giovedì 19 gennaio 2023

Bob Dylan & Chronos: lotta contro il tempo

 

Dylan & Chronos: lotta contro il Tempo

“I tibetani credono che vi sia uno stato di transizione tra la morte e la rinascita. La morte sarebbe fondamentalmente un periodo di attesa. Dopo poco tempo l'anima sarà accolta da un nuovo grembo. Nel frattempo essa restituisce a sé stessa una parte della divinità che ha perduto al momento della nascita.” (Rumore bianco, Don DeLillo)        

Introduzione

“Il tempo è un bambino che gioca, che muove le pedine; di un bambino è il regno.” L’immagine usata da Eraclito per parlare del tempo accosta la leggerezza del gioco, la casualità di un lancio di dadi all’inesorabilità del tempo e all’enigma del suo svolgimento. L’uomo ha sempre rivolto un’attenzione particolare al trascorrere del tempo ed è stato attratto dal futuro e dalla possibilità di conoscerlo anticipatamente. Nell’antichità i greci usavano due termini per definire il tempo: Chronos per indicare lo scorrere dei minuti e la sua natura quantitativa e Kairos per indicare la natura qualitativa dello stesso, ovvero l’abilità di fare la cosa giusta al momento opportuno. Nel mondo moderno, il concetto di Chronos ha storicamente avuto una posizione dominante su Kairos. La velocità di esecuzione di un compito è associata ad un aumento di produttività ed efficienza. La rapidità di adattamento alle situazioni è un indicatore della flessibilità organizzativa e strategica. L’essere in grado di anticipare i concorrenti nel lancio di un prodotto è una misura della capacità di innovazione. Queste dimensioni legate al tempo come Chronos restano importanti per il successo di una persona o di una società, ma passano in secondo piano rispetto alla dimensione temporale qualitativa espressa dal concetto di Kairos.

«Abbiamo la tendenza a vivere nel passato, ma questo riguarda la mia generazione”, ha dichiarato qualche tempo fa Bob Dylan al New York Times parlando del suo brano Murder Most Foul. «I giovani non hanno questa tendenza. Semplicemente non hanno un passato, quindi tutto quello che sanno è quello che vedono e sentono, ed è facile fargli credere qualsiasi cosa. Ma tra 20 o 30 anni saranno loro in prima linea.». Sono parole espresse da un uomo che ha vissuto almeno un paio di vite, artisticamente forse qualcuna in più. Poeta, cantore folk, troubadour, innovatore fantasma di elettricità, esponente di spicco del movimento beat e via dicendo. Non è facile trovare una sola e nuova definizione per questo artista così prolifico, cangiante, capace di spiazzare pubblico e critico, anche adesso, quando gli anni sono ormai più di 80. Ottant'anni di cui più di 50 vissuti al centro della scena musicale e non solo. Dylan infatti nel corso del tempo si è dedicato anche ad altre forme e discipline artistiche, in alcuni casi con un certo successo e seguito. Non è andata benissimo con il cinema, non ha sicuramente eguagliato i suoi capolavori musicali con la pittura, ma è assai raro imbattersi in un autore che scrive, canta, suona, realizza sculture, si dedica alla produzione di whisky e non solo. Già il cinema, forse il suo sogno inespresso e irraggiungibile. Quest'anno ricorrono 50 anni dall'anniversario di Pat Garrett & Billy The Kid, il film di Sam Peckinpah per cui Dylan scrisse la colonna sonora e interpretò un piccolo ruolo. Forse il film più importante a cui ha preso parte. Sicuramente un titolo che per molti ha rappresentato qualcosa, in ottica di western crepuscolare e contemporaneo.

Bob Dylan: in perenne lotta contro tempo e decadenza

Una battaglia contro il tempo lineare e il suo scorrere implacabile e ingannevole, contro le mode, la loro futilità, le ideologie vuote, le morali fasulle, gli amori idioti, l’inutile lotta contro il destino e la falsità e la mediocrità al potere, gli inganni e le manipolazioni che offuscano la mente e impediscono di vedere cosa davvero è reale. Il tempo e la fine del mondo compaiono spesso nelle liriche dei suoi brani. “Ma ero molto più vecchio allora, sono più giovane ora” (My back pages), “Fammi sparire tra gli anelli di fumo della mia mente, tra le rovine nebbiose del tempo” (Mr. Tambourine man), “Dentro i musei viene messa sotto processo l’eternità’ (Visions of Johanna), “E se la Bibbia ha ragione il mondo esploderà […] i prossimi sessanta secondi potrebbero durare un’eternità’ (Things have changed), “Questa terra è interdetta, da New Orleans fino a Gerusalemme” per approdare a Time out of mind, un disco del 1997, costellato di canzoni quasi tutte evocanti un’atmosfera sepolcrale, un disco che qualcuno ha tradotto con ‘poesia del tempo immemorabile’. Ma la lotta contro il tempo è anche, da sempre, una lotta contro i tempi, contro il ritmo delle canzoni, caratterizzate nel modo di cantare da rallentamenti, accelerazioni improvvise e scarti imprevedibili a ogni esibizione dal vivo. Le reinterpretazioni stanno lì a significare che il suo mondo artistico, poetico e musicale, non può essere fissato una volta per tutte, perché in quel caso sarebbe come morto. Si può discutere e ipotizzare se questa visione dell’arte e del tempo sia influenzata da Nietzsche, Bergson e Proust o da Keats, uno dei tanti suoi geni ispiratori, insieme a Blake, Ginsberg, Rimbaud e molti altri, o sia semplicemente dovuta a vicende personali.

Per Bob Dylan il concetto di tempo e di spazio è un qualcosa di mobile e questo ha influenzato anche le sue canzoni e il modo di interpretarle. Non è un caso se la parola Time e Times sia finita più volte sulla copertina dei suoi album, ma non solo. In Blood on the Tracks, il tempo diventa un concetto assolutamente relativo, astratto. Le canzoni infatti possono viaggiare e spostarsi, tra presente, passato e forse futuro. Non è un caso se questo disco sia stato giudicato come uno dei più intensi, riusciti e significativi. Appena tre anni dopo Dylan torna sul concetto di tempo e lo fa con il brano No time to Think, presente su Street Legal del 1978, ma non è solo questo ciò che emerge analizzando la sua opera. Molto spesso si è parlato di canzoni che hanno come tema principale il sogno, le cosiddette canzoni oniriche dylaniane. L'esempio più calzante è sicuramente dato dal brano Series of Dreams, registrato nel 1989 per il disco Oh, Mercy, ma scartato all'ultimo e riproposto nella prima raccolta ufficiale di inediti, The Bootleg Series 1-3 del 1991. 

In Rumore bianco Don DeLillo fa dire a uno dei suoi protagonisti: "La questione del morire si fa saggio strumento di memoria. Ci guarisce della nostra innocenza nei confronti del futuro. Le cose semplici sono fatali, o è una superstizione?" Oppure citando Ode all'usignolo di John Keats: "Svanire e dissolvermi, per dimenticare per sempre quello che tu fra le foglie non hai conosciuto mai, l'abbattimento, la febbre e l'inquietudine della terra dove gli uomini odono l'uno dell'altro i gemiti; ove la paralisi fa tremare gli ultimi melanconici capelli grigi, dove la giovinezza diventa pallida e spettrale e muore.”

Considerazione finale

Mi piace pensare a Bob Dylan, l'artista più che l'uomo, come a un personaggio uscito da un fumetto Marvel, in perenne lotta contro il tempo. Tempo che come sostenevano gli antichi greci, può essere al contempo Kairos e Chronos. Speculativamente, in base ai piani dell'arte, dell'ispirazione della Musa. Dylan guarda al passato anche quando deve scegliere la copertina del suo disco Tempest (2012). Una rielaborazione grafica di Alexander Längauer che raffigura un dettaglio della fontana scolpita da Carl Kundmann a Vienna tra il 1893 e il 1902. I quattro gruppi scultorei intorno a Pallade Atena raffigurano i quattro fiumi principali dell'Austria: il Vltava, l'Elba, l'Inn e il Danubio. Atena, dea guerriera e vergine, una delle più rispettate, ha varie funzioni: difende e consiglia gli eroi, istruisce le donne industriose, orienta i giudici dei tribunali, ispira gli artigiani e protegge i fanciulli. Era anche dea della sapienza e delle arti.

Per concludere vorrei citare il film Watchmen, tratto dall’omonima graphic novel di Alan Moore. Per Alan Moore e Dave Gibbons, Bob Dylan era la luce guida nell'oscurità, un artista che ha modellato un modo completamente diverso di fare le cose. Ed è interessante come il regista Zack Snyder abbia utilizzato il brano The Times They Are A-Changin' di Dylan, nella sequenza dei titoli di testa nella trasposizione cinematografica di Watchmen. Possiamo qui notare la consapevolezza del concetto di tempo (in una cornice storico) da parte di un giovane autore, che si stava imponendo al firmamento musicale dell’epoca. In una lotta personale e perentoria contro il tempo e lo spazio.

Signori: anche questo è Bob Dylan!

 

Dario Greco


- SITUAZIONISMO DYLANIANO -

giovedì 5 gennaio 2023

Bob Johnston, Nashville e la produzione dylaniana

Bob Johnston, Nashville e la produzione dylaniana (1965-1970)

Quanti di noi saprebbero davvero indicare il ruolo di un produttore musicale? Oggi conosciamo i nomi di artisti come Daniel Lanois, Brian Eno, Tony Visconti, Rick Rubin e T Bone Burnett, produttori che in molti casi sono a loro volta musicisti prestati e passati dietro la console, che mettono le loro conoscenze a servizio delle case discografiche e di star del firmamento della musica. Eppure c’è stato un tempo in cui il produttore musicale aveva un ruolo diverso, di stampo più gestionale e manageriale. Prendiamo il caso di Bob Johnston, che durante gli anni Sessanta legò il proprio nome a un’importante e prestigiosa etichetta come Columbia Records. Il produttore texano, nato a Hillsboro nel 1932 prima di diventare uno degli uomini di punta di John Hammond, si era fatto strada nel mondo della musica scrivendo canzoni e collaborando con Elvis Presley e Joy Byers. Tuttavia il suo nome è legato in maniera indissolubile ad artisti Columbia come Bob Dylan, Johnny Cash, Simon & Garfunkel e Leonard Cohen. In parole povere: un’altra epoca, forse addirittura un’altra era geologica. Parliamo di un periodo in cui nel giro di poco più di 12-18 mesi uscivano dischi come Highway 61 Revisited, Sounds of Silence, Blonde on Blonde e Parsley, Sage, Rosemary and Thyme. Sapete quante persone hanno scritto questi quattro dischi? Ve lo diciamo noi: soltanto due. Per la precisione li hanno composti Bob Dylan e Paul Simon. A rendere ancora più surreale il tutto c’è un dato anagrafico incredibile; sia Dylan che Simon avevano meno di 25 anni mentre realizzavano questi dischi, oggi ritenuti degli autentici capisaldi per i cosiddetti Sixties. Fatto ancora più incredibile è che Bob Johnston risulti essere il produttore di tutti questi lavori, fatta esclusione per la traccia Like a Rolling Stone, prodotta da Tom Wilson. Wilson figura come il produttore dei primi dischi di Dylan ed è ritenuto tra i responsabili della svolta elettrica che da Bringing It All Back Home in poi, vedrà il cantautore utilizzare una strumentazione elettro-acustica per accompagnare le sue canzoni. Bisogna quindi riconoscergli grandi meriti, ma è anche giusto dire che il produttore non era del tutto convinto di quello che stesse facendo Dylan quando registrò Like a Rolling Stone. Difficile però a questo punto comprendere gli stati d’animo e dove finisce la storia e inizia il mito e la leggenda. Ci sono troppe versioni differenti dei fatti e anche per un personaggio anticonformista come Dylan è un po’ eccessivo pensare che un produttore gli remasse contro per puro spirito di contraddizione. Non stiamo parlando di un brano e di una incisione qualunque: stiamo parlando di un pezzo iconico, che ebbe successo fin dalla sua prima messa in onda, come testimoniato da numerosi artisti tra cui spiccano nomi altisonanti come quelli di Bruce Springsteen, David Bowie e Frank Zappa. Il vero spartiacque nella carriera di uno dei più grandi autori di canzoni popolari del Novecento. Punto cruciale per la carriera discografica di Dylan fu proprio l’incontro con l’altro Bob, vale a dire Bob Johnston. Johnston tra i tanti meriti ebbe la geniale intuizione di mettere nella stessa sala d’incisione persone come Bob Dylan, Robbie Robertson, Al Kooper con il circuito dei session-men di Nashville. 

Fu artefice di un cambio di rotta che ha oggi dimensioni storiche, culturali e discografiche importanti. Senza Dylan a Nashville probabilmente non ci sarebbero stati nemmeno album come Harvest di Neil Young e non ci sarebbe stato il cortocircuito tra i musicisti newyorkesi o comunque attivi a Est, con i turnisti di Nashville, i cosiddetti Nashville Cats. Un gruppo di strumentisti che suonarono su molti dischi di valore assoluto per la storia della musica, a cominciare proprio dal doppio Blonde on Blonde, pubblicato tra maggio e giugno del 1966. Parliamo di musicisti come Charlie McCoy, Kenneth Buttrey, Wayne Moss e Hargus “Pig” Robbins che grazie al loro mestiere e alla conoscenza musicale, votata alle incisioni discografiche, contribuiscono alla realizzazione di alcuni dischi oggi conosciuti a livello mondiale e ritenuti dei capisaldi del loro genere di appartenenza e di riferimento. Nello stesso calderone ci sono artisti della prima generazione rock and roll come Elvis Presley, Roy Orbison e Johnny Cash, ma la costante sono proprio questo nucleo di session-men a cui bisogna aggiungere i nomi di Joe South, Jerry Kennedy, Floyd Cramer e Henry Strzelecki. In tutto questo Bob Johnston ebbe un ruolo centrale per mettere assieme Dylan e i Nashville Cats. Fu sua l’idea di realizzare il disco negli studi Columbia dello Stato del Tennesee. Un esperimento che si vide necessario quando le prime session di New York, con quella che poi sarebbe diventata la formazione di The Band non diede i risultati sperati, tanto che nel disco possiamo ascoltare solo un brano su quattordici presente in Blonde on Blonde. Quello che realizzerà Bob Dylan a Nashville non si può nemmeno ridurre solo a questa prima, fortuita esperienza musicale e produttiva. Ci furono in effetti altri quattro dischi che vennero realizzati con questo metodo di lavoro, due dei quali hanno avuto un certo successo di critica e di pubblico. Nashville Skyline ad esempio rappresenta il flirt tra country e folk, in pratica un nuovo cambio di direzione e l’ennesimo “tradimento” musicale di Dylan, realizzato in meno di dieci anni rispetto al suo esordio. Perché il Dylan anni sessanta è tutto questo e molto altro. In cabina di regia c’è sempre lui: Is it Rolling Bob?

Bob Johnston aveva il fuoco nelle pupille. Possedeva quella qualità che alcuni chiamano momentum, slancio. Glielo leggevi in faccia quel fuoco, quello spirito che ti trasmetteva. Era il più importante produttore della Columbia in ambito folk e country, ma era nato con cent'anni di ritardo. Avrebbe dovuto indossare un ampio mantello, un cappello con le piume e avrebbe dovuto cavalcare con la spada alta in mano. Johnston non si curava di niente che potesse intralciare i suoi piani. Il suo metodo nel produrre dischi consisteva nel tenere il motore ben oliato, accenderlo e farlo andare a tutta forza. Non si sapeva mai chi avrebbe portato in studio, c'era sempre un intenso andirivieni, ma lui riusciva a trovare un posto per tutti. Se una canzone non marciava come doveva, entrava in studio e diceva: - Signori, in questa stanza c'è troppa gente. Era il suo modo di risolvere le cose. Johnston viveva del barbecue della low country ed era la cortesia in persona, afferma Bob Dylan nel secondo capitolo del suo memoir Chronicles - Volume One.  

Bob Johnston è l’uomo in cabina di regia dietro alcuni dei più grandi successi e capolavori realizzati da Dylan tra il 1965 e il 1970. Probabilmente il contributo più significativo resta quello legato alla prima trasferta in quel di Nashville, quando il produttore mise nello stesso studio personalità come quelle di Al Kooper, Robbie Robertson e lo stesso Dylan, assieme ai Nashville Cats, guidati da Charlie McCoy. Il resto, come si usa dire in questi casi, è storia del rock.


Dario Greco


- SITUAZIONISMO DYLANIANO -

mercoledì 4 gennaio 2023

Bringing It All Back Home (1965)

Bringing It All Back Home (1965)

Bob Dylan nel 1965 sente che è giunto il momento di compiere uno strappo necessario con il mondo del folk, ambiente che lo aveva eletto giustamente Principe, per il livello di popolarità, destrezza e qualità artistiche mostrate in pochi anni di attività musicale professionale. Ma Dylan non era solo questo, come stavano per apprendere in moltissimi. È facile oggi giudicare un disco che all'epoca fu un vero spartiacque, capace di commuovere, scuotere, creare hype, polemica, mettere tutti d'accordo e scalare le classifiche di vendita come mai era riuscito a ottenere con i lavori precedenti. Chi non c'era non può capire, si dice. Possiamo quindi immaginare cosa è stato poggiare sul piatto del proprio giradischi il lato A di questo imperdibile capolavoro. Ed è proprio nel lato A che il Dylan autore ed esecutore riserva le sorprese più imprevedibili. Pronti via e si parte con il teso blues rock di Subterranean Homesick Blues. Un testo inarrivabile, anche per lo stesso autore, ma una musica nuova, fresca, violenta che non vuole fare sconti e offrire rifugio dalla tempesta.

Ma facciamo un passo indietro. L'anno prima Bob Dylan aveva dato alle stampe il suo quarto lavoro, Another Side of Bob Dylan, dove per la prima volta si poteva sentire una ricerca da parte dell'autore di intercettare umori e stili musicali più al passo coi tempi, rispetto alle produzioni precedenti. Qui bisogna però aprire il Vaso di Pandora e mettere le cose in chiaro. Bob Dylan non è mai stato un interprete puramente folk. Perfino nei due dischi che andrà a incidere negli anni novanta, che non contengono nessun brano autografo il suo stile personale, finirà per emergere e per mostrare la propria rilettura di classici del folk, del blues e della musica popolare scozzese, irlandese e statunitense. Ci sono quindi dei falsi miti e degli errori di valutazione che prima o poi la critica militante dovrà assumersi l'onere di correggere.

Da questo momento in poi però anche per chi si ostina a trovare e a vedere i semi della tradizione del folklore nelle liriche e nelle tessiture sonore degli album del Nostro, dovrà ammettere che qualcosa è cambiato. Perché lo scarto in avanti di brani come Subterranean Homesick Blues, Maggie's Farm, Outlaw Blues, On the Road Again e Bob Dylan's 115th Dream è fin trovo evidente e programmatico, anche per i molti critici e cultori del genere folk che certamente avevano mostrato problemi di acufene e bisogno imminente di un bravo otorinolaringoiatria.

Le session si tennero tra il 13 e il 15 gennaio del 1965 nei Columbia Studio A e B. Questo è l’ultimo disco interamente prodotto da Tom Wilson, il quale guida una squadra dove spiccano le note di un nucleo eterogeneo e compatto di musicisti.

Li citiamo tutti qui di seguito:

Steve Boone – bass guitar - Al Gorgoni – guitar - Bobby Gregg – drums - 

Paul Griffin – piano, keyboards - John P. Hammond – guitar - Bruce Langhorne – guitar - 

Bill Lee – bass guitar on "It's All Over Now, Baby Blue" - Joseph Macho, Jr. – bass guitar - 

Frank Owens – piano - Kenny Rankin – guitar -  John Sebastian – bass guitar

 Bill Lee è il padre del futuro cineasta Spike Lee e suona il suo basso su uno dei pezzi che sono rimasti di più di questo album: It's All Over Now, Baby Blue. Perché se è vero che i pezzi con un vestito sonoro che possono spiazzare maggiormente, non bisogna certo trascurare altri e alti episodi come Mr. Tambourine Man, Gates of Eden, It's Alright Ma (I'm Only Bleeding) Love Minus Zero/No limit e She Belongs to Me. Come facilmente intuibile in questo disco non c'è posto né spazio per brani riempitivi. Ogni singola nota e verso ha motivo di esistere. Bisogna dire qualcosa anche del lavoro di artwork della copertina realizzata da Daniel Kramer, che per certi versi apre la stagione della psichedelia e della sperimentazione. Il disco musicalmente è un pugno assestato alla musica pop, con il vigore di un 24enne che sapeva bene da dove veniva, ma soprattutto dove voleva arrivare. Anthony De Curtis ha scritto: "Nel giro di 14 mesi abbiamo Another Side of Bob Dylan, Bringing it all back home e Highway 61 Revisited. Un livello ancora oggi semplicemente sorprendente, come del resto l'evoluzione da un album all'altro è straordinaria."

Di questo disco è importante dire che ha rappresentato una svolta per la carriera del suo autore, visto che contiene il primo singolo a entrare nella top 40. E se è vero che il rauco rock elettrico di Dylan causò sgomento tra i vecchi fan del folk, è necessario stabilire come questo lavoro gli procurerà più seguaci di quanti ne perderà lungo la strada. Da un punto di vista programmatico questo album apre la porta a quello che sarà il Leitmotiv della carriera di Bob Dylan: spiazzare il suo pubblico. Dargli sempre qualcosa di diverso, di inatteso, capace di creare vertigine, sgomento e shock. Bringing it all back home venne pubblicato il 22 marzo 1965. Alla luce dell'ultimo disco di brani autografi, Rough and Rowdy Ways, 39esimo lavoro in studio del 2020, possiamo affermare che ancora oggi a quasi 80 anni di vita e 59 di carriera discografica, Dylan continua a stupire, sorprendere e dividere il pubblico e la critica. Non sarà il più grande cantante della storia forse, ma la sua stella è certamente quella più sfavillante e duratura di tutti i tempi. 

Dario Twist of Fate