pratica è Bob Dylan che si presenta da Milly Carlucci ed esegue brani ritmati, quasi ballabili per attirare le masse e per dare una nuova ventata al proprio repertorio, dove ci sono canzoni che sono state scritte ed eseguite più di 15 anni prima. A questo punto bisogna fare un recap e capire il contesto in cui si muove l'artista.

La scena musicale rispetto a quando si esibiva abitualmente è cambiata e non poco. Il Re è appena morto e sono venuti fuori nuovi artisti come Bruce Springsteen, Warren Zevon e Tom Petty, ma soprattutto c'è stata la rivoluzione punk, unita all'esplosione del fenomeno Disco Music. Nel tentativo di intercettare questo nuovo tipo di musica, rendendo al contempo omaggio a Elvis Presley e a Roy Orbison, Dylan mette in scena uno spettacolo nuovo, luccicante e lustrato a dovere. Ma è ancora il "nostro menestrello"?

Non bisogna mai cascare in questo tipo di ragionamento quando si parla di Dylan, se davvero si vuole essere obiettivi e imparziali. Per quanto mi riguarda comprendo le scelte di un artista che non si è mai fermato completamente, che ha avuto il coraggio e l'incoscienza forse di rischiare, di tentare nuovi percorsi musicali e creativi. Se non l'avesse fatto molto probabilmente non sarebbe durato tutto questo tempo e oltre.

Bob Dylan non è come gli altri e questo lo sappiamo praticamente da sempre. Non conta conoscerlo da dieci, venti o quarant'anni.  

Eppure qui il problema non è necessariamente legato a certe scelte, soluzione o agli arrangiamenti stravaganti e sopra le righe. Il guaio è che certi pezzi sembrano quasi delle parodie. Anche a livello vocale, prendi ad esempio Shelter from the Storm, una delle mie canzoni preferite. Qui è irriconoscibile, quasi inascoltabile. Altre invece sfiorano il capolavoro, penso a It's Alright Ma (I’m Only Bleeding), Ballad of a Thin man, Don't Think Twice It’s All Right, I Shall be Released e Knockin’ On Heaven’s Door. Per oltre metà del live sono favorevolmente impressionato. Tuttavia alcuni suoni e certe scelte non le comprendo del tutto. E poi c'è il problema GREATEST HITS. Forse Dylan ha avuto paura di fare fiasco in Giappone?

Questo lo dico dopo un solo primo ascolto completo. Ci tento a dire chiaramente che questo mio è un giudizio per il 75% favorevole, che quasi certamente migliorerà con altri ascolti più attenti, maggiormente a fuoco, fatti senza fretta e ansia da prestazione. Ascoltare pe la prima volta un box composto da quattro cd che dura oltre quattro ore resta un’esperienza impegnativa se non estenuante, per certi versi paragonabile oggi alla visione in binge watching di una serie tv su piattaforme come Netflix o Prime Video.

Resto un po’ deluso da estimatore e fan per i punti critici di cui ho scritto sopra, ma pazienza. Bisogna farsene una ragione. Cercheremo di farci piacere questa nuova uscita, oppure di passare oltre, andando avanti. La fortuna con uno come Dylan è anche questa. Mediamente ci sono sempre due o tre uscite all’anno e questa in effetti non è stata nemmeno la prima. 

Ci tengo a specificare che non sono abituato a scrivere articoli su uscite discografiche dedicate a materiale live. Non è proprio la mia comfort zone, in quanto preferisco esprimere abitualmente un parere sui dischi in studio, che sono la mia vera passione. La musica dal vivo mi piace condividerla e viverla sul momento. Raramente ascolto dischi live e quasi mai sono parte integrante della mia colonna sonora quotidiana. 

Naturalmente ci sono alcune importanti eccezioni, penso non so al magnifico live di Van Morrison, It’s Too Late to Stop Now del 1974, al box di Dylan della Rolling Thunder Revue, all’Unplugged e naturalmente a Before the Flood con The Band, di cui scriverò una scheda di approfondimento in separata sede.

Concludo dicendo ancora una volta Evviva Bob Dylan, Evviva il rock e il revival anni Settanta. Senza polemica, ma anche senza fette di prosciutto sulle orecchie. Va bene così, no?

mercoledì 25 ottobre 2023

World Gone Wrong - Good as I been to You


Good as I been to You - World Gone Wrong (1992-1993)

Per analizzare in modo strutturato gli album folk e tradizionali pubblicati da Bob Dylan durante i primi anni novanta bisogna fare  prima qualche passo indietro. Per una maggiore comprensione della sua vicenda artistica, della scena musicale turbolenta e fertile, di quel decennio appena iniziato, ma che già aveva mostrato vento di cambiamento. In effetti c'era stato più di uno squillo da parte delle nuove leve musicali e di una generazione che si sarebbe presa con autorevolezza le luci della ribalta. 

Bisogna partire proprio da quel programma televisivo di enorme successo e impatto che fu appunto l'Unplugged, ma anche lo stesso palinsesto di MTV potrebbe aiutarci a compiere una ricognizione efficace e polifonica. Dire che Bob Dylan alla soglia del nuovo millennio era un artista senza più molto da dire è un luogo comune da sfatare con ogni mezzo, legale e illegale. Stiamo parlando di un autore e di un interprete che aveva influenzato almeno una generazione di autori ora maturi e imposti sul mercato discografico, i cui prodotti di grandissima qualità erano destinati a durare nel tempo. Si pensi ad esempio a gente come Tom Petty, che raccolse proprio a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta il testimone, così come lo stesso Bruce Springsteen, Tom Waits, ma anche gli Pearl Jam e in special modo Eddie Vedder, proprio come Bono Vox degli U2. Gli U2 nel 1988 resero omaggio alla musica statunitense che li aveva ispirati, nella loro lunga cavalcata verso il successo planetario. Senza soffermarsi troppo sul singolo artista, band o chitarrista, il lascito di Dylan era evidente e influente. Basti citare un singolo successo dei Guns ‘N’ Roses come la rilettura di Knockin' on Heaven's Door, brano che porta la formazione capitanata da Slash e da Axl Rose ai vertici delle classifiche e dei gradimenti di un pubblico stratificato ed eterogeneo.

Eppure Bob Dylan non veniva certo da un decennio facile e ricco di successi e gratificazioni discografiche. È vero che aveva prodotto e pubblicato durante gli anni ottanta due dei suoi album migliori e di maggior successo come Infidels del 1983 prodotto da Mark Knopfler dei Dire Straits (altra band profondamente ispirata e in debito nei confronti di His Bobness) e soprattutto il più recente successo di Oh, Mercy prodotto stavolta dal mago del suono (U2, Robbie Robertson, Peter Gabriel) Daniel Lanois. Il polistrumentista canadese aveva infatti stravolto e modernizzato gli arrangiamenti delle canzoni di Dylan, aiutandolo e dirigendolo verso una nuova visione di consapevolezza e di brillantezza essenziale del sound. Dylan negli anni ottanta sembrava sempre più perso e arroccato sulle proprie convinzioni. A detta della critica non era altro che un ferro vecchio del rock e del folk. Nessuno acquistava e ascoltava più la sua musica, in un decennio dove il concetto fatalista dell'usa e getta aveva preso il sopravvento. Del resto fu un decennio per niente facile per le vecchie glorie della musica d'autore, come possiamo vedere dando uno sguardo ad artisti come lo stesso Neil Young, Van Morrison e altri. In particolare però Dylan era colpevole di un delitto capitale: aveva pubblicato almeno due album nella seconda metà degli anni ottanta che la critica e il pubblico aveva salutato come i suoi peggiori lavori dai tempi di Self Portrait. Come sempre la storia e il tempo sono galantuomini, ma anche tra il suo zoccolo duro di sostenitori questi dischi non erano affatto piaciuti.

La resurrezione però ancora una volta è dietro l'angolo. Proprio nell'anno peggiore, quello in cui diede alla stampe il fiacco Down in the Groove, dove anche i critici e il pubblico più affezionato salva forse 2-3 canzoni, come la pimpante e allegra "Silvio", Dylan torna alla luce e lo fa con quello che gli riesce meglio da quando si è imposto nei circuiti folk newyorkesi dei primi anni sessanta: torna a esibirsi dal vivo con una certa continuità e autorevolezza. Non che prima fosse fermo, anzi, era reduce da almeno due tour con band che rispondono ai nomi di Tom Petty and the Heartbreakers e dei Grateful Dead di Jerry Garcia. Circola in questo periodo un bel live su Youtube di un Dylan in spolvero che divide il palco con Garcia & Co. Oh, Mercy e in parte Under the Red Sky, il sequel del 1990, bilanciano quindi gli insuccessi di Knocked Out Loaded e di Down in the Groove, ma c'è un problema. E non è affatto un dettaglio da poco. A Dylan, autore tra i più imponenti degli ultimi 25-30 anni mancano ora le canzoni, o meglio i pezzi giusti per restare a galla, vendere qualche disco e continuare a esibirsi in concerti e festival.

A questo punto l'idea appare chiara. Un ritorno alle origini di menestrello e di folksinger. Del resto non era forse lui il Wonder Boy degli anni sessanta, il principe della scena newyorkese che si impose al pubblico e convinse il grande talent scout John Hammond a metterlo sotto contratto con la Columbia Records? Era lui e ogni tanto forse gli piace ricordarselo. Con questi due album che non contengono nessun brano autografo, ma che si avvalgono di nuovi e squillanti arrangiamenti, Bob Dylan torna alle atmosfere pacate e acustiche dei suoi esordi. I dischi forse non sono dei capolavori, ma basta ascoltare anche solo i brani scartati, gli outtakes che verranno pubblicate nel tempo per stabilire le giuste gerarchie su chi sia ancora una volta il principe e il maggior interprete della scena folk e tradizionale Made in Usa. Basta ascoltare il brano Mary and the Soldier contenuta nel Bootleg Series Vol. 8 - Tell Tale Signs per capire chi resta uno degli interpreti più efficaci in termini di Contemporary folk music. Oppure per chi non concepisce e non digerisce i dischi dedicati al Great American Songbook, consiglierei di recuperare la sua versione di You Belong to me, la classica ballata romantica, portata al successo da Ella Fitzgerald, Patti Page e Dean Martin. Il brano eseguito da Bob Dylan e presente nella colonna sonora del film di Oliver Stone è una outtakes di Good as I Beene to You del 1992. Oggi, a distanza di quasi 30 anni, possiamo facilmente affermare come World Gone Wrong e appunto il sopra citato Good as I Beene to You siano qualcosa in più che esercizi di stile o dischi di livello accettabile. Sono una testimonianza di un artista che decide quale strada seguire, contro i propri interessi commerciali, contro quello che le radio e il sistema discografico imponeva. C'è chi in quegli anni si era permesso il lusso di "consigliare" a Dylan di ritirarsi. Bene, a distanza di 29 anni Dylan continua a fare la sua musica per il suo pubblico, senza compromessi e senza bisogno di chiedere permesso e scusa a nessuno.

A questo punto vi pongo la domanda che Soffia nel Web: chi era il vero artista grunge negli anni ‘90?


Dario Twist of Fate


sabato 21 ottobre 2023

New Morning (andammo a vedere il Drugo)

- Eh, dimmi, come ti vanno le cose? 
- Qualche strike e qualche palla pesa.
- Come ti capisco!

- Ah. Grazie, Gary. Beh tu stammi bene. Torno alla partita.
- Certo. Prendila come viene.
- Sì. sì. 
- So che lo farai.
- Sicuro, Drugo sa aspettare.

Secondo un modo di pensare convenzionale, è più semplice scrivere di argomenti che ci appartengono e che ci stanno maggiormente a cuore. Personalmente ritengo sia un luogo comune da sfatare. New Morning di Bob Dylan è uno dei motivi per cui mi sono avvicinato a questo autore. Era il 1998 e al cinema usciva il film dei fratelli Coen, Il grande Lebowski. Io avevo diciannove anni e mi trovato a Roma quando la pellicola venne distribuita in Italia. Purtroppo tra le città dove il film uscì non c'era Cosenza, quindi dovetti aspettare che venisse riproposto per una rassegna di cinema d'essai in seconda visione.

Ero già un discreto appassionato di film e tra i miei preferiti c'erano proprio i Coen assieme a Kubrick, Scorsese, Lynch, Polanski e Quentin Tarantino. Dei Coen avevo amato e mandato a memoria i vari Arizona Junior, Barton Fink, Blood Simple e soprattutto Fargo. Non sapevo niente di questo nuovo film, ma appena vidi il suo manifesto intuii che aveva del potenziale per essere qualcosa di diverso, nuovo, divertente e stimolante, almeno per uno come me. Di Bob Dylan sapevo che era un grande autore di testi e di canzoni, ma non lo ascoltavo ancora, o meglio, conoscevo quei 15-20 pezzi che per cultura personale e distratta, mi era capitato di beccare, in film, nei passaggi radio o in trasmissioni tv a tema musicale tipo Help di Red Ronnie. Ok, sto divagando. Flashforward: ho visto e rivisto Il Grande Lebowski e grazie a una VHS mando a memoria il brano che accompagna i titoli di testa del film. Si tratta di The Man in Me. Un pezzo "minore" di Dylan, solo che qui non sembra il cantante che aveva imparato a distinguere. È un cantante diverso, con un piglio allegro, quasi ironico. Da qui in poi gradualmente cado nel vortice e nel pentolone come un gallo da combattimento in preda al folk-blues. Grazie a un amico comune recupero un po' di LP e mi metto sul mio giradischi Philips che in quel momento fa ancora il suo sporco lavoro. Ascolto quindi dischi come Infidels, Nashville Skyline, Another Side of Bob Dylan e soprattutto New Morning. BOOM! Mi piacevano già alcune cose come Eric Clapton, Sting, R.E.M., Neil Young e aveva iniziato ad appassionarmi a Bruce Springsteen grazie a dischi come The River e Born to Run. Però l'effetto che mi fece un disco sulla carta tranquillo e "minore" come New Morning di Bob Dylan, pubblicato il 21 ottobre del 1970, me lo fecero poche cose. Da lì fu una ricorsa matta per reperire tutti i dischi, le musicassette e i cd possibili di Dylan. Ricordo che mio fratello aveva registrato una trasmissione su Rai 3, Schegge, dove c'era una porzione di uno speciale tv del 1976, HARD RAIN. Un vero battesimo del fuoco sacro dylaniano per me.

New Morning non avrà il passo dei capolavori anni sessanta e non sarà un disco che cambiò la storia della musica, ma cambiò la mia vita, ed è per questo che ve ne parlo con sentimento e a cuore aperto che sgorga emozione, ricordo, rabbia e tensione. Prima di tutto non ci sono brani troppo lunghi. Quindi se uno è leggermente curioso se lo può ascoltare e riascoltare anche 3-4 volte al giorno. Questo è un approccio che mi direte si può applicare anche ad altri dischi, non solo di Dylan, ma di tutto il pop minimale fini sessanta e inizio settanta. Purtroppo però non sono un fan di Cat Stevens o di James Taylor e scoprirò Elton John solo diverso tempo dopo. Conoscevo già Joe Cocker e quando recuperai alcune sue cose mi fece piacere ascoltare la sua versione un po' reggae di The Man in Me. Oggi so che questo disco nasce da diversi approcci, tra cui la composizione di una colonna sonora teatrale per un pièce di Archibald MacLeisch dal titolo Scratch. Leggo con piacere uno dei capitoli più ispirati di Chronicles - Volume 1, dedicato proprio a questo disco di transizione.

Tuttavia per essere un album meditativo e di transizione, New Morning ti colpisce e ti abbaglia. Non ci sono riempitivi, le canzoni sono ben eseguite e arrangiate. C'è Al Kooper assieme a uno stuolo di musicisti e sessionmen di primordine e per l'ultima volta il suo autore viene prodotto dal capace e tranquillo Bob Johnston. Si torna a New York negli studi B ed E della Columbia con un pugno di brani coerenti. Non ci sono le stravaganze hipster degli anni sessanta, ma troviamo comunque il bell'affresco beat di If dogs run free, una canzone del repertorio maggiore come If Not for You, che vanta alcune cover illustri come quella di George Harrison e di Bryan Ferry, oltre la title track, la già citata The Man in me e un nucleo di canzoni che vanno ad arricchire il songbook dylaniano dopo le prove incerte (a livello di critica) di Nashville Skyline e soprattutto di Self Portrait. Personalmente sono trascorsi più di vent'anni da quando la puntina del mio giradischi si poggiò su New Morning, ma lo ascolto come allora e ne traggo piacere. Durante gli anni il valore di questi dischi di transizione è notevolmente aumentato, grazie a cover, antologie e all'uscita del Bootleg Series Vo. 10 Another Self Portrait. Di questo disco ci sono canzoni che porto nel cuore: Went to See the Gypsy, che si ipotizza fosse un omaggio a Elvis, e poi ancora, Three Angels e Sign on the Window. Ricordo di aver assistito al soundcheck del cantautore Mimmo Locasciulli, dylaniano doc, il quale per scaldarsi e per provare microfono e voce eseguiva all'epoca questo pezzo. Ecco, questi sono quei ricordi marchiati a fuoco nella memoria. Tatuaggi sonori che il tempo non cancellerà mai, finché ci sarà spazio per raccontare la poetica di un disco brillante e solare come New Morning di Bob Dylan. Non un capolavoro, ma qualcosa di più di un amuleto portafortuna per il sottoscritto.

Dario Twist of Fate  


Se ti è piaciuto questo post ti invitiamo a visitare il Lunario Musicale del Lockdown:

domenica 18 giugno 2023

Rough and Rowdy Ways: Bob Dylan nell’epoca dei Millenial

 Rough and Rowdy Ways: un Dylan ruvido nell’era dei Millenial

E’ un Dylan diverso quello che torna a calcare le scene. Fermamente convinto del fatto che ogni sette anni il nostro corpo possa mutare, l’Autore si presenta con un pugno di canzoni durante l’ora più buia.Ad attenderlo, manco a farlo apposta sono davvero Rough and Rowdy Times. Già il tempo, i tempi:chi meglio di un artista con una carriera alle spalle lunga mezzo secolo, potrebbe giocare con il tempo, con lo spazio? Bob Dylan aveva scritto queste canzoni presumibilmente prima dell’emergenza da Covid-19, specialmente prima che l’America tornasse a bruciare. Ed è strano non abbia citato, in un disco dove c’è tanto cinema l’Orson Welles che parlando dell’antica Roma elogiava le qualità dell’orchestra di Nerone, che suonava magnificamente, mentre il mondo intorno brucia. Non sappiamo se Dylan sia un appassionato di Paolo Sorrentino e della sua Grande Bellezza, ma ricordiamo di certo la sua passione per Fellini e per Claudia Cardinale. Canzoni che inneggiano alla satira, come i classici greci prima, latini poi. La gente diceva che era una spugna; lui si definiva uno spedizioniere musicale per il quale i diritti di proprietà erano provvisori, scriveva Daniel Mark Epsten in The Ballad of Bob Dylan.

Rough and Rowdy Ways ha un titolo che fa il verso, strizzando l’occhio a uno dei suoi dischi meno apprezzati dalla critica: Street-legal. Altro contesto, altra epoca. Street-legal usciva in piena esplosione punk e new wave; giustamente non venne capito, né apprezzato, se non a distanza di tempo. Era un lavoro enigmatico e oscuro, proprio come questo Rough and Rowdy Ways: comune denominatore è l’energia, in quel caso legata alla crisi matrimoniale, stavolta invece più spirituale, trascendente. Per certi versi questo disco segna un ritorno, a distanza di otto anni dall’ultimo lavoro autografo: Tempest del 2012. Nella sua lunga e sterminata produzione in studio, lo spedizioniere musicale Bob Dylan non si era mai fermato così a lungo. L’ultima lunga pausa, come autore di canzoni, era stata proprio negli anni novanta, quando dopo Oh, Mercy e il meno importante Under the Red Sky, era tornato a incidere brani tradizionali e cover. Ci fu poi il ritorno con Time Out of Mind, lavoro che di fatto riaccese la miccia della creatività, da cui arrivarono in successione quattro nuovi lavori, tutti di livello medio-alto. Quasi dei capolavori, sicuramente dei classici contemporanei. Alla sua maniera. Ed era tanto che non scriveva e non raccontava storie con un taglio così evocativo, ispirato: dichiaratamente cinematografico. Difficile e dispendioso citare tutti i rimandi e annotare tutti i nomi contenuti in questo pregevole ritorno discografico. Di certo balza agli occhi un richiamo all’horror, al gotico nordamericano. Poe e Lovecraft, ma per restare nell’ambito dell’immaginario pop, Dylan parla il linguaggio della Hollywood classica, tirando in ballo Al Pacino e Marlon Brando, Indiana Jones e Nightmare, Boris Karloff e American Graffiti, Marilyn Monroe, Elvis Presley e Frank Sinatra, Woody Allen, Buster Keaton e Bob Fosse, riportando tutto a casa, compresoil miti, includendo i poeti e gli eroi, includendo la propria esperienza e questo scomodo fardello.

Shakespeare, he’s in the alley, ma è una tragedia ancora una volta filtrata attraverso uno schermo cinematografico, come nella pellicola del 1953 di Joseph L. Mankiewicz, con Marlon Brando e James Mason. L’atmosfera ricorda anche una vecchia pellicola di Vincent Price, mentre aleggia il fantasma di Robert Mitchum in The Night of the Hunter. Spirit on the water! Spettri, trascendenza e oscurità. Il baratro, così come la fine, è prossimo. Conduce però non in un luogo allegorico, ma semplicemente al Black Horse Tavern di Armageddon Street.

Oggi più che mai è davvero facile riavvolgere il nastro e far partire un brano a caso, una volta ho visto un film che parlava di un uomo che attraversava il deserto ed era interpretato da Gregory Peck. Veniva ucciso da un ragazzo assetato di gloria che cercava di farsi un nome. Tutto ciò avviene prima di giungere dalle parti di Key West, girando la manopola di una vecchia radio valvolare analogica. Ironia della sorta, Dylan citando stazioni radio pirata lontane nel tempo e nella memoria ci riporta alle suggestioni di In the Days Before Rock ‘N’ Roll, brano di Van Morrison dove comparivano proprio le frequenze di Luxembourg e Budapest. E’ come se ci fosse la piena volontà di trascinare sulle spalle o solo nella memoria, tutto ciò che è stato, capace di viaggiare leggero, come una piccola valigia, portando dietro tutte le cose importanti e anche quelle futili. C’è l’idea di America e di Occidente, c’è la voce di una Nazione, oppure no. C’è un riferimento alla Terra di Oz, ma anche ai presidenti degli Stati Uniti che Dylan ha conosciuto e attraversato, forse con indifferenza, più probabile con piena coscienza. Non è certo casuale il riferimento a Ginsberg, Corso e Kerouac, le maggiori voci della Beat Generation. Senso di appartenenza? Probabilmente. In un disco che fa della citazione la sua arma prediletta, è necessario menzionare almeno Billy “The Kid” Emerson e Jimmy Reed, così come Louis Armstrong e Bud Powell. Non può mancare un riferimento alla Sacra Bibbia, immancabile totem dylaniano. Sceglietelo da voi però il salmo che preferite. Solo un suggerimento: visti i tempi evitate il Libro della Rivelazione. I opened my heart to the world and the world came in.

Rough and Rowdy Ways: focus on the tracks

My Own Version of You è una delle tre gemme prezioso di questo disco. Il passo è sinuoso ed elegante: una nuova, audace,Ain’t Talkin. Più aggraziata, meno sentenziosa e definitiva. Quasi a dare lo start al disco, dopo una falsa partenza e un blues-stomp ingannevole e fuorviante. Il testo è esemplare, un affresco che trasuda un gusto per il gotico. Un vero e proprio racconto in prima persona, davvero simile a quelli a cui ci aveva abituato negli anni sessanta e settanta. Un ennesimo ritorno con impeccabile e implacabile sagacia. Un Bob Dylan sardonico e mefistofelico, a metà tra Poe, Lovecraft e Mary Shelley. Un nuovo classico?

Black Rider è un altro brano capolavoro, sia da un punto di vista stilistico che formale. A metà tra un racconto di Italo Calvino e il Cavaliere Nero di Proietti. Ricorda per certe atmosfere e intarsi di chitarra il Leonard Cohen andaluso e il Tom Waits più teatrale e oscuro.

Key West (Philosopher Pirate) è un pezzo dedicato alla città della Florida dove il regista Joe Dante aveva ambientato uno dei suoi film più ispirati, Matinée, pellicola del 1993, che si svolgeva durante la crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962. Dylan descrive questo posto come una specie di paradiso in terra attraverso un ispirato e poetico flusso di coscienza dove trovano spazio anche i poeti beat Ginsberg, Corso e Kerouac. La melodia fa pensare subito a The Band e alla fisarmonica di Garth Hudson, ma anche al Tom Waits di Cold Cold Ground. “Key West è il posto migliore dove trovarsi se si cerca l’immortalità, Key West è il paradiso divino. Se hai perso il senno, lo ritroverai là. Key West è sulla linea dell’orizzonte”. Un pezzo che da solo vale il disco, se non fosse che stiamo parlando di uno degli album più ispirati di Bob Dylan degli ultimi 30 anni.

Dario Greco, blogger