mercoledì 19 giugno 2024

A proposito di Rough and Rowdy Ways

 Rough and Rowdy Ways: un Bob Dylan ruvido e ispirato 

E’ un Dylan diverso quello che torna a calcare le scene. Fermamente convinto del fatto che ogni sette anni il nostro corpo possa mutare, l’Autore si presenta con un pugno di canzoni durante l’ora più buia.Ad attenderlo, manco a farlo apposta sono davvero Rough and Rowdy Times. Già il tempo, i tempi:chi meglio di un artista con una carriera alle spalle lunga mezzo secolo, potrebbe giocare con il tempo, con lo spazio? Bob Dylan aveva scritto queste canzoni presumibilmente prima dell’emergenza da Covid-19, specialmente prima che l’America tornasse a bruciare. Ed è strano non abbia citato, in un disco dove c’è tanto cinema l’Orson Welles che parlando dell’antica Roma elogiava le qualità dell’orchestra di Nerone, che suonava magnificamente, mentre il mondo intorno brucia. Non sappiamo se Dylan sia un appassionato di Paolo Sorrentino e della sua Grande Bellezza, ma ricordiamo di certo la sua passione per Fellini e per Claudia Cardinale. Canzoni che inneggiano alla satira, come i classici greci prima, latini poi. La gente diceva che era una spugna; lui si definiva uno spedizioniere musicale per il quale i diritti di proprietà erano provvisori, scriveva Daniel Mark Epsten in The Ballad of Bob Dylan.

Rough and Rowdy Ways ha un titolo che fa il verso, strizzando l’occhio a uno dei suoi dischi meno apprezzati dalla critica: Street-legal. Altro contesto, altra epoca. Street-legal usciva in piena esplosione punk e new wave; giustamente non venne capito, né apprezzato, se non a distanza di tempo. Era un lavoro enigmatico e oscuro, proprio come questo Rough and Rowdy Ways: comune denominatore è l’energia, in quel caso legata alla crisi matrimoniale, stavolta invece più spirituale, trascendente. Per certi versi questo disco segna un ritorno, a distanza di otto anni dall’ultimo lavoro autografo: Tempest del 2012. Nella sua lunga e sterminata produzione in studio, lo spedizioniere musicale Bob Dylan non si era mai fermato così a lungo. L’ultima lunga pausa, come autore di canzoni, era stata proprio negli anni novanta, quando dopo Oh, Mercy e il meno importante Under the Red Sky, era tornato a incidere brani tradizionali e cover. Ci fu poi il ritorno con Time Out of Mind, lavoro che di fatto riaccese la miccia della creatività, da cui arrivarono in successione quattro nuovi lavori, tutti di livello medio-alto. Quasi dei capolavori, sicuramente dei classici contemporanei. Alla sua maniera. Ed era tanto che non scriveva e non raccontava storie con un taglio così evocativo, ispirato: dichiaratamente cinematografico. Difficile e dispendioso citare tutti i rimandi e annotare tutti i nomi contenuti in questo pregevole ritorno discografico. Di certo balza agli occhi un richiamo all’horror, al gotico nordamericano. Poe e Lovecraft, ma per restare nell’ambito dell’immaginario pop, Dylan parla il linguaggio della Hollywood classica, tirando in ballo Al Pacino e Marlon Brando, Indiana Jones e Nightmare, Boris Karloff e American Graffiti, Marilyn Monroe, Elvis Presley e Frank Sinatra, Woody Allen, Buster Keaton e Bob Fosse, riportando tutto a casa, compresoil miti, includendo i poeti e gli eroi, includendo la propria esperienza e questo scomodo fardello.

Shakespeare, he’s in the alley, ma è una tragedia ancora una volta filtrata attraverso uno schermo cinematografico, come nella pellicola del 1953 di Joseph L. Mankiewicz, con Marlon Brando e James Mason. L’atmosfera ricorda anche una vecchia pellicola di Vincent Price, mentre aleggia il fantasma di Robert Mitchum in The Night of the Hunter. Spirit on the water! Spettri, trascendenza e oscurità. Il baratro, così come la fine, è prossimo. Conduce però non in un luogo allegorico, ma semplicemente al Black Horse Tavern di Armageddon Street.

Oggi più che mai è davvero facile riavvolgere il nastro e far partire un brano a caso, una volta ho visto un film che parlava di un uomo che attraversava il deserto ed era interpretato da Gregory Peck. Veniva ucciso da un ragazzo assetato di gloria che cercava di farsi un nome. Tutto ciò avviene prima di giungere dalle parti di Key West, girando la manopola di una vecchia radio valvolare analogica. Ironia della sorta, Dylan citando stazioni radio pirata lontane nel tempo e nella memoria ci riporta alle suggestioni di In the Days Before Rock ‘N’ Roll, brano di Van Morrison dove comparivano proprio le frequenze di Luxembourg e Budapest. E’ come se ci fosse la piena volontà di trascinare sulle spalle o solo nella memoria, tutto ciò che è stato, capace di viaggiare leggero, come una piccola valigia, portando dietro tutte le cose importanti e anche quelle futili. C’è l’idea di America e di Occidente, c’è la voce di una Nazione, oppure no. C’è un riferimento alla Terra di Oz, ma anche ai presidenti degli Stati Uniti che Dylan ha conosciuto e attraversato, forse con indifferenza, più probabile con piena coscienza. Non è certo casuale il riferimento a Ginsberg, Corso e Kerouac, le maggiori voci della Beat Generation. Senso di appartenenza? Probabilmente. In un disco che fa della citazione la sua arma prediletta, è necessario menzionare almeno Billy “The Kid” Emerson e Jimmy Reed, così come Louis Armstrong e Bud Powell. Non può mancare un riferimento alla Sacra Bibbia, immancabile totem dylaniano. Sceglietelo da voi però il salmo che preferite. Solo un suggerimento: visti i tempi evitate il Libro della Rivelazione. I opened my heart to the world and the world came in.

Rough and Rowdy Ways: focus on the tracks

My Own Version of You è una delle tre gemme prezioso di questo disco. Il passo è sinuoso ed elegante: una nuova, audace,Ain’t Talkin. Più aggraziata, meno sentenziosa e definitiva. Quasi a dare lo start al disco, dopo una falsa partenza e un blues-stomp ingannevole e fuorviante. Il testo è esemplare, un affresco che trasuda un gusto per il gotico. Un vero e proprio racconto in prima persona, davvero simile a quelli a cui ci aveva abituato negli anni sessanta e settanta. Un ennesimo ritorno con impeccabile e implacabile sagacia. Un Bob Dylan sardonico e mefistofelico, a metà tra Poe, Lovecraft e Mary Shelley. Un nuovo classico?

Black Rider è un altro brano capolavoro, sia da un punto di vista stilistico che formale. A metà tra un racconto di Italo Calvino e il Cavaliere Nero di Proietti. Ricorda per certe atmosfere e intarsi di chitarra il Leonard Cohen andaluso e il Tom Waits più teatrale e oscuro.

Key West (Philosopher Pirate) è un pezzo dedicato alla città della Florida dove il regista Joe Dante aveva ambientato uno dei suoi film più ispirati, Matinée, pellicola del 1993, che si svolgeva durante la crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962. Dylan descrive questo posto come una specie di paradiso in terra attraverso un ispirato e poetico flusso di coscienza dove trovano spazio anche i poeti beat Ginsberg, Corso e Kerouac. La melodia fa pensare subito a The Band e alla fisarmonica di Garth Hudson, ma anche al Tom Waits di Cold Cold Ground. “Key West è il posto migliore dove trovarsi se si cerca l’immortalità, Key West è il paradiso divino. Se hai perso il senno, lo ritroverai là. Key West è sulla linea dell’orizzonte”. Un pezzo che da solo vale il disco, se non fosse che stiamo parlando di uno degli album più ispirati di Bob Dylan degli ultimi 30 anni.

Dario Greco Web Writer

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