domenica 12 settembre 2021

Oh Mercy (1989)

 

Oh Mercy (1989) 

“Non ho un posto per sparire, non ho cappotto. Sono su un fiume impetuoso in una barca ondeggiante e sto cercando di leggere un appunto che qualcuno ha scritto a proposito della dignità.” (Bob Dylan)

Perché Oh Mercy è uno dei dischi più importanti della seconda parte di carriera di Bob Dylan? 

Principalmente per ragioni anagrafiche e del contesto in cui viene prodotto e inciso. Il suo autore veniva infatti da una sequenza di album che avevano messo d'accordo critica e pubblico, ma in senso negativo. Dopo l'inusuale, ma coraggioso Empire Burlesque (1985) il Nostro dava alle stampe due lavori che sono considerati tra le sue peggiori produzioni di sempre. Stiamo parlando di Knocked out Loaded e Down the Groove, rispettivamente del 1986 e del 1988. Eppure dopo il tour con Tom Petty and The Heartbreakers e dopo le date coi Grateful Dead, accade qualcosa. Dylan arrivato a questo punto ha uno dei tanti ripensamenti e decide di coinvolgere in fase di produzione il mago Daniel Lanois, su segnalazione dell’amico comune Bono Vox. Ora, mentre oggi la distanza tra questi due artisti appare meno evidente e scontata, non era affatto lo stesso prima della realizzazione di Oh Mercy. Per una volta non dobbiamo affidarci a terze persone, visto che lo stesso Dylan dedicherà uno dei capitoli più avvincenti e ispirati della sua autobiografia, Chronicles Vol. 1 proprio alle sessioni del disco in questione. Si parla quindi di New Orleans e della lavorazione di un nuovo album, il quale dovrebbe, si spera, risollevare la carriera ormai finita di un autore che incide musica da più di 25 anni.

Pubblicato il 18 settembre 1989, Oh Mercy è il 26esimo disco in studio, comprendente dieci tracce. Solo due di queste superano la durata di cinque minuti. Fin dai titoli e dai crediti possiamo notare come il disco appaia differente rispetto al canone anni ottanta e più in generale, a confronto con altri lavori del passato. Un nutrito gruppo di musicisti accompagna Dylan tra cui lo stesso Daniel Lanois e Cyril Neville dei Neville Brothers. Senza mezzi termini, il disco viene salutato come un grande ritorno e un trionfo a livello di critica. In effetti il suo valore aumenterà a distanza di tempo e resta uno dei dischi più al passo coi tempi, per un autore che lungamente è stato refrattario a questa idea di suonare un tipo di musica contemporanea. Non è un caso se tra i ripensamenti ci saranno, di lì a breve, due dischi contenenti solo pezzi tradizionali folk, country e blues.

Oh Mercy si apre con l'ispirata e tesa Political World, ma già dalla seconda traccia mostra barbagli di tenerezza e di sentimento agrodolce, grazie a brani come Where Teardrops Fall, ma soprattutto con la ballata per piano, Ring Them Bells, con il cuore oscuro e misterioso di Man in the Long Black Coat. Da citare anche Everything Is Broken, un pezzo che per molti critici riflette sull'entropia del mondo. Ma è nel secondo lato che Dylan e Lanois calano un pokerissimo d’assi che da queste parti non si sentiva da tempo. Most of the Time, What Good Am I, What Was It You Wanted e la tenera conclusione di Shooting Star, intervallate dall’ intensa e calda ballata per piano di Disease of Conceit. Da segnalare come durante queste sessions siano state registrate e successivamente scartate canzoni del livello di Dignity, God Knows e Born in Time. Soprattutto la splendida Series of Dreams: probabilmente tra le migliori canzoni di Dylan da Desire (1976) in poi. Una inaspettata sorpresa per quel 1989 dove il mondo stava andando letteralmente a pezzi, Everything is Broken appunto. Sono tanti gli artisti, colleghi e critici che spenderanno qualche parola per manifestare il proprio apprezzamento nei confronti di questo album. Ne citiamo almeno quattro: Lou Reed, che definì Disease of Conceit la migliore canzone dell'anno, mentre Willie Nelson e Mark Lanegan renderanno giustizia ai brani What Was It You Wanted e Man in the Long Black Coat con due intense e convincenti riproposizioni. L'ultimo, ma non per importanza è la testimonianza di Eric Andersen. Proprio Andersen qualche tempo prima aveva affermato che Dylan fosse un artista giunto ormai al suo capolinea, a livello artistico. Eppure non bisogna mai vendere la pelle dell'orso prima di averlo ucciso, men che meno quando l'orso risponde al nome di Bob Dylan.

Andersen con onestà intellettuale dirà infatti che queste canzoni sono sostenute e incoraggiati da tocchi tenebrosi, oscuri, paludosamente arcaici di Lanois. Oh Mercy urla incertezza, desiderio, dolore, compassione e verità nascoste. Quasi un gioco morale. Questi brani sono brutalmente sinceri, di chi non si sottrae al dolore. Quest'album riflette una mezzanotte personale buia, la proverbiale ora di buio, attraversando i territori sconfinati di un'anima senza protezione. Scrivere questa confessione deve essergli costato non poco. Eppure questa non sarà l'ultima volta; e non è sorprendente tutto questo, alla luce di album del valore di Tempest e Rough And Rowdy Ways

Un consiglio: anche se avete sempre manifestato pregiudizi verso Bob Dylan e la sua musica, almeno per una volta provate a cedere. Troverete un disco di livello eccelso, raro e prezioso. 


“Il più delle volte metto bene a fuoco tutto quello che ho intorno. Il più delle volte riesco a stare con i piedi per terra. Posso seguire il sentiero, posso capire i segnali, tengo la destra quando la strada si fa tortuosa, riesco ad affrontare qualunque cosa mi capiti, non mi accorgo neanche che lei se n'è andata, il più delle volte.” (Bob Dylan)

Dario Twist of Fate

sabato 11 settembre 2021

Love And Theft (2001)

 


"Love And Theft" (2001) 

Dopo aver realizzato dischi nuovamente all'altezza del proprio nome come Oh Mercy e soprattutto Time Out of MindBob Dylan torna ancora, con un suo nuovo lavoro autografo. O meglio, semi-autografo. "Love And Theft" è il 31esimo disco in studio, ed è stato registrato ancora una volta a New York City, nei Clinton Recording, durante il mese di maggio. In cabina di regia, utilizzando lo pseudonimo di Jack Frost, c'è proprio Dylan, che si occupa della produzione. Una novità importante, visto che da questo momento in poi sarà l'autore stesso a produrre i suoi futuri lavori discografici. Non è però una novità: molte volte era stato proprio lui a dirigere i lavori, a partire da Empire Burlesque e Knocked Out Loaded (a cui bisogna aggiungere anche Down in the Groove) senza dimenticare Under the Red Sky e Time Out of Mind,  co-prodotto assieme con Daniel Lanois. Importante sottolineare poi il ritorno a New York, in un momento storico specifico e dopo tanto girovagare. Era dai tempi di Empire Burlesque, ma soprattutto da Infidels, che Dylan non registrava in quella che a buon diritto può essere considerata la sua città d'adozione oltre che la seconda casa, musicalmente parlando. E così dopo tanti viaggi, Dylan giunge in sala d'incisione e lo fa con la sua abituale live band. Non una backing band qualsiasi, visto che può contare sull'elasticità e sulle dinamiche di una sezione ritmica perfettamente rodata on the road, ma soprattutto su ottimi strumentisti come Larry Campbell e Charlie Sexton. I due sono perfettamente a loro agio in questa prova in studio. Capaci di mostrare fin dalle prime battute tutto il loro armamentario e il giusto feeling per portare a casa un ottimo lavoro. Tony Garnier, il bassista che lo segue dal vivo già da qualche anno, qui è alla sua seconda prova in studio, dopo il fortunato "esordio" di Time Out of Mind.

L'atmosfera che si respira è davvero buona e raramente abbiamo sentito Dylan così allegro, frizzante e motivato, rispetto a questa prova discografica. Il merito è legato al materiale che porta in sala di registrazione, ma anche ai premi ottenuti negli anni che lo hanno preceduto. Non bisogna dimenticare che "Love And Theft" sia il primo disco dopo l'Oscar per la miglior canzone vinto con Things have changed. Dylan però non è certo il tipo a cui piace cullarsi sugli allori. Qui sale in cattedra con un lavoro solare, pulito nei suoni e con un imponente armamentario caratterizzato da suoni di impostazione roots rock, blues, country, jazz. In pratica quella che oggi viene definita Americana. Un genere che in pratica egli stesso ha contribuito a ridefinire e plasmare nella cantina coi fidati The BandNaturale che Dylan si senta a suo agio a produrre, registrare e cantare questo particolare tipo di canzoni. Nonostante ciò, bisogna sottolineare come il lavoro rappresenti una novità importante a livello musicale. Il cantautore introduce un nuovo importante elemento all'interno del suo percorso sonoro. Per la prima volta infatti si confronta con un tipo di canzone antecedente al folk revival e al rock: dopo lo swamp-rock di Time Out of Mind, il Nostro ci riporta alle atmosfere Vaudeville e a tutto il contesto che aveva reso importante il Tin Pan Alley. Il titolo è preso in prestito dal volume Love & Theft: Blackface Minstrelsy and the American Working Class, scritto dallo storico Eric Lott e pubblicato nel 1993. 

La fotografia che viene rilasciata ci mostra un autore sorridente e beffardo, che si diverte moltissimo a mettere in atto i suoi scherzi tremendi. Con la complicità di una band che suona a memoria, più l'intervento del grande tastierista texano, Augie Meyers, Dylan sale in cattedra ancora una volta con il suo stile di scrittura surrealista e cubista. I testi sono dei veri e propri flash, inchiodati in una cornice di grandi riff di chitarra: fraseggi e scambi che Larry Campbell e Charlie Sexton sono capaci di produrre e concepire, spesso improvvisando sul ritmo messo in piedi dallo stesso Dylan e dalla sezione ritmica guidata dal drumming di David Kemper. Per Wesley Stace "Love And Theft" rappresenta un passo in avanti, dopo la tristezza dominante e il suono gonfio e gommoso di Time Out of Mind. Ci sarà un motivo certamente plausibile se in tanti non amano i dischi di Dylan "allegri" e giocosi, fatta esclusione per titoli come Blonde on Blonde e Highway 61 RevisitedEppure Dylan è capace di creare un linguaggio assolutamente nuovo attraverso cui esprimersi. Uno stile che gli calza a pennello e che non aveva fin qui mai utilizzato. Si tratta di un linguaggio fatto di scherzi pesanti, possiamo dire. La cosa incredibile è che la musica copre interi decenni, che hanno preceduto il suo ormai distante esordio del 1962. Non è certo un caso se queste canzoni vengano messe su nastro proprio mentre il suo autore stava per compiere 60 anni. Con Dylan sappiamo bene come il tempo assuma un'importanza considerevole. Andiamo a ritroso dai blues anni venti allo swing, passando per il pop fino ad arrivare a Elvis. Ed è qui che il disco prende quota, attraverso ritmi indiavolati e chitarre infuocate.


C'è però un aspetto che bisogna sottolineare, dopo l'amore tocca al furto
. E Dylan stavolta saccheggia, come può, tutto ciò che gli sta a cuore. Passiamo da Dock Boggs a Gene Austin, da Robert Johnson ai riferimenti espliciti di Big Joe Turner from Kansas City, fino al Charley Patton di High Water Everywhere, pezzo Delta blues, registrato nel 1929. Difficile individuare la citazione del brano Po' Boy, visto che con lo stesso nome abbiamo questo incredibile sandwich a cui il testo sembra fare riferimento, ma siccome il disco è un esempio esplicito di amori e ruberie, potrebbe esserci anche qui un riferimento ai mentori Elvis Presley e Woody Guthrie. La critica, tanto per cambiare si è diverte a fare le pulci ai testi quanto ai debiti di scrittura musicale. Eppure il disco andrebbe giudicato e considerato nel suo insieme, dato che sotto questo punto di vista funziona alla grande! Questa volta ci si diverte, si balla, pestando il piede a tempo. E ci sarebbe anche da capire cosa c'è di male nel rivalutare e rilanciare canzoni dimenticate degli anni '20 e '30 del secolo scorso. A questo punto mettiamo dietro la lavagna i vari Eric Clapton, Mark Knopfler, Van Morrison e Neil Young, dato che anche loro hanno dedicato metà carriera a rimaneggiare standard blues, country e folk.

Il problema è che questo gioco a Bob Dylan riesce meglio, visto che gli vale premi, dischi d'oro e una considerazione critica, storica e letteraria che probabilmente i suoi illustri colleghi non riceveranno mai. Nel 2015 in un raro intervento dal vivo, Dylan dirà che nelle recensioni a lui riservate i critici vanno a guardare sotto ogni pietra nel tentativo di riportano alla luce tutto quel che trovano. È possibile, ma è anche vero che nessun collega ha mai ricevuto il plauso unanime della critica, intercettando, per così tanto tempo, gli interessi di legioni di adepti, fandom ed estimatori di musica. Di questo dovrebbe rallegrarsi, riteniamo. Greg Kot sul Chicago Tribune ha scritto di Love And Theft: "I miti, i misteri e il folklore del Sud come sfondo per uno dei migliori album roots rock mai realizzati". Dodici brani, ognuno a suo modo importante e indispensabile per tracciare la nuova rotta musicale e sonora del suo Autore. Ogni traccia ha il suo valore e peso specifico, anche se forse alla lunga quelle che sono rimaste sono il nucleo swingante comprendente Bye and Bye, Floater, Moonlight, Po’ Boy a cui è giusto aggiungere la ballata finale Sugar Baby, il ritmo incalzante bluegrass di High Water e la sferragliante apertura di Tweedle Dee & Tweedle Dum.  

Interessante notare un aspetto inusuale per il Nostro autore. Il recupero del brano Mississippi, outtakes di Time out of mind già inciso tre anni prima da Sheryl Crow. Dopo i precedenti illustri di brani del valore di Blind Willie McTell, Foot of Pride, Series of Dreams e Dignity solo per limitarci a quelli più evidenti, Dylan stavolta corre ai ripari e si assicura uno dei suoi pezzi pregiati per rinforzare un disco che per lui rappresenta una nuova sfida e l’inizio di un nuovo percorso musicale e di metodo di lavoro. Perché, aspetto che pochi hanno evidenziato, il suo metodo di lavoro ricorda più quello dei sapienti artigiani, dei mastri ferrai che dei pittori italiani del Rinascimento. Amore e furto, va benissimo, ma anche un Riportando Tutto a Casa Volume 2, sarebbe stato titolo appropriato e funzionale, crediamo.

Capolavoro brillante e unico. Disco prezioso da ascoltare nei momenti di sconforto e di malumore. Uno dei suoi 5-6 lavori migliori. 

N.B.

Siamo consapevoli del fatto che il disco sia stato pubblicato l’11 settembre 2001, ma pensiamo si tratti di una spiacevole coincidenza. In altre sedi questo potrebbe costituire elemento di analisi e di congetture, che ci sentiamo qui di eludere, per ovvi motivi.

Dario Twist of Fate 

Foto di copertina realizzata da Kevin Mazur