Self Portrait (1970)
Esiste forse
una categoria di persone più povere di spirito rispetto a quella del critico
musicale o del critico in generale? Pensare oggi a Self Portrait, decimo lavoro
in studio di Bob Dylan e secondo album doppio a distanza di quattro anni da
Blonde on Blonde, ci fa pensare subito al film di Woody Allen Io e Annie, dove
il solone di turno stroncava senza pietà la poetica di Federico Fellini. Perché a distanza di
cinquant'anni ci sarebbe da capire il motivo per cui questo disco venne accolto
con tanta ostilità! Eppure Dylan coadiuvato dall'abituale produttore Bob
Johnston non fa altro che radunare il solito gruppo di lavoro, ancora una
volta diviso tra le sessions di New York e quelle di Nashville. Mette dentro un
po' di generi differenti, di musicisti in voga e di robusti e abili virtuosi
che in studio erano abituati a sfornare dischi importanti e a collaborare con
solisti di primissimo livello. Però qui qualcosa va davvero storto! Perchè
dall'essere d'accordo con il saccente Greil Marcus al definire questo disco un
capolavoro ce ne passa. Quindi scendiamo almeno di uno o due livelli, rispetto
ai lavori che lo avevano preceduto e che già erano qualcosa di differente
rispetto al trittico Bringing - Highway - Blonde, ma anche se si prende a modello
un disco pienamente centrato come John Wesley Harding e il breve ma riuscito
Nashville Skyline, vediamo che la differenza è subito evidente. Eppure,
basterebbe andare oltre le svagate prime tracce e arrivare fino al cuore del
primo disco, quello che va da Days of 49 passando per Let It Be Me fino a
Living the Blues. Oggi un disco così verrebbe acclamato come un mezzo miracolo,
ma in effetti qui siamo nel 1970 e i critici musicali stavano vivendo la loro
stagione d'oro, come del resto anche l'industria musicale e quella
dell'intrattenimento analogico. Quindi è importante calarsi bene nella parte,
inforcare gli occhiali severi e spessi e dire che Dylan ha sbagliato tiro,
permettendosi di cantare bene, di farsi accompagnare da bravi session men e di
variare negli arrangiamenti, come mai aveva saputo fare fino a quel momento.
Self
Portrait venne registrato in più sessioni svolte tra il 24 aprile del 1969 e il
31 marzo del 1970; vi presero parte un gruppo eterogeneo di musicisti, tra cui
Al Kooper, Ron Cornelius, Pete Drake, Charlie Daniels, Kenneth Buttrey, Charlie
McCoy, David Bromberg e naturalmente The Band, per le registrazioni live al
Festival dell’Isola di Wight.
Questo disco
è un manifesto programmatico di quello che il suo autore avrebbe continuato a
proporre al pubblico e alla critica, durante i cinquant’anni a seguire. Dobbiamo
essere onesti: i dischi di Dylan vengono incensati e stroncati senza che
vengano ascoltati né assimilati. È appena accaduto anche con questo ultimo
capolavoro, Rough and Rowdy Ways. Dopo un po' ci si stanca e si decide di
staccare la spina. Anche perché ci pensa il tempo a riqualificare e ristabilire
le gerarchie. Escono inediti e registrazioni alternative e ci mostrano un
artista vivo e vegeto, che canta e suona meglio, concentrato. Soprattutto con
Dylan venire abbagliati, sorpresi e spiazzati è all'ordine del giorno e del
gioco e non deve affatto stupire. Basta aprire una rivista del cazzo o una
testata hipster per leggere tutto e il contrario di tutto su un disco prodotto
da Mr. Zimmerman. Eppure non ci vuole molto per capire che l'artista che diede
alle stampe Self Portrait sapeva bene cosa aveva pubblicato. Possiamo dirci
stupiti e batterci il petto, con aria affranta e frustrazione. Ma un artista
finito non rilascerebbe a distanza di così poco un nuovo disco come New
Morning, e non avrebbe tenuto a decantare per decenni quelle perle che oggi
possiamo ascoltare sulla decima uscita dei Bootleg Series, Another Self
Portrait del 2013.
Credi di
conoscermi? Credi di capire che tipo di musica dovrei fare. Eccoti 24 brani, a
riprova che non sai prevedere cosa farò. Quel che colpisce è il fatto che buona
parte del disco riguardi luoghi dove è già stato o luoghi dove andrà in
seguito. Si tratta di dispetti, scherzi d'autore e non mi stancherò mai di
essere indignato per le parole che scrisse Greil Marcus. Quando non si capisce
qualcosa bisogna avere il buon senso di chiedere o se non si è umili, sarebbe
preferibile tacere. Il tempo è sempre un grandissimo gentiluomo e con Dylan,
che ha mostrato sempre di dare del tu al concetto temporale, anche di più. Per
onore di cronaca è importante dire che non tutti i critici nel corso degli anni
si sono schierati contro questo disco, almeno non in modo così perentorio e
demolitivo. Secondo Kim Ruhel redattore della rivista alt-country No Depression
che Dylan ne fosse consapevole o meno, Self Portrait sembra essere solo
l'ennesimo esempio di un lavoro in anticipo sui tempi. Il dato interessante è
con quante voci qui riesca a cantare. Spazia infatti dal rock and roll, dal
country al blues, infilando spesso cose un po' bizzarre, ma non per queste
prive di valore o di interesse. Lo stesso utilizzo dei cori femminili e degli
archi, per non parlare della sezione fiati, aiuta le canzoni e il suo
interprete a mostrare tutto il suo bagaglio di influenze, curiosità e interessi
compresi.
Toccanti e
profonde sono poi le parole di Marc Bolan, musicista che si distacca dal
coro delle stroncature affermando: "Belle Isle mi ha riportato alla
memoria tutti i momenti di tenerezza che io abbia mai provato per un altro
essere umano, e questo, nel panorama superficiale della musica pop, è davvero
una grande cosa. Per favore, tutte le persone che scrivono amaramente di una
stella perduta, ricordate che con la maturità arriva il cambiamento, così come
la morte segue la vita”.
È interessante rileggere in una chiave retrospettiva alcune insinuazioni su un Dylan stanco e a fine corsa, che ironizzano tirando il ballo il titolo della prima traccia: All The Tired Horses. Nel 2021 dopo 39 dischi e innumerevoli live, pensare a un ventinovenne Dylan stanco strappa sicuramente più di un sorriso! Gli illustrissimi critici musicali Jimmy Guterman e Owen O'Donnell, nel loro libro del 1991 The Worst Rock and Roll Records of All Time sentenziarono: "Lo scioglimento dei Beatles poco prima dell'uscita di questo album segnò la fine degli anni Sessanta; Self Portrait segnò la fine di Bob Dylan". Insomma siamo alle solite: chi ha orecchie per intendere e per apprezzare, ascolti, ma la cosa che un po' lascia perplessi a fine disco, dopo oltre settanta minuti di musica è che ci siamo divertiti non poco. Merda o non merda, Self Portrait ha vinto la sua sfida contro il tempo e non è un disco dimenticato. Vi pare poco?
Dario Greco Web Writer
"self portrait" è un album difficile da valutare. Pesa ancora il giudizio negativo della critica e lo stupore dei fan. Forse è un album non piacevolissimo all'ascolto ma molto importante perché rappresenta una grande e consapevole apertura a tutti gli stili musicali d'America. Quando sono disorientata dalle canzoni di Dylan, ascolto le parole di Dylan, per capirci di più. Bob difese l'album con passione, sostenendo che contenesse musica dannatamente buona. Gli credo, conosce bene la tradizione americana ed è consapevole della sua arte. Carla Cinderella
RispondiEliminaGrazie per il commento.
EliminaA me è sempre piaciuto questo disco. Non ascolto la musica e i dischi leggendo le recensioni, ma con il mio cuore lasciandomi andare. Ci sono cose molto buone e differenti, qui.<3
Lo riascolterò, dimenticando greil Marcus e compagnia. Grazie! Carla Cinderella
EliminaLo riascolterò, dimenticando greil Marcus e compagnia. Grazie! Carla Cinderella
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