mercoledì 26 novembre 2025

Ascoltando John Wesley Harding


Ascoltando John Wesley Harding

John Wesley Harding, pubblicato alla fine del 1967, è uno degli album più enigmatici, rigorosi e silenziosamente rivoluzionari della discografia di Bob Dylan. Apparso in un momento di saturazione sonora — tra psichedelia dilagante, produzioni barocche e pop orchestrale — il disco compie una scelta controcorrente: si ritrae dal clamore, rifiuta il colore acceso del decennio e propone un suono scarno, severo, quasi monastico. È un’opera che non eleva la voce ma la concentra, che non cerca di stupire ma di rivelare. Questo gesto di sottrazione è forse la sua più radicale affermazione artistica.

Dopo l’incidente motociclistico del 1966, vero o presunto che fosse, Dylan riappare con un disco che sembra provenire da un altro secolo. Il tono è biblico, l’ambientazione è da West frontiera interiore, e le narrazioni — piene di ambiguità morali, figure archetipiche e parabole — inaugurano una fase nuova della sua scrittura: più asciutta, più concentrata, più criptica. L’album si colloca così in un territorio tutto suo, distante dal folk elettrico della trilogia precedente ma altrettanto decisivo. È un’opera che non segue il suo tempo: lo trascende.

Le canzoni che lo compongono sembrano capitoli di un codice etico immaginario. In “I Dreamed I Saw St. Augustine”, Dylan invoca la figura di un santo come simbolo di martirio, redenzione e smarrimento; il brano, con la sua delicatezza austera, diventa uno dei suoi nuovi classici, una preghiera laica che parla di colpa, responsabilità e ricerca di senso. In “All Along the Watchtower”, destinata a entrare nel canone grazie anche alla celebre versione elettrica di Jimi Hendrix, Dylan costruisce una parabola di appena dodici versi che contiene al suo interno un intero universo morale: un dialogo enigmatico tra un Joker e un Thief che sembra imprimere su disco l’ansia metafisica della modernità. E poi c’è “The Wicked Messenger”, folgorante nella sua brevità: un racconto profetico che rievoca la tradizione dei messaggeri biblici, sospesi tra rivelazione e punizione, e che ancora oggi vibra di una tensione antica e necessaria.

Il disco vive però anche di brani più levigati e meditativi, dove la voce di Dylan è misurata, quasi trattenuta, come se stesse raccontando un sapere che non può essere gridato. “As I Went Out One Morning” introduce un’atmosfera da ballata medievale, con un narratore che vaga in un territorio simbolico popolato da figure allegoriche. “I Am a Lonesome Hobo”, con la sua morale severa e la sua durezza senza rancore, sembra provenire dalla tradizione dei canti dei lavoratori itineranti ma filtrata dalla sensibilità di un poeta moderno. “Down Along the Cove” e “I’ll Be Your Baby Tonight” chiudono l’album con una svolta tonale sorprendente: un ritorno al country primordiale, caldo, quasi casalingo, un gesto di disarmo che mostra come Dylan sappia mutare pelle senza perdere profondità.

Anche musicalmente John Wesley Harding compie un atto di sottrazione. Le registrazioni sono essenziali: chitarra acustica o pianoforte, basso, batteria, e l’organo di Al Kooper usato con discrezione ascetica. Non c’è enfasi, non c’è virtuosismo. È un disco che suona come se fosse stato inciso in una stanza appena illuminata, senza nessuna distanza tra voce e ascoltatore. Questa scelta conferisce alle canzoni un’aura sospesa, quasi rituale, come se fossero state rinvenute più che scritte. L’intero impianto musicale sembra costruito per far emergere il testo, e i testi sembrano scritti per essere ascoltati nella loro nudità.

L’austerità del disco non significa povertà: significa concentrazione. Ogni parola pesa, ogni accordo sostiene un significato, ogni pausa lascia emergere un’ombra. John Wesley Harding è un disco che non offre soluzioni, che si pone come un libro antico senza spiegazioni, in cui bene e male non sono categorie nette ma forze in perenne attrito. È un album di frontiera nel senso più profondo: non perché parli del West, ma perché esplora il confine tra morale e destino, tra individuo e responsabilità, tra potere e fragilità.

Nel panorama degli anni Sessanta, dove la musica cercava spesso l’esplosione sensoriale o la provocazione esplicita, Dylan sceglie il silenzio come strumento di rottura. Il suo ritorno alla semplicità disorienta e affascina, e gli permette di costruire almeno due o tre nuovi classici assoluti. Ma soprattutto costruisce un’opera che non invecchia, perché non appartiene a un’epoca ma a una dimensione narrativa e simbolica eterna. John Wesley Harding resta un capolavoro proprio per la sua ambiguità: non si offre, non si concede, ma continua a interrogare chi lo ascolta. È un disco che sembra fatto di terra, legno e polvere, ma che parla direttamente all’essenza più nascosta dell’esperienza umana. In questo risiede il suo mistero e la sua grandezza.

C’è un aspetto ulteriore di John Wesley Harding che merita una riflessione più profonda, perché è qui che il disco rivela la sua natura più insidiosa, quasi clandestina. Se gli album precedenti di Dylan avevano trasformato la quotidianità in epica moderna, questo fa l’operazione opposta: prende simboli epici, religiosi, mitologici, e li riporta a una condizione terrena, vulnerabile, imperfetta. Non c’è più il “visionario” degli anni elettrici né il cantastorie politico; c’è un autore che sembra voler dissezionare il concetto stesso di autorità — spirituale, morale, narrativa — e mostrarne le crepe.

Molti brani dell’album, infatti, sembrano muoversi attorno a un nucleo tematico comune: la responsabilità morale. Non una responsabilità predicata, bensì quella, più scomoda, che nasce dal contrasto tra l’individuo e il ruolo che gli altri gli attribuiscono. In questo senso John Wesley Harding è un disco popolato da personaggi che si trovano intrappolati tra ciò che sono e ciò che dovrebbero essere. L’eroe del titolo è descritto con mezze informazioni, mai davvero spiegato; St. Augustine appare per essere rimpianto; il Joker e il Thief parlano come due coscienze speculari; il Messaggero malvagio porta una verità che nessuno vuole ascoltare; l’Hobo solitario ammonisce dal fondo della propria sconfitta; la donna misteriosa di “As I Went Out One Morning” incarna la tentazione, ma anche l’innocenza ferita.

Dylan costruisce un intero teatro morale dove ogni figura è un simbolo, ma un simbolo incrinato. Non c’è certezza, non c’è didascalia, non c’è un maestro e non c’è un discepolo. E questa ambiguità non è un espediente stilistico: è una posizione filosofica. Il mondo di John Wesley Harding è un mondo dove la colpa non ha un nome chiaro, dove la salvezza non è garantita, dove persino la rivelazione è sospesa tra l’ascoltatore e il silenzio che il disco sembra custodire come fosse una lama sottilissima.

È un album che parla di giudizio senza giudicare, di fede senza proclamare, di caduta senza retorica. E soprattutto parla di un’umanità che appare costantemente in bilico tra redenzione e smarrimento. Le parabole di Dylan non offrono mai un punto di arrivo: sono frecce che puntano verso un altrove metafisico che resta volutamente oscuro. Quando in “I Dreamed I Saw St. Augustine” il narratore si sveglia pieno di vergogna, non sappiamo quale sia la colpa; quando in “The Wicked Messenger” l’uomo viene rimproverato dal re, non conosciamo l’ambasciata; quando in “The Ballad of Frankie Lee and Judas Priest” il protagonista si perde nel deserto morale della tentazione, la morale stessa suona come un paradosso.

Ed è forse questo il punto: John Wesley Harding è un disco che non rivela il suo significato, ma lo moltiplica. Ogni ascolto aggiunge un livello, come se Dylan avesse creato un codice narrativo capace di espandersi con il tempo. E il tempo gli ha dato ragione: quello che negli anni Sessanta sembrava un album “minore”, quasi dimesso, oggi appare come un pilastro della sua opera matura, uno di quei lavori che mantengono intatta la propria carica di mistero anche dopo decenni di analisi.

È un disco che sembra più antico del suo autore e più moderno della sua epoca. Un’opera che vive di simboli ma rifiuta l’allegoria esplicita, che parla di giustizia ma non offre un tribunale, che evoca la grazia ma non garantisce un paradiso. In questo spazio intermedio — duro, polveroso, spirituale, umano — si colloca la sua forza.

E se davvero ci sono “due o tre nuovi classici dylaniani” al suo interno, è perché John Wesley Harding non è solo una raccolta di canzoni: è un sistema di pensiero, una topografia morale del disagio moderno, un luogo dove le domande non vengono sciolte, ma custodite. Un disco che non chiede di essere capito fino in fondo, ma ascoltato come si ascolta un oracolo: con rispetto, con sospetto e con quella strana sensazione che, da qualche parte dietro le parole, ci sia una verità che riguarda anche noi.

Testo a cura di Dario Greco


BOB DYLAN STUDIO ALBUM REVIEW

1 commento:

  1. Buonasera, bel articolo! Mi fa da ulteriore guida all'album che ho comprato poco e che sto ascoltando. Un album affascinante,suggestivo e talvolta enigmatico.

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