Secondo capitolo gospel di Bob Dylan
Nessuno può salvare Dylan da sé stesso, nemmeno Dylan stesso. Il problema è che il cantautore americano non ha nessuna intenzione di fare sconti a nessuno, quando entra in studio per registrare il suo ventesimo disco. SAVED è per molti versi il sequel di Slow Train Coming che lo aveva preceduto meno di un anno prima. Eppure nonostante la produzione di Barry Beckett e Jerry Wexler e le registrazioni realizzate nuovamente al Muscle Shoals Sound Studio, le differenze sono nette fin dalla prima traccia. Al disco collaborano Tim Drummond, Jim Keltner e Fred Tackett, motivo per cui il disco ha gran bel tiro, che gli permette di esplorare, se possibile in maniera più radicale e profonda, l'ossessione dylaniana per il gospel. Nella migliore delle ipotesi si tratta di un solido e nervoso blues rock, con alcuni degli episodi musicalmente più vibranti di tutto il repertorio. Il problema, se si problema si può parlare, è derivato da una certa allegoria e da testi che sono inequivocabilmente in debito verso il Nuovo Testamento. Bob Dylan è entrato in una fase della sua carriera in cui ha smesso di chiedersi cosa possa volere il pubblico. Pensa a sé stesso e tira dritto. Col senno di poi questo è uno di quei dischi che poteva restare nel cassetto.
Eppure ci sono aspetti che lo rendono unico, meritevole di fare da contraltare alla sua produzione in studio più celebrata e iconica. Del resto appena dopo Desire il Nostro aveva iniziato a produrre lavori che la critica faticava a comprendere e a mettere a fuoco con analisi obiettive ed equilibrate. Sono passati appena cinque anni dal suo ultimo vero capolavoro: quel Blood on the Tracks concepito come un'autentica opera d'arte. Un lavoro coeso, vibrante e toccante, come pochi. Saved in effetti pare sia stato realizzato da un artista totalmente differente. Qui ci troviamo di fronte a un musicista che scrive in modo nuovo, diverso. Quello del 1975 usava metafore e linguaggio da poeta stilnovista ispirato da Shakespeare e da altri campioni della letteratura mondiale come il russo Cechov; l’autore di Saved parla una lingua più piana, forse più banale, almeno rispetto allo standard e al metro precedente. Eppure oggi a distanza di 40 anni abbiamo imparato ad ascoltare i suoi diversi stili, che includono tanto le fisime quanto le rivelazioni, ma per il mondo che viaggiava sui meridiani e le prospettive del 1980 deve essere stato uno shock ascoltare questo disco da invasato.
Un fanatico religioso, dirà la critica, nonostante fosse poco chiaro se Dylan stesse facendo sul serio o no. Di certo stava facendo sul serio con i suoi spettacoli dal vivo, visto che raramente ha suonato dal vivo con questa intensità, con il furore e il fuoco sacro del rock che divampava. Attraverso le testimonianze live ufficiali oggi possiamo collocare questo Saved in una cornice molto più precisa e consona. Abbiamo visto dove ha portato il viaggio degli anni ottanta, il cammino senza tregua (il Never Ending Tour) degli anni Novanta, dove Dylan sembrava davvero un salmone infaticabile, capace com' era di andare contro ogni stile, formula e soluzione che in quel momento sembrava essere paradigma e prerogativa di successo. Dylan ha fatto grande musica in ogni decade. Questo oggi è un fatto con cui certa critica e certi giornalisti hanno imparato a fare i conti. Perché cadono i miti, cadono i poster della nostra gioventù, ma il buon vecchio Bob resta saldamente in sella.
Forse era lui quello che stava cercando salvezza. È rimasto aggrappato al suo credo, cambiando naturalmente, ma con una chitarra a tracolla e un’armonica ferita. Con una penna a volte gentile, a volte di fuoco e di furore. Oggi possiamo sorridere per tutte le recensioni che avevano dato per finito e condannato all’oblio un autore che non aveva ancora compiuto 40 anni. Certo, bisogna dire che all’epoca un musicista a quell’età era considerato sul viale del tramonto, per quanto concerne la musica popolare. Dylan però ha saputo tenere botta, prima di tutto alle sue convinzioni, poi al pubblico e alla critica. Dalla sua ha avuto uno zoccolo duro di seguaci che ha sempre sostenuto l’artista, fregandosene perfino dei dischi brutti, inutili o banali che avrebbe prodotto durante una fase della sua carriera musicale.
Tuttavia Saved non rientra in questa categoria: qui ci sono grandi canzoni, ottime idee musicali e una band che suona come se avesse alle spalle il baratro della dannazione eterna. Una canzone su tutte? "What Can I Do for You?", naturalmente, dove l'assolo finale di armonica è redenzione pura.
Oggi un disco del genere verrebbe accolto come un capolavoro, di certo nessuno si sarebbe scandalizzato per le idee estreme del cantante, men che meno per chi è in sella da più di 30-40-50 anni. C’è gente che cambia atteggiamento, stile musicale, ideologia e religione. Oggi un disco come Saved potrebbe perfino passare inosservato, ammesso che ci siano artisti pronti a rischiare e a produrre musica come questa. Ok, Nick Cave e pochi altri. Così mentre i miti mutano pelle per sopravvivere a loro stessi, Dylan è ancora su quel palco diretto verso un altro show. Avrà tradito il pubblico e di sicuro ha più volte silenziato le critiche e la stampa, ma questo non ha alcuna importanza. Quello che conta adesso come allora è la musica. Saved sotto questo punto di vista raggiunge il suo obiettivo, vincendo a mani basse la sfida e la posta in gioco.
Dario Greco
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