domenica 27 ottobre 2024

Infidels - Nessuno canta come Dylan

Nessuno canta il blues come Dylan 

All'inizio degli anni Ottanta, Dylan si ritrova per la prima volta nella posizione di non essere né un prodotto commerciale alla moda né un artista di tendenza secondo la critica. Le mode dominanti dei tardi Settanta e dei primi Ottanta erano il punk, la new wave, il funk e la disco, generi dai quali Dylan era molto lontano, nonostante le sue contaminazioni in chiave di soul music, proprio di quest'epoca. Il suo ultimo successo commerciale risaliva al 1979, quando Slow Train Coming fu un grande successo, portandogli in dote il suo primo Grammy per merito del singolo Gotta Serve Somebody. Nonostante le tematiche religiose e una musica notevolmente in debito nei confronti del gospel, Dylan aveva chiuso in attivo un decennio caratterizzato da alcuni alti, ma parecchi bassi. Non ci fu mai un annuncio ufficiale o qualcosa di simile, ma Infidels segnò il ritorno per Bob Dylan alla musica laica o quantomeno a materiale privo di riferimenti cristiani espliciti. Va detto che i richiami religiosi non sono mai mancati nei suoi lavori, infatti sarebbero continuati anche in futuro. Comunque questa è un'altra storia, questo è Hemingway!

Infidels è il 22esimo album in studio di Bob Dylan. Viene rilasciato il 27 ottobre 1983 per conto di Columbia Records. Lo avevano preceduto tre lavori definiti dalla critica album "cristiano-evangelici" come Slow Train Coming, Saved e Shot of Love, anche se a onor del vero solo il secondo era stato un disco propriamente estremista nei toni e nelle liriche, dato che già Shot of Love in diversi episodi se ne discosta, musicalmente e a livello testuale. Infidels, tranne per qualche brano poi scartato in fase di editing e di missaggio, rappresenta il ritorno alla cosiddetta musica secolare. È un buon successo, a discapito di critiche circa la scaletta definitiva che lo andrà a comporre. Innegabile lo sforzo di essere attuale e contemporaneo. A tal proposito l'eminente Paul Zollo dirà nel tempo: "Infidels non ha perso nulla del suo potere, a differenza di tanti album del passato. Forse ha il suono migliore tra i suoi lavori in studio. Il suo genio è profondamente rispecchiato in ciascuno dei brani. Esclusioni a parte, resta uno dei suoi migliori dischi.

Sotto il punto di vista musicale il disco è saldamente nelle mani di Mark Knopfler, nella doppia veste di chitarra solista e di produttore. Fonti molto vicine all’artista dicono che in lizza per questo disco ci fossero David Bowie e Frank Zappa. Venne scelto invece il chitarrista di Glasgow, probabilmente più in linea con il feeling delle canzoni e che già aveva collaborato con Dylan in studio nel 1979. Lo affianca una band di livello eccellente, dove spicca la chitarra dell'ex Stones Mick Taylor, mentre la sezione ritmica è composta da Sly Dunbar e Robbie Shakespeare. Alle tastiere, Alan Clark. 

Infidels è la chiara istantanea di un autore che si esprime con consapevolezza ai massimi livelli, sotto ogni punto di vista: performativo, musicale e testuale. Un performer al massimo, consapevole di avere le carte in regole per tornare. C'è chi sostiene che questo poteva essere il miglior disco dai tempi di Blood on the Tracks se non addirittura superiore. E invece... è un dannato capolavoro!  Basti pensare al fatto che questo lavoro ha ispirato artisti del calibro di Caetano Veloso, Tom Petty, Jimmy LaFave, Built to Spill e Craig Finn i quali nel corso degli anni gli renderanno omaggio riprendendo alcuni dei pezzi migliori di questo lavoro.

Pochi dischi del Dylan post anni sessanta possono contare sulla solidità e la compattezza di questo album. Otto brani, quattro per ogni facciata con pezzi di valore assoluto come Jokerman, Sweetheart Like You, License to Kill e I and I, che da soli valgono già il disco. Ai quattro gioielli vanno poi aggiunti i seguenti brani: Dont' Fall Apart on me Tonight, Union Sundown, Man of Peace e Neighborhood Bully. La critica (per una volta benevola verso questo lavoro) resterà un po' spiazzata facendo spallucce quando Dylan utilizza l'arma dell'ironia venendo il più delle volte frainteso e scambiato per un lamentoso reazionario. Riascoltando oggi alcune canzoni verrebbe da dire che l’autore abbia un atteggiamento da boomer, quando afferma:

Le mie scarpe vengono da Singapore, le mie tovaglie dalla Malesia, la mia cintura con la fibbia dall'Amazzonia. Questa camicia che indosso viene dalle Filippine e la macchina che sto guidando è una Chevrolet fabbricata in Argentina. Questo abito di seta è di Hong Kong, il collare del cane è dell'India e il vaso di fiori è del Pakistan. Tutti i mobili recitano "Made in Brazil". 

Eppure un artista sul viale del tramonto non avrebbe dato alle stampe un disco così compatto, lucido e coerente. E poi, sorpresa delle sorprese, il meglio che aveva scritto (e registrato) non è neppure presente sul disco. Ci sono infatti almeno tre brani che avrebbero reso l'album se possibile più valido e di maggior peso specifico. Blind Willie Mc Tell, Death is Not The End, Lord Protect My Child, Foot of Pride, Someone's Got A Hold Of My Heart, Clean Cut Kid, Tell Me avrebbero costituito l'ossatura per un ottimo doppio album. Un ritorno? Forse, anche se per alcuni fan toccherà attendere ancora qualche anno. E' difficile giudicare in termini negativi un disco che lavora per sottrazione e che rinuncia a pezzi pregiati in nome di compattezza e coerenza in virtù del messaggio che vorrebbe lanciare. Dylan qui è uscito dall'ubriacatura religiosa e ritorna con la voce più credibile, quella del suo glorioso passato. Non più la voce di una generazione, visto che sono cambiate molte cose, ma un lucido visionario, che ha letteralmente superato le fiamme dell'inferno per tornare dai peccatori a raccontare una poco lieta novella. Peccatori? Meglio dire infedeli.

Considerazioni personali su Infidels (e sul brano Blind Willie Mc Tell)

Quanta potenza e quanta rinuncia c'è in questo disco, in questa prova in studio. Non è facile scrivere e argomentare su quello che poteva essere, ma non è stato. Eppure noi qui sappiamo come andranno le cose. Basta avere la volontà di riavvolgere il nastro. Basta acquistare un biglietto e se sei fortunato il tuo numero uscirà. È stato così per noi, è stato un gioco dove non c'erano vincitori e sconfitti, perché questo treno non porta più prostitute e biscazzieri, perché nessuno ha più occhi per vedere e sogni da infilare sotto cuscini improvvisati. C'è un pianoforte e una chitarra che suonano magnificamente e c'è una voce che si staglia. Non sembra bella, ma è urgente e sincera. È la voce di Bob Dylan. Il canto di un menestrello in preda ai deliri di un blues ancestrale e solitario. Infidels è il disco che poteva essere e non è stato. Blind Willie Mc Tell è una riflessione sulla fine dei tempi. Eppure Infidels resta ancora oggi un'idea di viaggio sonoro preciso, puntuale, consapevole che ci consegna una delle migliori canzoni dai tempi di Mr. Tambourine Man, quella splendida, ipnotica, meravigliosa, Jokerman. Una sorta di nuovo alter ego, dove l’autore e il performer trovano adesione e immedesimazione totale, quasi mimetica. Nessuno ora canta il blues come Bob Dylan. Nemmeno Dylan stesso!

Dario Twist of Fate

sabato 26 ottobre 2024

World Gone Wrong & Good as I been to You


Good as I been to You - World Gone Wrong (1992-1993)

Per analizzare in modo strutturato gli album folk e tradizionali pubblicati da Bob Dylan durante i primi anni novanta bisogna fare  prima qualche passo indietro. Per una maggiore comprensione della sua vicenda artistica, della scena musicale turbolenta e fertile, di quel decennio appena iniziato, ma che già aveva mostrato vento di cambiamento. In effetti c'era stato più di uno squillo da parte delle nuove leve musicali e di una generazione che si sarebbe presa con autorevolezza le luci della ribalta. 

Bisogna partire proprio da quel programma televisivo di enorme successo e impatto che fu appunto l'Unplugged, ma anche lo stesso palinsesto di MTV potrebbe aiutarci a compiere una ricognizione efficace e polifonica. Dire che Bob Dylan alla soglia del nuovo millennio era un artista senza più molto da dire è un luogo comune da sfatare con ogni mezzo, legale e illegale. Stiamo parlando di un autore e di un interprete che aveva influenzato almeno una generazione di autori ora maturi e imposti sul mercato discografico, i cui prodotti di grandissima qualità erano destinati a durare nel tempo. Si pensi ad esempio a gente come Tom Petty, che raccolse proprio a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta il testimone, così come lo stesso Bruce Springsteen, Tom Waits, ma anche gli Pearl Jam e in special modo Eddie Vedder, proprio come Bono Vox degli U2. Gli U2 nel 1988 resero omaggio alla musica statunitense che li aveva ispirati, nella loro lunga cavalcata verso il successo planetario. Senza soffermarsi troppo sul singolo artista, band o chitarrista, il lascito di Dylan era evidente e influente. Basti citare un singolo successo dei Guns ‘N’ Roses come la rilettura di Knockin' on Heaven's Door, brano che porta la formazione capitanata da Slash e da Axl Rose ai vertici delle classifiche e dei gradimenti di un pubblico stratificato ed eterogeneo.

Eppure Bob Dylan non veniva certo da un decennio facile e ricco di successi e gratificazioni discografiche. È vero che aveva prodotto e pubblicato durante gli anni ottanta due dei suoi album migliori e di maggior successo come Infidels del 1983 prodotto da Mark Knopfler dei Dire Straits (altra band profondamente ispirata e in debito nei confronti di His Bobness) e soprattutto il più recente successo di Oh, Mercy prodotto stavolta dal mago del suono (U2, Robbie Robertson, Peter Gabriel) Daniel Lanois. Il polistrumentista canadese aveva infatti stravolto e modernizzato gli arrangiamenti delle canzoni di Dylan, aiutandolo e dirigendolo verso una nuova visione di consapevolezza e di brillantezza essenziale del sound. Dylan negli anni ottanta sembrava sempre più perso e arroccato sulle proprie convinzioni. A detta della critica non era altro che un ferro vecchio del rock e del folk. Nessuno acquistava e ascoltava più la sua musica, in un decennio dove il concetto fatalista dell'usa e getta aveva preso il sopravvento. Del resto fu un decennio per niente facile per le vecchie glorie della musica d'autore, come possiamo vedere dando uno sguardo ad artisti come lo stesso Neil Young, Van Morrison e altri. In particolare però Dylan era colpevole di un delitto capitale: aveva pubblicato almeno due album nella seconda metà degli anni ottanta che la critica e il pubblico aveva salutato come i suoi peggiori lavori dai tempi di Self Portrait. Come sempre la storia e il tempo sono galantuomini, ma anche tra il suo zoccolo duro di sostenitori questi dischi non erano affatto piaciuti.

La resurrezione però ancora una volta è dietro l'angolo. Proprio nell'anno peggiore, quello in cui diede alla stampe il fiacco Down in the Groove, dove anche i critici e il pubblico più affezionato salva forse 2-3 canzoni, come la pimpante e allegra "Silvio", Dylan torna alla luce e lo fa con quello che gli riesce meglio da quando si è imposto nei circuiti folk newyorkesi dei primi anni sessanta: torna a esibirsi dal vivo con una certa continuità e autorevolezza. Non che prima fosse fermo, anzi, era reduce da almeno due tour con band che rispondono ai nomi di Tom Petty and the Heartbreakers e dei Grateful Dead di Jerry Garcia. Circola in questo periodo un bel live su Youtube di un Dylan in spolvero che divide il palco con Garcia & Co. Oh, Mercy e in parte Under the Red Sky, il sequel del 1990, bilanciano quindi gli insuccessi di Knocked Out Loaded e di Down in the Groove, ma c'è un problema. E non è affatto un dettaglio da poco. A Dylan, autore tra i più imponenti degli ultimi 25-30 anni mancano ora le canzoni, o meglio i pezzi giusti per restare a galla, vendere qualche disco e continuare a esibirsi in concerti e festival.

A questo punto l'idea appare chiara. Un ritorno alle origini di menestrello e di folksinger. Del resto non era forse lui il Wonder Boy degli anni sessanta, il principe della scena newyorkese che si impose al pubblico e convinse il grande talent scout John Hammond a metterlo sotto contratto con la Columbia Records? Era lui e ogni tanto forse gli piace ricordarselo. Con questi due album che non contengono nessun brano autografo, ma che si avvalgono di nuovi e squillanti arrangiamenti, Bob Dylan torna alle atmosfere pacate e acustiche dei suoi esordi. I dischi forse non sono dei capolavori, ma basta ascoltare anche solo i brani scartati, gli outtakes che verranno pubblicate nel tempo per stabilire le giuste gerarchie su chi sia ancora una volta il principe e il maggior interprete della scena folk e tradizionale Made in Usa. Basta ascoltare il brano Mary and the Soldier contenuta nel Bootleg Series Vol. 8 - Tell Tale Signs per capire chi resta uno degli interpreti più efficaci in termini di Contemporary folk music. Oppure per chi non concepisce e non digerisce i dischi dedicati al Great American Songbook, consiglierei di recuperare la sua versione di You Belong to me, la classica ballata romantica, portata al successo da Ella Fitzgerald, Patti Page e Dean Martin. Il brano eseguito da Bob Dylan e presente nella colonna sonora del film di Oliver Stone è una outtakes di Good as I Beene to You del 1992. Oggi, a distanza di quasi 30 anni, possiamo facilmente affermare come World Gone Wrong e appunto il sopra citato Good as I Beene to You siano qualcosa in più che esercizi di stile o dischi di livello accettabile. Sono una testimonianza di un artista che decide quale strada seguire, contro i propri interessi commerciali, contro quello che le radio e il sistema discografico imponeva. C'è chi in quegli anni si era permesso il lusso di "consigliare" a Dylan di ritirarsi. Bene, a distanza di 29 anni Dylan continua a fare la sua musica per il suo pubblico, senza compromessi e senza bisogno di chiedere permesso e scusa a nessuno.

A questo punto vi pongo la domanda che Soffia nel Web: chi era il vero artista grunge negli anni ‘90?


Dario Twist of Fate


lunedì 21 ottobre 2024

New Morning (andammo a vedere il Drugo)

- Eh, dimmi, come ti vanno le cose? 
- Qualche strike e qualche palla pesa.
- Come ti capisco!

- Ah. Grazie, Gary. Beh tu stammi bene. Torno alla partita.
- Certo. Prendila come viene.
- Sì. sì. 
- So che lo farai.
- Sicuro, Drugo sa aspettare.

Secondo un modo di pensare convenzionale, è più semplice scrivere di argomenti che ci appartengono e che ci stanno maggiormente a cuore. Personalmente ritengo sia un luogo comune da sfatare. New Morning di Bob Dylan è uno dei motivi per cui mi sono avvicinato a questo autore. Era il 1998 e al cinema usciva il film dei fratelli Coen, Il grande Lebowski. Io avevo diciannove anni e mi trovato a Roma quando la pellicola venne distribuita in Italia. Purtroppo tra le città dove il film uscì non c'era Cosenza, quindi dovetti aspettare che venisse riproposto per una rassegna di cinema d'essai in seconda visione.

Ero già un discreto appassionato di film e tra i miei preferiti c'erano proprio i Coen assieme a Kubrick, Scorsese, Lynch, Polanski e Quentin Tarantino. Dei Coen avevo amato e mandato a memoria i vari Arizona Junior, Barton Fink, Blood Simple e soprattutto Fargo. Non sapevo niente di questo nuovo film, ma appena vidi il suo manifesto intuii che aveva del potenziale per essere qualcosa di diverso, nuovo, divertente e stimolante, almeno per uno come me. Di Bob Dylan sapevo che era un grande autore di testi e di canzoni, ma non lo ascoltavo ancora, o meglio, conoscevo quei 15-20 pezzi che per cultura personale e distratta, mi era capitato di beccare, in film, nei passaggi radio o in trasmissioni tv a tema musicale tipo Help di Red Ronnie. Ok, sto divagando. Flashforward: ho visto e rivisto Il Grande Lebowski e grazie a una VHS mando a memoria il brano che accompagna i titoli di testa del film. Si tratta di The Man in Me. Un pezzo "minore" di Dylan, solo che qui non sembra il cantante che aveva imparato a distinguere. È un cantante diverso, con un piglio allegro, quasi ironico. Da qui in poi gradualmente cado nel vortice e nel pentolone come un gallo da combattimento in preda al folk-blues. Grazie a un amico comune recupero un po' di LP e mi metto sul mio giradischi Philips che in quel momento fa ancora il suo sporco lavoro. Ascolto quindi dischi come Infidels, Nashville Skyline, Another Side of Bob Dylan e soprattutto New Morning. BOOM! Mi piacevano già alcune cose come Eric Clapton, Sting, R.E.M., Neil Young e aveva iniziato ad appassionarmi a Bruce Springsteen grazie a dischi come The River e Born to Run. Però l'effetto che mi fece un disco sulla carta tranquillo e "minore" come New Morning di Bob Dylan, pubblicato il 21 ottobre del 1970, me lo fecero poche cose. Da lì fu una ricorsa matta per reperire tutti i dischi, le musicassette e i cd possibili di Dylan. Ricordo che mio fratello aveva registrato una trasmissione su Rai 3, Schegge, dove c'era una porzione di uno speciale tv del 1976, HARD RAIN. Un vero battesimo del fuoco sacro dylaniano per me.

New Morning non avrà il passo dei capolavori anni sessanta e non sarà un disco che cambiò la storia della musica, ma cambiò la mia vita, ed è per questo che ve ne parlo con sentimento e a cuore aperto che sgorga emozione, ricordo, rabbia e tensione. Prima di tutto non ci sono brani troppo lunghi. Quindi se uno è leggermente curioso se lo può ascoltare e riascoltare anche 3-4 volte al giorno. Questo è un approccio che mi direte si può applicare anche ad altri dischi, non solo di Dylan, ma di tutto il pop minimale fini sessanta e inizio settanta. Purtroppo però non sono un fan di Cat Stevens o di James Taylor e scoprirò Elton John solo diverso tempo dopo. Conoscevo già Joe Cocker e quando recuperai alcune sue cose mi fece piacere ascoltare la sua versione un po' reggae di The Man in Me. Oggi so che questo disco nasce da diversi approcci, tra cui la composizione di una colonna sonora teatrale per un pièce di Archibald MacLeisch dal titolo Scratch. Leggo con piacere uno dei capitoli più ispirati di Chronicles - Volume 1, dedicato proprio a questo disco di transizione.

Tuttavia per essere un album meditativo e di transizione, New Morning ti colpisce e ti abbaglia. Non ci sono riempitivi, le canzoni sono ben eseguite e arrangiate. C'è Al Kooper assieme a uno stuolo di musicisti e sessionmen di primordine e per l'ultima volta il suo autore viene prodotto dal capace e tranquillo Bob Johnston. Si torna a New York negli studi B ed E della Columbia con un pugno di brani coerenti. Non ci sono le stravaganze hipster degli anni sessanta, ma troviamo comunque il bell'affresco beat di If dogs run free, una canzone del repertorio maggiore come If Not for You, che vanta alcune cover illustri come quella di George Harrison e di Bryan Ferry, oltre la title track, la già citata The Man in me e un nucleo di canzoni che vanno ad arricchire il songbook dylaniano dopo le prove incerte (a livello di critica) di Nashville Skyline e soprattutto di Self Portrait. Personalmente sono trascorsi più di vent'anni da quando la puntina del mio giradischi si poggiò su New Morning, ma lo ascolto come allora e ne traggo piacere. Durante gli anni il valore di questi dischi di transizione è notevolmente aumentato, grazie a cover, antologie e all'uscita del Bootleg Series Vo. 10 Another Self Portrait. Di questo disco ci sono canzoni che porto nel cuore: Went to See the Gypsy, che si ipotizza fosse un omaggio a Elvis, e poi ancora, Three Angels e Sign on the Window. Ricordo di aver assistito al soundcheck del cantautore Mimmo Locasciulli, dylaniano doc, il quale per scaldarsi e per provare microfono e voce eseguiva all'epoca questo pezzo. Ecco, questi sono quei ricordi marchiati a fuoco nella memoria. Tatuaggi sonori che il tempo non cancellerà mai, finché ci sarà spazio per raccontare la poetica di un disco brillante e solare come New Morning di Bob Dylan. Non un capolavoro, ma qualcosa di più di un amuleto portafortuna per il sottoscritto.

Dario Twist of Fate  


Se ti è piaciuto questo post ti invitiamo a visitare il Lunario Musicale del Lockdown:

domenica 22 settembre 2024

Bob Dylan/ The Band - Before the Flood

Dylan torna in tour per restarci (On the Road Again)


Troppo presto parlare di Neverending Tour, ma il Dylan della seconda parte degli anni Settanta, mostra subito alcune delle sue carte migliori, con una lunga serie di concerti. Si parte forte con i sodali The Band e le cose si fanno subito serie, soprattutto si nota la distanza rispetto al tour di otto anni prima, sempre con la medesima formazione. A dire il vero questa volta partecipa anche Levon Helm, che nel 1966 era stato sostituito prima da Bobby Gregg, poi da Mickey Jones. La differenza più sostanziale è però un'altra. Stavolta The Band non partecipa alla tournée come semplice gruppo di musicisti d'accompagnamento del solista. Questa volta The Band dividono a tutti gli effetti il cartellone con Dylan, eseguendo un loro set, dove suonano i loro grandi successi. 

Il concerto infatti inizia con Dylan & The Band, prosegue poi con i canadesi senza Dylan, poi tocca a quest'ultimo fare un set da solo con chitarra e voce, poi torna The Band per concludere con Dylan e il gruppo che eseguono insieme pezzi del calibro di All Along The Watchtower, Highway 61 Revisited e Like a Rolling Stone. Viene pubblicato un disco doppio a testimonianza di queste esibizioni, con il titolo Before the Flood. I dischi includono esecuzioni realizzate a New York e a Los Angeles tra il 30 gennaio e il 14 febbraio. Durante questo tour Robbie Robertson, come ricordato nel suo memoriale Testimony soffrirà di un forte attacco di panico e avrà un po' di problemi a gestire la seconda trance del tour. Naturalmente nelle esibizioni non c'è alcuna traccia di tutto questo. Il gruppo gira senza intoppo, anzi forse si avverte, rispetto alle esecuzioni del 1966 una sorta di distacco e freddezza, quasi come se venisse azionato il pilota automatico. Probabilmente all'epoca questo disco deluse le elevate aspettative da parte della critica e del pubblico, ma a distanza di quasi 50 anni è una delle documentazioni più fedeli e attendibili della potenza di fuoco di Bob Dylan and The Band in concerto.

Non si tratta di esprimere punti di vista, ma bensì di certificare la qualità di questa formazione in versione live. Un reperto storico unico, che a distanza di anni suona ancora come una vera e propria macchina da guerra. Il merito è di un Dylan la cui resa vocale è tagliere, dura e potente nonché di una band che sapeva suonare ogni tipo di musica possibile. 

Duttile nell'accompagnamento del menestrello, ma in questa occasione con un proprio repertorio degno di nota e di attenzione. Un disco, Before The Flood, da rivalutare e ascoltare, con il punto di vista dello scenario attuale, dove i grandi vecchi del rock suonano ancora dal vivo, ma senza avere più questo tipo di resa ed elasticità. Nonostante ciò, il live non è considerato dai più come la migliore registrazione dal vivo del repertorio di Dylan. Chi vi scrive è d'accordo in parte con questo punto di vista. Detto questo si tratta di un live da recuperare e riascoltare con la giusta attenzione.


Il ritorno di Bob Dylan sulla strada (Pt. 1)

domenica 7 luglio 2024

Down in the Groove: commenti impopolari dylaniani

 


Commenti impopolari Dylaniani - Down in the Groove (1988)

Scrive Joel Selvin, critico musicale del San Francisco Chronicle: “Bob Dylan ha fatto parecchi cattivi dischi. Ora i cattivi dischi sono il frutto del tentativo di realizzare buoni album. Bob Seger e Tom Petty probabilmente non hanno mai fatto dischi cattivi. Ma non hanno realizzato neanche un grandissimo album nella loro longeva attività discografica. Hanno prodotto invece buoni, ottimi dischi. Sul fatto che Knocked Out Loaded possa essere considerato il suo peggior album, ci sarebbe parecchio da discutere. Possiamo però pacificamente riconoscere che si tratti di uno dei sui peggiori 10 lavori in studio. Magari non è il peggiore in assoluto, ma di certo sta a fondo classifica.”

Ho scelto di iniziare questo commento impopolare dedicato a Down in the Groove, facendo un piccolo passo indietro. Personalmente trovo davvero troppo semplice e riduttivo bollare questi dischi (che sono giustamente considerati minori) come se fossero cose di poco conto, nella carriera di un artista importante, unico e geniale come Bob Dylan. Specialmente perché questo specifico disco, pubblicato il 30 maggio 1988, segna in un certo senso la conclusione degli “anni ottanta” per il suo autore. Anni ottanta, tra virgolette, perché a questa definizione attribuiamo la fase più oscura, sottostimata e gestita male, dal cantautore statunitense. Eppure il 1988 per chi conoscerà un minimo la vicenda umana e la carriera professionale di Dylan, mostra una svolta fondamentale, in termini retrospettivi. Il motivo è piuttosto evidente. Appena 8 giorni dopo la pubblicazione di Down in the Groove, (disco di cui parlerò più avanti) il suo autore decide di partire per un nuovo tour. 

Questo è il disco che segna una nuova tappa, fondamentale. Sotto un certo punto di vista la carriera dell’artista deve molto a quello che comprensibilmente è considerato il suo lavoro peggiore. Non sono qui per interpretare l’avvocato del diavolo, dato che nemmeno mi piace questo album, ma gli andrebbe riconosciuta una qualità intrinseca, che forse nemmeno i lavori più incensati della critica possiedono. Rolling Stone, così tanto per cambiare, nel 2007 attribuisce a Down in the Groove la scomoda etichetta di peggior disco di Dylan. Come afferma Alan Light, critico newyorkese, se sei un vero appassionato o uno studioso della carriera di Dylan, questo è il lavoro più ingannevole, ragione per cui è comprensibile trovare i brutti dischi tanto interessanti. Perché ci raccontano qualcosa in più della storia. E dopo aver esaminato quello che viene prima, dopo e durante (in questo caso) anche un album difettoso è ancora importante.

Diciamo che con Dylan è possibile frammentare e unire il corpus discografico, ma resta il fatto che è il totale, la somma delle differenti parti, che diventa interessante rispetto alla specificità dei singoli dischi. Abbiamo già raccontato di quel magnifico e proverbiale colpo di coda che è stato Oh, Mercy, disco prodotto e firmato da Daniel Lanois nel 1989, ma troviamo che in questa occasione sia più interessante e divertente vedere in che modo i cattivi dischi sono cattivi, che cosa hanno rappresentato all’epoca, come vanno giudicati e catalogati adesso. Oltretutto per chi non lo conoscesse, stiamo parlando di un disco che dura appena 30-32 minuti. Che Dylan negli anni ottanta fosse artisticamente apatico è questione di opinioni, ma il fatto che avesse rallentato nel ritmo compositivo è invece un dato di fatto.

Down in the Groove certifica questo aspetto, visto che troviamo nella raccolta di brani solo quattro canzoni autografe, di cui due sono scritte a quattro mani con Robert Hunter. Il paroliere dei Grateful Dead tornerà più avanti a comporre assieme a Dylan Together Through Life, album del 2009. Non solo: uno dei quattro brani autografi è un outtake risalente a Infidels, disco del 1983. Si tratta di Death is not the end, brano che verrà riproposto più avanti da Nick Cave, il quale darà alla canzone una seconda vita e una certa dignità artistica che forse nella versione originale non possiede.

Forse non bisognerebbe limitarsi ad analizzare unicamente i brani autografi, dove comunque troviamo "Silvio", canzone che mette in evidenza un Dylan performer divertito e divertente, che ribadisce una delle sue qualità a molti forse un po' nascosta. Quella rara capacità di essere autore divertente e interprete spigliato e agile. Già l’agilità considerata unicamente come qualità e virtù, aspetto secondario e poco valutato per un autore che in passato aveva composto brani epici e monumentali come Desolation Row, Lily, Rosemary and the Jack of Hearts o Sad Eyed Lady of the Lowlands. Ho scelto proprio queste tre canzoni, tra le tante, perché sommando la durata si arriva a trentuno minuti. La stessa durata di questo trascurabile Down in the Groove. Album che contiene appunto quattro brani autografi, tra cui la terribile Ugliest Girl in the World, senza dubbio la peggiore canzone scritta dal cantautore.

Scrive Calvino nelle sue Lezioni americane: "La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura, tutte qualità che si accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento ad un altro, a perdere il filo cento volte e ritrovarlo dopo cento giravolte." Dylan, autore di canzoni conosce bene il significato di rapidità e disinvoltura. Sono queste le ragioni per cui la sua penna è sempre occupata, il suo piede sempre svelto, parafrasando Forever Young. "Silvio" ci mostra che il Dylan autore e quello performer godono di buona salute, in questo 1988. Ed è pur vero come il disco mostri un cantautore in evidente difficoltà compositiva. Era dal lontano 1970, anno in cui pubblica Self Portrait, che Dylan non pubblica un disco infarcito di cover, brani tradizionali o composizioni di altri autori. Eppure qualcosa si smuove. Perché sotto il nome di Traveling Wilburys, pubblica assieme a George Harrison, Tom Petty, Roy Orbison e Jeff Lynne, uno dei suoi più grandi successi commerciali del periodo. Un altro colpo di coda, nel quale spiccano brani come Tweeter and the Monkey Man, Congratulations e Dirty World. Così quella che potrebbe risultare l’ennesima parentesi, di fatto getterà le basi per un nuovo, ennesimo ritorno, in grande stile. Archiviati questi goffi tentativi di collaborazioni con Grateful Dead, Tom Petty, Stones e addirittura con membri dei Sex Pistols, (nel brano Sally Sue Brown, figura nei crediti il chitarrista Steve Jones) Dylan torna ancora una volta a casa.

Attingendo dalla migliore vena compositiva, darà alle stampe un disco maturo, triste e concentrato come Oh, Mercy. Perché la festa degli anni ottanta volge al termine. Inizia una nuova decade dove il Political World avrà ancora bisogno dei versi di Bob Dylan.

In soldoni

La rinascita artistica di Dylan passa attraverso dischi di transizione come Down in the Groove, Under the Red Sky e Knocked Out Loaded. Chi non lo comprende, e si aggrappa a Oh Mercy, Time Out of Mind o a Infidels stesso, può anche smettere di sforzarsi di capire, analizzare e definirsi dylaniano, perché alla fine della fiera non lo è fino in fondo. Sarà anche un motto situazionista, ma ne sono fortemente persuaso oggi come oggi.


SITUAZIONISMO DYLANIANO

mercoledì 3 luglio 2024

Empire Burlesque: commenti impopolari dylaniani


Qualcuno pensa che Empire Burlesque sia il disco l'album più sottovalutato di Dylan, io non so se questo è vero, ma di certo è uno dei più fraintesi, al pari di cose come Self Portrait, Street-Legal e Saved. Per ritrovare un disco contestato, a questi livelli, bisognerà attendere l'epoca di "Love and Theft". Diciamo che dal dopo Blood on the Tracks e Desire, dischi dove Dylan è riuscito a intercettare nuovamente i favori della critica, qualcosa è andato per il verso sbagliato. Infatti sia la critica che certo pubblico, non ha reagito in maniera positiva alla cosiddetta svolta "black" che il Nostro introduce con il sound sporco, torrenziale di certi passaggi contenuti in Street-Legal e in misura maggiore con il trittico gospel di Slow Train Coming, Saved e Shot of Love. Il furore gospel si attenua, fino a placarsi quasi, con Infidels, dove però Dylan recupera il suono e la sezione ritmica giamaicana, forse anche del suo veleggiare per il mare dei Caraibi. C'è ancora qualcosa di gospel e di black nella scrittura di questo Empire Burlesque. 

Un disco che si apre con passo audace, sbarazzino con l'apparentemente frivola Tight Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love), uno dei capitoli più riusciti di questo disco pubblicato nel 1985. Sono trascorsi oggi quasi 40 anni, tempo sufficiente a fornirci una chiave di lettura consona al fine di collocare il disco dove realmente merita. Si tratta appunto di un momento chiave per la carriera di Dylan. 

È vero che l'album non ha ottenuto il successo sperato e desiderato, ma in termini retrospettivi, ci mostra un artista vivo, consapevole e capace del suo potenziale, molto più che come avverrà con dischi più celebrati, incensati dalla critica, a partire dai due prodotti da Daniel Lanois. Sulla qualità delle canzoni, nessun critico oggi può dirsi convinto che si tratti di materiale scadente, il problema semmai sta nel suono, negli arrangiamenti, che tutti o quasi etichettano come "anni ottanta", "alla moda", come se Dylan stesse inseguendo il successo di colleghi più giovani e più al passo, capaci di scalare le classifiche di vendita. 

A questo malinteso contribuisce l'apparizione al singolo spot We Are the World. Francamente trovo che quello sia stato uno degli scivoloni più clamorosi di Dylan, al pari della partecipazione al concerto di Bologna per Giovanni Paolo II. 

Tuttavia ascoltando oggi il disco del 1985, senza grandi aspettative, ci ritroviamo davanti a un lavoro coeso, con tante idee e capace di spaziare in modo insolito per quanto riguarda suono, arrangiamento e produzione. Forse è proprio questo il limite dell'album. 

Suona poco spontaneo e troppo costruito, rispetto agli standard di Dylan e di certo non gode del momento migliore, in termini di scrittura da parte del Nostro. Eppure ci sono squarci di luce, momenti in cui la creatività e l'intuito dominano e prendono il sopravvento rispetto al controllo e alla disciplina. Ne vengono fuori episodi come il già citato Tight Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love), Emotionally Yours, la solitaria e conclusiva Dark Eyes, la nostalgica e bellissima I'll Remember You, l'apocalittica e ispirata When the Night Comes Falling from the Sky, brano che richiama al contempo All Along the Watchtower e la fase gospel di Saved e Slow Train. Il sound del sintetizzatore è a tratti contraddittorio, ma rende la canzone una miscela sfuggente e intrigante. I testi sono potenti, ispirati, nonostante la critica dell'epoca abbia sostenuto il contrario. 

“Something’s burning, baby” ha un sound cupo, maestoso, da marcia funebre, che mostra un Dylan davvero insolito. Una canzone eccezionale. E poi c’è l’ultima contraddizione dell’album: “Dark Eyes”, completamente acustica, un vero capolavoro. Un brano ipnotico, trascinante e pungente in cui Dylan suona accordi dissonanti, calanti e ci regala un’interpretazione degna del miglior Bob Dylan di sempre. 

Non diremo che si tratta di un capolavoro o qualcosa del genere, ma quantomeno Empire Burlesque, 23esimo disco in studio è tra i dischi maggiormente fraintesi e meno analizzati del prodigioso catalogo dell'artista statunitense.


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lunedì 24 giugno 2024

The Basement Tapes (1975)

 

The Basement Tapes and The Bootleg Series Vol. 11 (1975)  

"L'idea era di registrare dei demo per altri artisti. Non sono mai stati concepiti per essere pubblicati, per diventare un disco, per essere presentati al pubblico." Fortunatamente Robbie Robertson ci conferma ciò che appare evidente dopo l'ascolto di questo doppio disco pubblicato per la prima volta il 26 giugno 1975. Otto dei 24 brani sono eseguiti da The Band, senza Dylan, ma bisogna tenere un altro numero ben più imponente e voluminoso, per questa raccolta che conta 139 tracce complessive. Le registrazioni risalgono però al periodo che va da giugno 1967 al 1968. Successivamente verranno eseguite delle sovraincisioni durante il 1975. La gestazione di questo disco non è quindi molto omogeneo, così come la scaletta. Le composizioni sono di Dylan, Robbie Robertson, Richard Manuel e Rick Danko, alcune delle quali scritte in collaborazione a quattro mani. Il materiale include almeno 4-5 brani che entreranno di diritto nella storia della musica popolare, ma la cosa più importante, in termini di documento storico è come avvengono le sessions e le prove. Resta da dire che non si può parlare di un vero lavoro in studio, ma che sarebbe riduttivo dire che si tratti di semplici provini, visto anche il valore e l'intensità con cui vengono eseguite. Purtroppo le registrazioni e l'acustica della cantina renderanno il suono decisamente lo-fi, ma se il disco viene ascoltato oggi il problema non sussiste, dato che spesso la musica viene spesso prodotta in modo simile, anche se la tecnologia ha fatto passi in avanti, naturalmente.  

Escludendo il primo triennio (1962-1964) più qualche occasionale ripensamento, Bob Dylan ha scritto, inciso e pubblicato dischi supportato da una band elettrica o comunque elettro-acustica. Nonostante abbia pubblicato solo 6 album su 39 con questo tipo di line-up per moltissimi lui sarà sempre una voce folk, un menestrello armato di chitarra acustica e armonica pronto a regalare note emozioni e nuove canzoni al mondo. Questa premessa obbligatoria ci conduce nella cantina più famosa degli anni sessanta. Perlomeno per un certo tipo di pubblico affascinato dal fenomeno crescente del folk rock. Di quel genere musicale che oggi abbiamo imparato a chiamare Americana. The Basement Tapes sono una mappa alternativa, cartina tornasole di un gruppo che stava muovendo i primi passi e di un autore già celebre e incensato alla ricerca di ispirazione di un nuovo sound del groove con cui prima o poi sarebbe tornato a far parlare di sé. Ufficialmente queste registrazioni risalgono al periodo 1966-1967 ma il disco venne rilasciato dalla Columbia Records solo durante l'estate del 1975. Bob Dylan all'epoca era già tornato sia in studio che dal vivo, prima con i The Band e successivamente con un altro nucleo di musicista che lo avrebbero accompagnato in studio e nelle esibizioni live di quel carrozzone noto come Rolling Thunder Revue. Le canzoni e le registrazioni, eccettuate alcune sovraincisioni che fecero più danno che altro, risalgono quindi a circa 8 anni prima. E questo non è certo un elemento trascurabile per un artista sfuggente e mutevole come il Nostro.

La qualità è rozza, cruda, l'approccio diretto, spontaneo e inconsapevolmente lo-fi. In maniera libera e informale prende vita un ritratto totale della cultura americana, attingendo da ogni vena pulsante della storia della musica degli States. Qui respiriamo l'aria di pianure sterminate, dei deserti e sentiamo gli odori della terra, dei fiumi, percependo infinite sfumature cromatiche di questo luogo infinito. I testi si ispirano gioco-forza a quell'America rurale, entrando nelle viscere di personaggi che sono al contempo santi e peccatori, prostitute e vergini, amanti del vizio alla ricerca della salvezza dell'anima. Il fatto che Bob Dylan e The Band si siano chiuso a fare questa musica arcana e blasfema mentre il mondo sta andando a ferro e fuoco, è un dettaglio da non trascurare. In effetti ascoltando bene tra le tracce, qualcosa si avverte anche. Tears of Rage, You Aint' Goin' Nowhere, This Wheel's on Fire e I Shall Be Realesed (che tuttavia non sarà inclusa nel doppio album, ma pubblicata separatamente prima da The Band e poi dallo stesso Dylan.) sono figlie illegittime di questi tempi turbolenti e solo per alcuni mitizzati e ancora oggi celebrati come una stagione irripetibile. Nota a parte per il brano I’m Not There, pubblicato ufficialmente solo nel 2007 come colonna sonora dell’omonimo film ispirato alle molte vite di Dylan e diretto dal talentuoso e visionario regista statunitense Todd Haynes (ma della pellicola e della colonna sonora vi parlerò in maniera estesa in un post a parte, più in là nel tempo).

Non tutto il lavoro verrà però svolto invano, visto che The Byrds, Peter, Paul and Mary e soprattutto il britannico Manfred Mann sapranno valorizzare questo materiale. Personalmente ho sempre apprezzato molto un brano come Goin' to Apaculpo o lo stesso Million Dollar Bash, mentre il valore di Quinn the Eskimo (Mighty Quinn) è certificato dal primo posto di questo singolo nelle classifiche UK, nella versione di Manfred Mann.

Che dite, ne valeva la pena raccogliersi in uno scantinato con un gruppo di amici cane sdraiato sul pavimento a fare da groupie casuale?

A rendere giustizia a queste take ci penserà il tempo e la storia, visto che nel 2014 viene pubblicata la compilation di registrazioni edite, inedite, nastri demo e versioni alternative che troverete su The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes Complete. Se posso suggerirvi, vi consiglierei di recuperare direttamente questa versione delle incisioni, se non siete dei completisti anche in versione RAW a due compact disc. Trentotto tracce che fanno da mappa riduttiva rispetto alla versione completa da 139 tracce e 6 cd.

Dario Twist of Fate