domenica 7 luglio 2024

Down in the Groove: commenti impopolari dylaniani

 


Commenti impopolari Dylaniani - Down in the Groove (1988)

Scrive Joel Selvin, critico musicale del San Francisco Chronicle: “Bob Dylan ha fatto parecchi cattivi dischi. Ora i cattivi dischi sono il frutto del tentativo di realizzare buoni album. Bob Seger e Tom Petty probabilmente non hanno mai fatto dischi cattivi. Ma non hanno realizzato neanche un grandissimo album nella loro longeva attività discografica. Hanno prodotto invece buoni, ottimi dischi. Sul fatto che Knocked Out Loaded possa essere considerato il suo peggior album, ci sarebbe parecchio da discutere. Possiamo però pacificamente riconoscere che si tratti di uno dei sui peggiori 10 lavori in studio. Magari non è il peggiore in assoluto, ma di certo sta a fondo classifica.”

Ho scelto di iniziare questo commento impopolare dedicato a Down in the Groove, facendo un piccolo passo indietro. Personalmente trovo davvero troppo semplice e riduttivo bollare questi dischi (che sono giustamente considerati minori) come se fossero cose di poco conto, nella carriera di un artista importante, unico e geniale come Bob Dylan. Specialmente perché questo specifico disco, pubblicato il 30 maggio 1988, segna in un certo senso la conclusione degli “anni ottanta” per il suo autore. Anni ottanta, tra virgolette, perché a questa definizione attribuiamo la fase più oscura, sottostimata e gestita male, dal cantautore statunitense. Eppure il 1988 per chi conoscerà un minimo la vicenda umana e la carriera professionale di Dylan, mostra una svolta fondamentale, in termini retrospettivi. Il motivo è piuttosto evidente. Appena 8 giorni dopo la pubblicazione di Down in the Groove, (disco di cui parlerò più avanti) il suo autore decide di partire per un nuovo tour. 

Questo è il disco che segna una nuova tappa, fondamentale. Sotto un certo punto di vista la carriera dell’artista deve molto a quello che comprensibilmente è considerato il suo lavoro peggiore. Non sono qui per interpretare l’avvocato del diavolo, dato che nemmeno mi piace questo album, ma gli andrebbe riconosciuta una qualità intrinseca, che forse nemmeno i lavori più incensati della critica possiedono. Rolling Stone, così tanto per cambiare, nel 2007 attribuisce a Down in the Groove la scomoda etichetta di peggior disco di Dylan. Come afferma Alan Light, critico newyorkese, se sei un vero appassionato o uno studioso della carriera di Dylan, questo è il lavoro più ingannevole, ragione per cui è comprensibile trovare i brutti dischi tanto interessanti. Perché ci raccontano qualcosa in più della storia. E dopo aver esaminato quello che viene prima, dopo e durante (in questo caso) anche un album difettoso è ancora importante.

Diciamo che con Dylan è possibile frammentare e unire il corpus discografico, ma resta il fatto che è il totale, la somma delle differenti parti, che diventa interessante rispetto alla specificità dei singoli dischi. Abbiamo già raccontato di quel magnifico e proverbiale colpo di coda che è stato Oh, Mercy, disco prodotto e firmato da Daniel Lanois nel 1989, ma troviamo che in questa occasione sia più interessante e divertente vedere in che modo i cattivi dischi sono cattivi, che cosa hanno rappresentato all’epoca, come vanno giudicati e catalogati adesso. Oltretutto per chi non lo conoscesse, stiamo parlando di un disco che dura appena 30-32 minuti. Che Dylan negli anni ottanta fosse artisticamente apatico è questione di opinioni, ma il fatto che avesse rallentato nel ritmo compositivo è invece un dato di fatto.

Down in the Groove certifica questo aspetto, visto che troviamo nella raccolta di brani solo quattro canzoni autografe, di cui due sono scritte a quattro mani con Robert Hunter. Il paroliere dei Grateful Dead tornerà più avanti a comporre assieme a Dylan Together Through Life, album del 2009. Non solo: uno dei quattro brani autografi è un outtake risalente a Infidels, disco del 1983. Si tratta di Death is not the end, brano che verrà riproposto più avanti da Nick Cave, il quale darà alla canzone una seconda vita e una certa dignità artistica che forse nella versione originale non possiede.

Forse non bisognerebbe limitarsi ad analizzare unicamente i brani autografi, dove comunque troviamo "Silvio", canzone che mette in evidenza un Dylan performer divertito e divertente, che ribadisce una delle sue qualità a molti forse un po' nascosta. Quella rara capacità di essere autore divertente e interprete spigliato e agile. Già l’agilità considerata unicamente come qualità e virtù, aspetto secondario e poco valutato per un autore che in passato aveva composto brani epici e monumentali come Desolation Row, Lily, Rosemary and the Jack of Hearts o Sad Eyed Lady of the Lowlands. Ho scelto proprio queste tre canzoni, tra le tante, perché sommando la durata si arriva a trentuno minuti. La stessa durata di questo trascurabile Down in the Groove. Album che contiene appunto quattro brani autografi, tra cui la terribile Ugliest Girl in the World, senza dubbio la peggiore canzone scritta dal cantautore.

Scrive Calvino nelle sue Lezioni americane: "La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura, tutte qualità che si accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento ad un altro, a perdere il filo cento volte e ritrovarlo dopo cento giravolte." Dylan, autore di canzoni conosce bene il significato di rapidità e disinvoltura. Sono queste le ragioni per cui la sua penna è sempre occupata, il suo piede sempre svelto, parafrasando Forever Young. "Silvio" ci mostra che il Dylan autore e quello performer godono di buona salute, in questo 1988. Ed è pur vero come il disco mostri un cantautore in evidente difficoltà compositiva. Era dal lontano 1970, anno in cui pubblica Self Portrait, che Dylan non pubblica un disco infarcito di cover, brani tradizionali o composizioni di altri autori. Eppure qualcosa si smuove. Perché sotto il nome di Traveling Wilburys, pubblica assieme a George Harrison, Tom Petty, Roy Orbison e Jeff Lynne, uno dei suoi più grandi successi commerciali del periodo. Un altro colpo di coda, nel quale spiccano brani come Tweeter and the Monkey Man, Congratulations e Dirty World. Così quella che potrebbe risultare l’ennesima parentesi, di fatto getterà le basi per un nuovo, ennesimo ritorno, in grande stile. Archiviati questi goffi tentativi di collaborazioni con Grateful Dead, Tom Petty, Stones e addirittura con membri dei Sex Pistols, (nel brano Sally Sue Brown, figura nei crediti il chitarrista Steve Jones) Dylan torna ancora una volta a casa.

Attingendo dalla migliore vena compositiva, darà alle stampe un disco maturo, triste e concentrato come Oh, Mercy. Perché la festa degli anni ottanta volge al termine. Inizia una nuova decade dove il Political World avrà ancora bisogno dei versi di Bob Dylan.

In soldoni

La rinascita artistica di Dylan passa attraverso dischi di transizione come Down in the Groove, Under the Red Sky e Knocked Out Loaded. Chi non lo comprende, e si aggrappa a Oh Mercy, Time Out of Mind o a Infidels stesso, può anche smettere di sforzarsi di capire, analizzare e definirsi dylaniano, perché alla fine della fiera non lo è fino in fondo. Sarà anche un motto situazionista, ma ne sono fortemente persuaso oggi come oggi.


SITUAZIONISMO DYLANIANO

mercoledì 3 luglio 2024

Empire Burlesque: commenti impopolari dylaniani


Qualcuno pensa che Empire Burlesque sia il disco l'album più sottovalutato di Dylan, io non so se questo è vero, ma di certo è uno dei più fraintesi, al pari di cose come Self Portrait, Street-Legal e Saved. Per ritrovare un disco contestato, a questi livelli, bisognerà attendere l'epoca di "Love and Theft". Diciamo che dal dopo Blood on the Tracks e Desire, dischi dove Dylan è riuscito a intercettare nuovamente i favori della critica, qualcosa è andato per il verso sbagliato. Infatti sia la critica che certo pubblico, non ha reagito in maniera positiva alla cosiddetta svolta "black" che il Nostro introduce con il sound sporco, torrenziale di certi passaggi contenuti in Street-Legal e in misura maggiore con il trittico gospel di Slow Train Coming, Saved e Shot of Love. Il furore gospel si attenua, fino a placarsi quasi, con Infidels, dove però Dylan recupera il suono e la sezione ritmica giamaicana, forse anche del suo veleggiare per il mare dei Caraibi. C'è ancora qualcosa di gospel e di black nella scrittura di questo Empire Burlesque. 

Un disco che si apre con passo audace, sbarazzino con l'apparentemente frivola Tight Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love), uno dei capitoli più riusciti di questo disco pubblicato nel 1985. Sono trascorsi oggi quasi 40 anni, tempo sufficiente a fornirci una chiave di lettura consona al fine di collocare il disco dove realmente merita. Si tratta appunto di un momento chiave per la carriera di Dylan. 

È vero che l'album non ha ottenuto il successo sperato e desiderato, ma in termini retrospettivi, ci mostra un artista vivo, consapevole e capace del suo potenziale, molto più che come avverrà con dischi più celebrati, incensati dalla critica, a partire dai due prodotti da Daniel Lanois. Sulla qualità delle canzoni, nessun critico oggi può dirsi convinto che si tratti di materiale scadente, il problema semmai sta nel suono, negli arrangiamenti, che tutti o quasi etichettano come "anni ottanta", "alla moda", come se Dylan stesse inseguendo il successo di colleghi più giovani e più al passo, capaci di scalare le classifiche di vendita. 

A questo malinteso contribuisce l'apparizione al singolo spot We Are the World. Francamente trovo che quello sia stato uno degli scivoloni più clamorosi di Dylan, al pari della partecipazione al concerto di Bologna per Giovanni Paolo II. 

Tuttavia ascoltando oggi il disco del 1985, senza grandi aspettative, ci ritroviamo davanti a un lavoro coeso, con tante idee e capace di spaziare in modo insolito per quanto riguarda suono, arrangiamento e produzione. Forse è proprio questo il limite dell'album. 

Suona poco spontaneo e troppo costruito, rispetto agli standard di Dylan e di certo non gode del momento migliore, in termini di scrittura da parte del Nostro. Eppure ci sono squarci di luce, momenti in cui la creatività e l'intuito dominano e prendono il sopravvento rispetto al controllo e alla disciplina. Ne vengono fuori episodi come il già citato Tight Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love), Emotionally Yours, la solitaria e conclusiva Dark Eyes, la nostalgica e bellissima I'll Remember You, l'apocalittica e ispirata When the Night Comes Falling from the Sky, brano che richiama al contempo All Along the Watchtower e la fase gospel di Saved e Slow Train. Il sound del sintetizzatore è a tratti contraddittorio, ma rende la canzone una miscela sfuggente e intrigante. I testi sono potenti, ispirati, nonostante la critica dell'epoca abbia sostenuto il contrario. 

“Something’s burning, baby” ha un sound cupo, maestoso, da marcia funebre, che mostra un Dylan davvero insolito. Una canzone eccezionale. E poi c’è l’ultima contraddizione dell’album: “Dark Eyes”, completamente acustica, un vero capolavoro. Un brano ipnotico, trascinante e pungente in cui Dylan suona accordi dissonanti, calanti e ci regala un’interpretazione degna del miglior Bob Dylan di sempre. 

Non diremo che si tratta di un capolavoro o qualcosa del genere, ma quantomeno Empire Burlesque, 23esimo disco in studio è tra i dischi maggiormente fraintesi e meno analizzati del prodigioso catalogo dell'artista statunitense.


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