Sotto un rosso ridente cielo
C’è un aspetto che rende un artista come Bob Dylan il più grande di tutti. La storia dei suoi lavori minori o presunti tali. Under the red sky, titolo stupendo per il suo 27esimo disco in studio, fa parte di questa categoria. Probabilmente la sua Arkengemma, il Graal dei lavori minori, che li condensa e li giustifica tutti. Le motivazioni che andremo ad analizzare in questo post sono molteplici. Innanzitutto un breve passo indietro sembra doveroso arrivati a questo punto della vicenda artistica del cantautore americano. Gli anni ottanta, come abbiamo detto nell’articolo precedente è stato un periodo di poche luci e di tante, forse troppe ombre. Tuttavia Dylan si era saputo sottrarre dal baratro con un notevole, poderoso colpo di coda. Si scrive capolavoro, ma si legge Oh, Mercy, album del 1989 registrato a New Orleans e prodotto dal mago Daniel Lanois. Un lavoro di breve durata (appena 39 minuti) da cui restano però fuori autentici gioielli come Dignity, Series of dreams, Born in time e God Knows.
Qualsiasi artista non avrebbe rinunciato a questo materiale e lo avrebbe incluso subito nel disco che conclude un decennio, nella migliore delle ipotesi, travagliato e difficile per il Nostro. Eppure Dylan lascerà fuori perfino dal disco successivo, questo Under the red sky, due delle migliori canzoni inedite che non avevano trovato spazio su Oh, Mercy. Per fortuna recuperare però Born in time e God Knows, brani che assieme alla title track e ad altre 2-3 cose, sono i pezzi migliori del disco con cui il cantautore apre la sua quarta decade di attività discografica. Stavolta l’autore che ha cantato, inciso e scritto i brani è davvero un uomo maturo e come tale andrebbe giudicato e analizzato. Tuttavia stiamo sempre parlando di Dylan, dove la somma delle parti non darà mai il risultato sperato.
Alcuni brani e soprattutto certi testi, vengono giudicati nonsense, banali, quasi delle filastrocche per bambini. Ecco svelato l’arcano: Bob Dylan ha avuto da poco tempo una figlia dalla moglie segreta, Carolyn Dennis, sua corista dal tour mondiale del 1978, che collaborato a Slow Train Coming, Saved ed Empire Burlesque. Le canzoni banali che suonano quasi come filastrocche, sono in realtà un pregevole easter egg che il papà dedica alla propria bimba. Una giustificazione tardiva per la sciatteria del nuovo canzoniere dylaniano? Assolutamente no. Nel tempo chi scrive e segue Dylan ha imparato che tutto ciò che vale per altri artisti e compositori, non può essere applicato per il principe dei cantautori nordamericani. Dylan è nuovamente nei guai. Dopo appena un anno dal grande ritorno con canzoni e testi davvero significativi, la critica torna all’assalto. Per obiettività bisogna dire che ancora stavolta, come era già avvenuto durante il decennio passato, né l’autore né l’etichetta fanno niente per parare i colpi. Stavolta contribuiscono al fallimento anche gli ospiti in studio e i produttori del disco: Don Was, David Was e un certo Jack Frost. Frost, lo scopriremo solo vivendo più in là non è altri che l’ennesimo pseudonimo di Dylan stesso.
Contribuisce a rendere il disco sfigato e meritevole
di una stroncatura il fatto che appena due anni prima Dylan abbia preso parte
alla superband composta da Tom Petty, George Harrison, Roy Orbison e Jeff Lynne, cioè i Traveling Wilburys. Under the red
sky sembra infatti un clone e un lavoro che vorrebbe cavalcare l’hype e il
successo della superband, che all’inizio aveva tentato di nascondere l’identità
degli artisti che la componevano. Nel disco in proprio Dylan si fa accompagnare
da una lista di artisti appartenenti a diversi genere e generazioni, passando
da Slash dei Guns N’ Roses a David Crosby, da Elton John a George Harrison, da
Al Kooper a Stevie Ray Vaughan. Vi risparmiamo la lista completa che potete
trovare, se siete curiosi, qui.
Questa volta bisogna arrendersi e dare forse ragione alla critica, dato che dopo questo disco per ascoltare nuove canzoni scritte da Dylan bisognerà attendere ben sette anni. Infatti le nuove uscite saranno tutte dedicate a materiale non autografo, dato che il Nostro inciderà per la prima volta dei dischi interamente composti da brani tradizionali e cover. Quasi un ritorno dopo trent’anni a quello che era stato il suo esordio discografico: l’eponimo Bob Dylan (1962). Ci piacerebbe scrivere il contrario, ma in questa occasione, malgrado le premesse e i giudizi teneri, Dylan è fuori fuoco e questo non a caso è considerato uno dei suoi lavori meno ispirati di sempre. Mancano infatti le grandi canzoni, fatta esclusione per la title track e i due brani recuperati dalle sessions di Oh, Mercy e manca una guida e una grande direzione. Un vero peccato perché mastichiamo amaro pensando a cosa avrebbe potuto fare non solo Lanois, ma qualsiasi altro produttore capace di dire no al caro Bob Dylan. Ce ne sono pochi, sia chiaro, ma lo stesso compagno di avventura, quel Jeff Lynne ex-Electric Light Orchestra, avrebbe saputo trarre cose migliori dal materiale incluso in questo Under the red sky.
Basti ascoltare i dischi prodotti per Tom Petty & The Heartbrears del periodo, per capire che la cosa avrebbe funzionato alla grande. Specialmente da un punto di vista commerciale, magari recuperando per l’occasione un brano come Series of Dreams, senza dubbio tra le cose migliori scritte da Bob Dylan dopo gli anni Settanta. Fortunatamente per gli appassionati di musica il brano verrà pubblicato appena un anno dopo nella raccolta The Bootleg Series 1-3 del 1991.
Gli anni novanta, tutto sommato, lanciano un primo squillo di tromba
per gli appassionati nostalgici di Dylan. L’artista è tornato o comunque manca
poco per vederlo in grande spolvero, come performer e autore di canzoni. La sbornia
degli anni ottanta sembra essere lontana, arriveranno presto Grammy e altri
premi importanti. Per l’ufficio stampa e il management sono previsti lavori
straordinari, come non avveniva da metà anni Settanta. Ai posteri l’ardua
sentenza se questo sia un bene oppure no. Sotto un rosso ridente cielo.
Dario Greco
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