The
Basement Tapes and The Bootleg Series Vol. 11 (1975)
"L'idea
era di registrare dei demo per altri artisti. Non sono mai stati concepiti per
essere pubblicati, per diventare un disco, per essere presentati al
pubblico." Fortunatamente Robbie Robertson ci conferma ciò che
appare evidente dopo l'ascolto di questo doppio disco pubblicato per la prima
volta il 26 giugno 1975. Otto dei 24 brani sono eseguiti da The Band,
senza Dylan, ma bisogna tenere un altro numero ben più imponente e voluminoso,
per questa raccolta che conta 139 tracce complessive. Le registrazioni risalgono
però al periodo che va da giugno 1967 al 1968. Successivamente verranno
eseguite delle sovraincisioni durante il 1975. La gestazione di questo disco
non è quindi molto omogeneo, così come la scaletta. Le composizioni sono di
Dylan, Robbie Robertson, Richard Manuel e Rick Danko, alcune
delle quali scritte in collaborazione a quattro mani. Il materiale include
almeno 4-5 brani che entreranno di diritto nella storia della musica popolare,
ma la cosa più importante, in termini di documento storico è come avvengono le
sessions e le prove. Resta da dire che non si può parlare di un vero lavoro in
studio, ma che sarebbe riduttivo dire che si tratti di semplici provini, visto
anche il valore e l'intensità con cui vengono eseguite. Purtroppo le
registrazioni e l'acustica della cantina renderanno il suono decisamente lo-fi,
ma se il disco viene ascoltato oggi il problema non sussiste, dato che spesso
la musica viene spesso prodotta in modo simile, anche se la tecnologia ha fatto
passi in avanti, naturalmente.
Escludendo il
primo triennio (1962-1964) più qualche occasionale ripensamento, Bob
Dylan ha scritto, inciso e pubblicato dischi supportato da una band
elettrica o comunque elettro-acustica. Nonostante abbia pubblicato solo 6 album
su 39 con questo tipo di line-up per moltissimi lui sarà sempre una voce folk,
un menestrello armato di chitarra acustica e armonica pronto a regalare note
emozioni e nuove canzoni al mondo. Questa premessa obbligatoria ci conduce
nella cantina più famosa degli anni sessanta. Perlomeno per un certo tipo di
pubblico affascinato dal fenomeno crescente del folk rock. Di quel genere
musicale che oggi abbiamo imparato a chiamare Americana. The Basement
Tapes sono una mappa alternativa, cartina tornasole di un gruppo che
stava muovendo i primi passi e di un autore già celebre e incensato alla
ricerca di ispirazione di un nuovo sound del groove con cui prima o poi sarebbe
tornato a far parlare di sé. Ufficialmente queste registrazioni risalgono al
periodo 1966-1967 ma il disco venne rilasciato dalla Columbia Records solo
durante l'estate del 1975. Bob Dylan all'epoca era già tornato
sia in studio che dal vivo, prima con i The Band e
successivamente con un altro nucleo di musicista che lo avrebbero accompagnato
in studio e nelle esibizioni live di quel carrozzone noto come Rolling
Thunder Revue. Le canzoni e le registrazioni, eccettuate alcune
sovraincisioni che fecero più danno che altro, risalgono quindi a circa 8 anni
prima. E questo non è certo un elemento trascurabile per un artista sfuggente e
mutevole come il Nostro.
La qualità è
rozza, cruda, l'approccio diretto, spontaneo e inconsapevolmente lo-fi. In
maniera libera e informale prende vita un ritratto totale della cultura
americana, attingendo da ogni vena pulsante della storia della musica degli
States. Qui respiriamo l'aria di pianure sterminate, dei deserti e sentiamo gli
odori della terra, dei fiumi, percependo infinite sfumature cromatiche di
questo luogo infinito. I testi si ispirano gioco-forza a quell'America rurale,
entrando nelle viscere di personaggi che sono al contempo santi e peccatori,
prostitute e vergini, amanti del vizio alla ricerca della salvezza dell'anima.
Il fatto che Bob Dylan e The Band si siano chiuso a fare questa
musica arcana e blasfema mentre il mondo sta andando a ferro e fuoco, è un
dettaglio da non trascurare. In effetti ascoltando bene tra le tracce, qualcosa
si avverte anche. Tears of Rage, You Aint' Goin' Nowhere, This Wheel's on
Fire e I Shall Be Realesed (che tuttavia non sarà inclusa nel doppio
album, ma pubblicata separatamente prima da The Band e poi dallo stesso Dylan.)
sono figlie illegittime di questi tempi turbolenti e solo per alcuni mitizzati
e ancora oggi celebrati come una stagione irripetibile. Nota a parte per il
brano I’m Not There, pubblicato ufficialmente solo nel 2007 come colonna sonora
dell’omonimo film ispirato alle molte vite di Dylan e diretto dal talentuoso e
visionario regista statunitense Todd Haynes (ma della pellicola e della
colonna sonora vi parlerò in maniera estesa in un post a parte, più in là nel
tempo).
Non tutto il
lavoro verrà però svolto invano, visto che The Byrds, Peter, Paul and Mary e
soprattutto il britannico Manfred Mann sapranno valorizzare questo
materiale. Personalmente ho sempre apprezzato molto un brano come Goin' to
Apaculpo o lo stesso Million Dollar Bash, mentre il valore di Quinn
the Eskimo (Mighty Quinn) è certificato dal primo posto di questo singolo
nelle classifiche UK, nella versione di Manfred Mann.
Che
dite, ne valeva la pena raccogliersi in uno scantinato con un gruppo di amici
cane sdraiato sul pavimento a fare da groupie casuale?
A rendere
giustizia a queste take ci penserà il tempo e la storia, visto che nel 2014
viene pubblicata la compilation di registrazioni edite, inedite, nastri demo e
versioni alternative che troverete su The Bootleg Series Vol. 11: The
Basement Tapes Complete. Se posso suggerirvi, vi consiglierei di recuperare
direttamente questa versione delle incisioni, se non siete dei completisti
anche in versione RAW a due compact disc. Trentotto tracce che
fanno da mappa riduttiva rispetto alla versione completa da 139 tracce e 6 cd.
Nessuno può
salvare Dylan da sé stesso, nemmeno Dylan stesso. Il problema è che il
cantautore americano non ha nessuna intenzione di fare sconti a nessuno, quando
entra in studio per registrare il suo ventesimo disco. SAVED è per molti versi
il sequel di Slow Train Coming che lo aveva preceduto meno di un anno prima.
Eppure nonostante la produzione di Barry Beckett e Jerry Wexler e le
registrazioni realizzate nuovamente al Muscle Shoals Sound Studio, le
differenze sono nette fin dalla prima traccia. Al disco
collaborano Tim Drummond, Jim Keltner e Fred Tackett, motivo per cui il disco
ha gran bel tiro, che gli permette di esplorare, se possibile in maniera più
radicale e profonda, l'ossessione dylaniana per il gospel. Nella migliore delle
ipotesi si tratta di un solido e nervoso blues rock, con alcuni degli episodi
musicalmente più vibranti di tutto il repertorio. Il problema, se si problema
si può parlare, è derivato da una certa allegoria e da testi che sono
inequivocabilmente in debito verso il Nuovo Testamento. Bob Dylan è entrato in
una fase della sua carriera in cui ha smesso di chiedersi cosa possa volere il
pubblico. Pensa a sé stesso e tira dritto. Col senno di poi questo è uno di
quei dischi che poteva restare nel cassetto.
Eppure ci sono aspetti che lo rendono unico, meritevole di fare da contraltare alla
sua produzione in studio più celebrata e iconica. Del resto appena dopo Desire
il Nostro aveva iniziato a produrre lavori che la critica faticava a
comprendere e a mettere a fuoco con analisi obiettive ed equilibrate. Sono passati
appena cinque anni dal suo ultimo vero capolavoro: quel Blood on the Tracks concepito come un'autentica opera d'arte. Un lavoro coeso, vibrante e toccante, come pochi. Saved in effetti pare sia stato realizzato da un artista totalmente differente. Qui ci troviamo di fronte a un musicista che scrive in modo nuovo, diverso. Quello del 1975 usava metafore e linguaggio da poeta stilnovista ispirato da Shakespeare e
da altri campioni della letteratura mondiale come il russo Cechov; l’autore
di Saved parla una lingua più piana, forse più banale, almeno rispetto allo standard e al metro precedente. Eppure oggi a distanza di 40 anni abbiamo imparato ad
ascoltare i suoi diversi stili, che includono tanto le fisime quanto le rivelazioni, ma per il mondo che
viaggiava sui meridiani e le prospettive del 1980 deve essere stato uno shock ascoltare questo disco da invasato.
Un fanatico religioso, dirà la critica, nonostante fosse poco chiaro se Dylan
stesse facendo sul serio o no. Di certo stava facendo sul serio con i suoi
spettacoli dal vivo, visto che raramente ha suonato dal vivo con questa intensità,
con il furore e il fuoco sacro del rock che divampava. Attraverso le testimonianze
live ufficiali oggi possiamo collocare questo Saved in una cornice molto più precisa
e consona. Abbiamo visto dove ha portato il viaggio degli anni ottanta, il
cammino senza tregua (il Never Ending Tour) degli anni Novanta, dove Dylan sembrava davvero un salmone
infaticabile, capace com' era di andare contro ogni stile, formula e soluzione che in quel momento sembrava
essere paradigma e prerogativa di successo. Dylan ha fatto grande musica in ogni decade. Questo
oggi è un fatto con cui certa critica e certi giornalisti hanno imparato a fare
i conti. Perché cadono i miti, cadono i poster della nostra gioventù, ma il
buon vecchio Bob resta saldamente in sella.
Forse era lui quello che stava cercando
salvezza. È rimasto aggrappato al suo credo, cambiando naturalmente, ma con una
chitarra a tracolla e un’armonica ferita. Con una penna a volte gentile, a
volte di fuoco e di furore. Oggi possiamo sorridere per tutte le recensioni che
avevano dato per finito e condannato all’oblio un autore che non aveva ancora compiuto
40 anni. Certo, bisogna dire che all’epoca un musicista a quell’età era
considerato sul viale del tramonto, per quanto concerne la musica popolare.
Dylan però ha saputo tenere botta, prima di tutto alle sue convinzioni, poi al
pubblico e alla critica. Dalla sua ha avuto uno zoccolo duro di seguaci che ha sempre
sostenuto l’artista, fregandosene perfino dei dischi brutti, inutili o banali che
avrebbe prodotto durante una fase della sua carriera musicale.
Tuttavia Saved non rientra in questa categoria: qui ci sono grandi
canzoni, ottime idee musicali e una band che suona come se avesse alle spalle
il baratro della dannazione eterna. Una canzone su tutte? "What Can I Do for You?", naturalmente, dove l'assolo finale di armonica è redenzione pura.
Oggi un disco del genere
verrebbe accolto come un capolavoro, di certo nessuno si sarebbe scandalizzato per le
idee estreme del cantante, men che meno per chi è in sella da più di 30-40-50 anni. C’è
gente che cambia atteggiamento, stile musicale, ideologia e religione. Oggi un
disco come Saved potrebbe perfino passare inosservato, ammesso che ci siano artisti pronti a rischiare e a produrre musica come questa. Ok, Nick Cave e
pochi altri. Così mentre i miti mutano pelle per sopravvivere a loro stessi, Dylan è
ancora su quel palco diretto verso un altro show. Avrà tradito il pubblico e di
sicuro ha più volte silenziato le critiche e la stampa, ma questo non ha alcuna
importanza. Quello che conta adesso come allora è la musica. Saved sotto questo
punto di vista raggiunge il suo obiettivo, vincendo a mani basse la sfida e la posta in gioco.
Rough and Rowdy Ways: un Bob Dylan ruvido e ispirato
E’ un Dylan diverso quello che torna a calcare le scene. Fermamente convinto del fatto che ogni sette anni il nostro corpo possa mutare, l’Autore si presenta con un pugno di canzoni durante l’ora più buia.Ad attenderlo, manco a farlo apposta sono davvero Rough and Rowdy Times. Già il tempo, i tempi:chi meglio di un artista con una carriera alle spalle lunga mezzo secolo, potrebbe giocare con il tempo, con lo spazio? Bob Dylan aveva scritto queste canzoni presumibilmente prima dell’emergenza da Covid-19, specialmente prima che l’America tornasse a bruciare. Ed è strano non abbia citato, in un disco dove c’è tanto cinema l’Orson Welles che parlando dell’antica Roma elogiava le qualità dell’orchestra di Nerone, che suonava magnificamente, mentre il mondo intorno brucia. Non sappiamo se Dylan sia un appassionato di Paolo Sorrentino e della sua Grande Bellezza, ma ricordiamo di certo la sua passione per Fellini e per Claudia Cardinale. Canzoni che inneggiano alla satira, come i classici greci prima, latini poi. La gente diceva che era una spugna; lui si definiva uno spedizioniere musicale per il quale i diritti di proprietà erano provvisori, scriveva Daniel Mark Epsten in The Ballad of Bob Dylan.
Rough and Rowdy Ways ha un titolo che fa il verso, strizzando l’occhio a uno dei suoi dischi meno apprezzati dalla critica: Street-legal. Altro contesto, altra epoca. Street-legal usciva in piena esplosione punk e new wave; giustamente non venne capito, né apprezzato, se non a distanza di tempo. Era un lavoro enigmatico e oscuro, proprio come questo Rough and Rowdy Ways: comune denominatore è l’energia, in quel caso legata alla crisi matrimoniale, stavolta invece più spirituale, trascendente. Per certi versi questo disco segna un ritorno, a distanza di otto anni dall’ultimo lavoro autografo: Tempest del 2012. Nella sua lunga e sterminata produzione in studio, lo spedizioniere musicale Bob Dylan non si era mai fermato così a lungo. L’ultima lunga pausa, come autore di canzoni, era stata proprio negli anni novanta, quando dopo Oh, Mercy e il meno importante Under the Red Sky, era tornato a incidere brani tradizionali e cover. Ci fu poi il ritorno con Time Out of Mind, lavoro che di fatto riaccese la miccia della creatività, da cui arrivarono in successione quattro nuovi lavori, tutti di livello medio-alto. Quasi dei capolavori, sicuramente dei classici contemporanei. Alla sua maniera. Ed era tanto che non scriveva e non raccontava storie con un taglio così evocativo, ispirato: dichiaratamente cinematografico. Difficile e dispendioso citare tutti i rimandi e annotare tutti i nomi contenuti in questo pregevole ritorno discografico. Di certo balza agli occhi un richiamo all’horror, al gotico nordamericano. Poe e Lovecraft, ma per restare nell’ambito dell’immaginario pop, Dylan parla il linguaggio della Hollywood classica, tirando in ballo Al Pacino e Marlon Brando, Indiana Jones e Nightmare, Boris Karloff e American Graffiti, Marilyn Monroe, Elvis Presley e Frank Sinatra, Woody Allen, Buster Keaton e Bob Fosse, riportando tutto a casa, compresoil miti, includendo i poeti e gli eroi, includendo la propria esperienza e questo scomodo fardello.
Shakespeare, he’s in the alley, ma è una tragedia ancora una volta filtrata attraverso uno schermo cinematografico, come nella pellicola del 1953 di Joseph L. Mankiewicz, con Marlon Brando e James Mason. L’atmosfera ricorda anche una vecchia pellicola di Vincent Price, mentre aleggia il fantasma di Robert Mitchum in The Night of the Hunter. Spirit on the water! Spettri, trascendenza e oscurità. Il baratro, così come la fine, è prossimo. Conduce però non in un luogo allegorico, ma semplicemente al Black Horse Tavern di Armageddon Street.
Oggi più che mai è davvero facile riavvolgere il nastro e far partire un brano a caso, una volta ho visto un film che parlava di un uomo che attraversava il deserto ed era interpretato da Gregory Peck. Veniva ucciso da un ragazzo assetato di gloria che cercava di farsi un nome. Tutto ciò avviene prima di giungere dalle parti di Key West, girando la manopola di una vecchia radio valvolare analogica. Ironia della sorta, Dylan citando stazioni radio pirata lontane nel tempo e nella memoria ci riporta alle suggestioni di In the Days Before Rock ‘N’ Roll, brano di Van Morrison dove comparivano proprio le frequenze di Luxembourg e Budapest. E’ come se ci fosse la piena volontà di trascinare sulle spalle o solo nella memoria, tutto ciò che è stato, capace di viaggiare leggero, come una piccola valigia, portando dietro tutte le cose importanti e anche quelle futili. C’è l’idea di America e di Occidente, c’è la voce di una Nazione, oppure no. C’è un riferimento alla Terra di Oz, ma anche ai presidenti degli Stati Uniti che Dylan ha conosciuto e attraversato, forse con indifferenza, più probabile con piena coscienza. Non è certo casuale il riferimento a Ginsberg, Corso e Kerouac, le maggiori voci della Beat Generation. Senso di appartenenza? Probabilmente. In un disco che fa della citazione la sua arma prediletta, è necessario menzionare almeno Billy “The Kid” Emerson e Jimmy Reed, così come Louis Armstrong e Bud Powell. Non può mancare un riferimento alla Sacra Bibbia, immancabile totem dylaniano. Sceglietelo da voi però il salmo che preferite. Solo un suggerimento: visti i tempi evitate il Libro della Rivelazione. I opened my heart to the world and the world came in.
Rough and Rowdy Ways: focus on the tracks
My Own Version of You è una delle tre gemme prezioso di questo disco. Il passo è sinuoso ed elegante: una nuova, audace,Ain’t Talkin. Più aggraziata, meno sentenziosa e definitiva. Quasi a dare lo start al disco, dopo una falsa partenza e un blues-stomp ingannevole e fuorviante. Il testo è esemplare, un affresco che trasuda un gusto per il gotico. Un vero e proprio racconto in prima persona, davvero simile a quelli a cui ci aveva abituato negli anni sessanta e settanta. Un ennesimo ritorno con impeccabile e implacabile sagacia. Un Bob Dylan sardonico e mefistofelico, a metà tra Poe, Lovecraft e Mary Shelley. Un nuovo classico?
Black Rider è un altro brano capolavoro, sia da un punto di vista stilistico che formale. A metà tra un racconto di Italo Calvino e il Cavaliere Nero di Proietti. Ricorda per certe atmosfere e intarsi di chitarra il Leonard Cohen andaluso e il Tom Waits più teatrale e oscuro.
Key West (Philosopher Pirate) è un pezzo dedicato alla città della Florida dove il regista Joe Dante aveva ambientato uno dei suoi film più ispirati, Matinée, pellicola del 1993, che si svolgeva durante la crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962. Dylan descrive questo posto come una specie di paradiso in terra attraverso un ispirato e poetico flusso di coscienza dove trovano spazio anche i poeti beat Ginsberg, Corso e Kerouac. La melodia fa pensare subito a The Band e alla fisarmonica di Garth Hudson, ma anche al Tom Waits di Cold Cold Ground. “Key West è il posto migliore dove trovarsi se si cerca l’immortalità, Key West è il paradiso divino. Se hai perso il senno, lo ritroverai là. Key West è sulla linea dell’orizzonte”. Un pezzo che da solo vale il disco, se non fosse che stiamo parlando di uno degli album più ispirati di Bob Dylan degli ultimi 30 anni.
Un fallimentare cambio di guardia per Bob Dylan in piena esplosione punk
"C'è
un leone sulla strada, c'è un demone sfuggito, ci sono un milione di sogni
passati, c'è un panorama rapito. Mentre la sua bellezza si nasconde e la vedo
togliere le tende, non vorrei, ma poi ancora, forse posso. Oh, se solo potessi
trovarti stanotte."
Anche per un
Forever Young come Dylan arriva il momento della maturità. Street-Legal è
infatti il suo 18esimo disco in studio, pubblicato il 15 giugno 1978. Per chi
vi scrive si tratta di un album particolare, per cui ha sempre provato affetto
e condiscendenza. Voglio dirlo esplicitamente: amo Street-Legal, per ragioni
che tenterò di eviscerare in questo commento retrospettivo.
Secondo un
modo di pensare convenzionale, è più semplice scrivere di argomenti che ci
appartengono e che ci stanno maggiormente a cuore. Ritengo sia un
luogo comune da sfatare. Detto ciò, tenterò di risalire la china e darvi un punto di vista personale di questo disco.
Difficile perché nonostante
siano trascorsi più di 43 anni dalla data di pubblicazione, critica e pubblico
restano ancora divisi. Bisogna sottolineare come vi sia, in questo
caso, una distanza netta tra il punto di vista del pubblico europeo e quello nordamericano.
Per tanto tempo si è detto che questo disco per tematiche musicali e
testuali è più vicino allo spirito e al modo di essere di noi latini. Sarà
anche vero, dato che io ci sento dentro davvero tante anime ed energie; soprattutto
la voglia da parte dell' autore di realizzare qualcosa di nuovo e di diverso,
con un bel passo audace e prorompente. Artisticamente parlando gli ultimi
prodotti erano stati tra i migliori del decennio, con un Dylan tornato
prepotentemente in corsa.
Come sempre
si scatena la gara all'interpretazione critica di messaggi cifrati, dato che in questa particolare occasione le liriche risultano estremamente criptiche, anche rispetto agli elevati standard di un artista
come il Nostro. Tuttavia ciò la cosa che lascia perplessi e un po' straniati è il tentativo estremo da parte della critica, la quale vorrebbe interpretare i testi di questo Dylan del '78 come quelli di un
misogino rancoroso e risentito verso il gentil sesso. Quasi l'esatto opposto rispetto a quel "poeta stilnovista" che da più di 15 anni aveva idealizzato la figura e il proprio universo femminile. Immancabile l'intervento del puntale Greil Marcus, sempre pronto a lanciare la prima pietra, per via di un testo che allude alle mansioni e a
quello che dovrebbe fare il personaggio femminile in Is Your Love in
Vain?
Chi vi
scrive ha tentato di analizzare il testo in senso metaforico e letterale, e non
ha trovato nulla di strano, distorto e incoerente con la poetica gentile e
romantica che l'autore ha portato avanti per lunghissimo tempo. Possiamo quindi dire che
verso questo disco vi sia autentico livore e accanimento, un po' voluto,
un po' casuale, forse. Il 1978 è un anno fondamentale per la musica pop. Elvis Presley
era morto da pochi mesi, nello stesso tempo c'era stata la prima ondata punk
rock che si era abbattuta sugli States, come era già avvenuto più di dieci anni
prima con la British Invasion. Non solo, era il momento di altri cantautori che
più o meno si ispiravano dichiaratamente a Bob Dylan con l'intenzione di
detronizzarlo dalla propria leadership. Erano emersi autori come Tom Waits, Bob
Seger, Patti Smith, Tom Petty e ancora di più, erano gli anni di massimo splendore di Bruce
Springsteen.
Il cantautore del New Jersey durante i suoi esordi era stato più
volte accostato e paragonato a Dylan, ma adesso stava accadendo qualcosa di
diverso. Complice l'utilizzo del sax, con interventi a opera di Steve Douglas,
il sound di Street-Legal era stato accostato a quello di Springsteen e del suo
fedele sassofonista, Clarence Clemons. In effetti prima di allora Dylan non
aveva mai pubblicato un disco con la presenza fissa di un sassofono. Questo è
un fatto insindacabile. Tuttavia l'utilizzo di fiati e ottoni aveva
caratterizzato alcune prove precedenti come quella di Blonde on Blonde e di
Self Portrait.
Oggi abbiamo scoperto che una sezione fiati era stata utilizzata
anche per New Morning del 1970, poi messa da parte a favore di una soluzione
più essenziale degli arrangiamenti. Però l'analogia tra il sound di Bruce
Springsteen e quello di Street-Legal si interrompe qui. Non serve un professore
di musica, né un sassofonista per notare che la struttura dei brani, l'uso del
sax e altro ancora non ha punti di contatto tra Dylan e Springsteen,
specialmente perché quel genere di suono e di stile non è stato creato nel New
Jersey, ma deve la propria origine a cose arrivate ben prima della
pubblicazione di Greetings from Asbury Park, NJ del 1973. Poco prima c'erano
state le intuizioni di altri artisti come Rolling Stones, ma soprattutto come
Van Morrison.
Morrison infatti ispirandosi al sound di artisti black aveva
preso a piene mani dalle etichette Atlantic e Stax, ispirandosi ad alcuni
leggendari performer e a sezioni fiati che valorizzavano il sound del
sassofono, unito a quello del pianoforte e dell'organo Hammond B3. Tutta questa
digressione mi è utile per dire che il suono che stava cercando di ottenere
Dylan da questo album virava verso la black music. Non era ancora arrivato però
il tempo di fare un'inversione di marcia e puntare dritti ai Muscle Shoals
Sound Studio di Sheffield, Alabama.
Questa volta Dylan sarebbe inciampato in
una registrazione californiana, dove però la sua ricerca di un nuovo sound
avrebbe prodotto un disco davvero agile e ricco di sfumature, tra il blues e il
soul, con una presenza di cori femminili e tutto quello che serviva in termini
di energia e spinta della sezione ritmica, delle percussioni e delle tastiere.
Questo disco è stato per lungo tempo criticato e messo alla gogna per il suo
suono. Oggi grazie alla possibilità di ascoltare il remix di Don DeVito,
realizzato nel 1999, abbiamo una pulizia dei suoni che ci fa intuire a cosa
stava mirando Dylan. Per non parlare di alcune canzoni che all'epoca non
vennero capite né valutate per il loro reale potenziale.
Si tratta di materiale come Changing of the Guards, No Time to Think, Baby, Stop Crying, ma soprattutto di Senor (Tales of Yankee Power) e della conclusiva, dolonte e maestosa Where Are You
Tonight? (Journey Through Dark Heat). Brani che dicono tanto di questo disco frainteso, che
a distanza di 40 anni possiamo riposizionare dove è giusto che stia.
Appena un passo dietro i grandi classici, ma in una posizione di rilievo tra
gli appassionati di buona musica, di chiunque abbia una passione per il rock
blues e quel genere di sound urbano, sanguigno e pulsante, che a partire da
Elvis e Orbison, tira dritto verso gli Stones, gli Animals, Van Morrison e
Santana. Dylan che già in passato si era tinto le mani e il viso di nero,
stavolta si cala completamente nella black music e affiora con grande
consapevolezza, tanto che lo step successivo sarà proprio quello di farsi
produrre da Jerry Wexler e Barry Beckett. Se vi pare poco!
Signori, disse lui, non ho bisogno della
vostra organizzazione, ho lustrato le vostre scarpe. Ho smosso le vostre
montagne e segnato le vostre carte, ma il paradiso è in fiamme, o vi preparate
ad essere eliminati oppure i vostri cuori devono avere il coraggio per il
cambio della guardia.
Quando Bob
Dylan scrive i nuovi pezzi per quello che sarà il suo 23esimo disco in studio,
la cosa che gli sta più a cuore è dimostrare, (a sé stesso) di poter stare sul
pezzo ed essere competitivo con la musica che gira intorno. Un po’ quello
che era stato il chiodo fisso della seconda metà dei settanta e che sarà croce
e delizia durante uno dei decenni più bui per lui e per le vecchie glorie del
rock e del pop. Gli anni ottanta non lasciano scampo, per tutti quelli che non
sanno creare roboante musica da stadio. Basti pensare ad artisti come Bruce Springsteen
e Joe Cocker, i quali pur riuscendo a produrre grandissima musica, finiranno
per snaturarsi, soprattutto in rapporto al pubblico e a quel modo di produrre
musica così intimo e speciale del decennio precedente. E Dylan tenterà di
percorrere la stessa strada di tutti gli altri big che avevano iniziato a fare
musica a cavallo tra i ‘60 e i ‘70. Per farlo si avvale di uno stuolo di musicisti
di altissimo livello. Basti leggere con attenzione i crediti di Empire
Burlesque per farci un'idea. Ci sono pezzi importanti di Tom Pettyand
The Heartbreakers, così come alcuni ex e attuali Rolling Stones, e
trovano spazio perfino due membri della E Street Band (ma che poi nel
disco non si sentiranno), senza contare i suoi fidati Al Kooper, Jim
Keltner, Robbie Shakespeare, e le prime apparizioni di musicisti come
Stuart Kimball, Benmont Tench con qui da qui in poi stringerà un sodalizio
destinato a durare nel tempo. Dietro la console c'è anche il mago dei remix
dance Arthur Baker, nel tentativo di dare ai suoni un’impronta al passo
coi tempi e marcatamente radiofonica. L'idea è quella di mettere assieme del
materiale valido per dare seguito al successo, di critica e pubblico,
rappresentato dal suo disco precedente: Infidels. Purtroppo la cosa non
riesce, non perché le canzoni siano prive di valore e di impegno, basti pensare
che da queste session verrà scartato un pezzo come New Danville Girl,
poi recuperato sull'album successivo con un nuovo titolo e un testo leggermente
differente. Si tratta del brano Brownsville Girl scritto con Sam
Shepard. I testi spesso richiamano a un immaginario filmico, aspetto forse
più penalizzante che vincente per il lavoro finale. Non a caso si è sempre detto
che Dylan deve fare Dylan, punto. Sarà così? Qui si percepisce l’idea di un
album drive-in più che Disco Music, come molti hanno scritto, denigrando il
risultato di Empire Burlesque.
Al netto di
un'operazione che pubblico e critica in parte rigettano, senza capire né
ascoltare con impegno, (ma ci può stare, visto che siamo nei tremendi anni
ottanta!) troviamo un tentativo di intercettare quel suono a metà tra rock, pop
contemporaneo e soul. Il sound, tolte le diavolerie di tendenza modaiole, si
rifà in modo netto al periodo 1979-1981, quel cosiddetto periodo religioso, che
la critica ha killerato senza pietà. Eppure ci sono canzoni e suoni che ancora
oggi possono dire la loro. Il valore di brani come I'll Remember You, Emotionally
Yours, When the Night Comes Falling from the Sky, della scarna e
solitaria DarkEyes, non si discutono. C'è poi un brano che a
nostro parere risulta riuscito e ben calibrato, nel tentativo di rincorrere il
suono contemporaneo dell'epoca. Parliamo di Tight Connection to My Heart
(Has Anybody Seen My Love). Uno dei pezzi dove Dylan riesce ad attualizzare
e modernizzare il proprio canone, senza snaturarsi troppo, ma centrando
l'obiettivo. Empire Burlesque come il precedente Infidels,
risente per certi versi della svolta evangelica, in termini testuale. DonMcLeese afferma: "Anche questo lavoro che esce come album laico,
nel testo del brano di apertura recita un verso che è un riferimento esplicito
al rituale cristiano della comunione. Ci sono altri episodi che riportano alla
luce queste cose. Forse non le afferma, ma se ne distacca, di certo le evoca e
questo ha un significato. Il soul che sentiamo nei solchi di questo lavoro, con
un brano molto bello come Emotionally Yours è il perfetto ponte tra il
Dylan tardo settanta e quello di metà anni ottanta. Un disco complesso ed
eclettico, che è stato etichettato e giudicato come scarso, mentre era un
audace tentativo di stare al passo. Il tentativo di fare un grande disco, un
grande disco di Bob Dylan, con un sound attuale per l'epoca. Un suono che
nei migliori episodi è certamente formidabile. O meglio: se tutti brani fossero
al livello della prima traccia, di I'll Remember You e di When the
Night Comes Falling from the Sky oggi potremmo parlare del riuscito sequel
di Infidels. Così purtroppo non è stato. Bisogna perciò tenere il buono
e archiviare i pezzi irrisolti e meno riusciti. Certo, è innegabile come di lì
a breve, le canzoni brutte e non riuscite diventeranno tante, per un grande autore
come Dylan. Per Alex Lubet il disco va di pari passo con brani
che hanno più cambi di accordi, forme più complesse rispetto al materiale
precedente. Certi brani si avvalgono di meravigliose melodie, ottimi cambi di
accordi, ma non si sposano perfettamente con i testi. Una complessità musicale
che nuoce all’audience dell’album, dove Dylan ci mostra di padroneggiare
strumenti di cui la gente non pensava potesse servirsi. Anche il critico Robert
Christgau si distacca dalla lista dei detrattori di questo episodio,
affermando che nella migliore delle ipotesi Dylan ha raggiunto la
professionalità che ha sempre affermato come suo obiettivo; potendo contare sul
talento necessario per inventare un buon gruppo di canzoni. Per chi fosse
interessato a recuperare una recensione negativa ma molto divertente,
consigliamo quella di Greil Marcus, dal titolo Un’altra rentrée,
apparsa su Village Voice il 13 agosto 1985. Stavolta un signorile Marcus
non definisce il lavoro rifiuto alimentare organico, ma si limita a definirlo
fanghiglia, un disco meglio assemblata rispetto a Street Legal (Sic!).
Peccato che
chi applauda al futuro Oh Mercy non abbia apprezzato e compreso a fondo
il valore e il senso di Empire Burlesque per il suo autore. Perchè senza
questi esperimenti e quel desiderio ossessivo di restare sulla breccia, (un
fiasco completo) non avremmo in seguito i tour con Tom Petty e la sua
band, ma soprattutto non avremmo un disco nel 1989 prodotto da Daniel Lanois.
Esiste forse
una categoria di persone più povere di spirito rispetto a quella del critico
musicale o del critico in generale? Pensare oggi a Self Portrait, decimo lavoro
in studio di Bob Dylan e secondo album doppio a distanza di quattro anni da
Blonde on Blonde, ci fa pensare subito al film di Woody Allen Io e Annie, dove
il solone di turno stroncava senza pietà la poetica di Federico Fellini. Perché a distanza di
cinquant'anni ci sarebbe da capire il motivo per cui questo disco venne accolto
con tanta ostilità! Eppure Dylan coadiuvato dall'abituale produttore Bob
Johnston non fa altro che radunare il solito gruppo di lavoro, ancora una
volta diviso tra le sessions di New York e quelle di Nashville. Mette dentro un
po' di generi differenti, di musicisti in voga e di robusti e abili virtuosi
che in studio erano abituati a sfornare dischi importanti e a collaborare con
solisti di primissimo livello. Però qui qualcosa va davvero storto! Perchè
dall'essere d'accordo con il saccente Greil Marcus al definire questo disco un
capolavoro ce ne passa. Quindi scendiamo almeno di uno o due livelli, rispetto
ai lavori che lo avevano preceduto e che già erano qualcosa di differente
rispetto al trittico Bringing - Highway - Blonde, ma anche se si prende a modello
un disco pienamente centrato come John Wesley Harding e il breve ma riuscito
Nashville Skyline, vediamo che la differenza è subito evidente. Eppure,
basterebbe andare oltre le svagate prime tracce e arrivare fino al cuore del
primo disco, quello che va da Days of 49 passando per Let It Be Me fino a
Living the Blues. Oggi un disco così verrebbe acclamato come un mezzo miracolo,
ma in effetti qui siamo nel 1970 e i critici musicali stavano vivendo la loro
stagione d'oro, come del resto anche l'industria musicale e quella
dell'intrattenimento analogico. Quindi è importante calarsi bene nella parte,
inforcare gli occhiali severi e spessi e dire che Dylan ha sbagliato tiro,
permettendosi di cantare bene, di farsi accompagnare da bravi session men e di
variare negli arrangiamenti, come mai aveva saputo fare fino a quel momento.
Self
Portrait venne registrato in più sessioni svolte tra il 24 aprile del 1969 e il
31 marzo del 1970; vi presero parte un gruppo eterogeneo di musicisti, tra cui
Al Kooper, Ron Cornelius, Pete Drake, Charlie Daniels, Kenneth Buttrey, Charlie
McCoy, David Bromberg e naturalmente The Band, per le registrazioni live al
Festival dell’Isola di Wight.
Questo disco
è un manifesto programmatico di quello che il suo autore avrebbe continuato a
proporre al pubblico e alla critica, durante i cinquant’anni a seguire. Dobbiamo
essere onesti: i dischi di Dylan vengono incensati e stroncati senza che
vengano ascoltati né assimilati. È appena accaduto anche con questo ultimo
capolavoro, Rough and Rowdy Ways. Dopo un po' ci si stanca e si decide di
staccare la spina. Anche perché ci pensa il tempo a riqualificare e ristabilire
le gerarchie. Escono inediti e registrazioni alternative e ci mostrano un
artista vivo e vegeto, che canta e suona meglio, concentrato. Soprattutto con
Dylan venire abbagliati, sorpresi e spiazzati è all'ordine del giorno e del
gioco e non deve affatto stupire. Basta aprire una rivista del cazzo o una
testata hipster per leggere tutto e il contrario di tutto su un disco prodotto
da Mr. Zimmerman. Eppure non ci vuole molto per capire che l'artista che diede
alle stampe Self Portrait sapeva bene cosa aveva pubblicato. Possiamo dirci
stupiti e batterci il petto, con aria affranta e frustrazione. Ma un artista
finito non rilascerebbe a distanza di così poco un nuovo disco come New
Morning, e non avrebbe tenuto a decantare per decenni quelle perle che oggi
possiamo ascoltare sulla decima uscita dei Bootleg Series, Another Self
Portrait del 2013.
Credi di
conoscermi? Credi di capire che tipo di musica dovrei fare. Eccoti 24 brani, a
riprova che non sai prevedere cosa farò. Quel che colpisce è il fatto che buona
parte del disco riguardi luoghi dove è già stato o luoghi dove andrà in
seguito. Si tratta di dispetti, scherzi d'autore e non mi stancherò mai di
essere indignato per le parole che scrisse Greil Marcus. Quando non si capisce
qualcosa bisogna avere il buon senso di chiedere o se non si è umili, sarebbe
preferibile tacere. Il tempo è sempre un grandissimo gentiluomo e con Dylan,
che ha mostrato sempre di dare del tu al concetto temporale, anche di più. Per
onore di cronaca è importante dire che non tutti i critici nel corso degli anni
si sono schierati contro questo disco, almeno non in modo così perentorio e
demolitivo. Secondo Kim Ruhel redattore della rivista alt-country No Depression
che Dylan ne fosse consapevole o meno, Self Portrait sembra essere solo
l'ennesimo esempio di un lavoro in anticipo sui tempi. Il dato interessante è
con quante voci qui riesca a cantare. Spazia infatti dal rock and roll, dal
country al blues, infilando spesso cose un po' bizzarre, ma non per queste
prive di valore o di interesse. Lo stesso utilizzo dei cori femminili e degli
archi, per non parlare della sezione fiati, aiuta le canzoni e il suo
interprete a mostrare tutto il suo bagaglio di influenze, curiosità e interessi
compresi.
Toccanti e
profonde sono poi le parole di Marc Bolan, musicista che si distacca dal
coro delle stroncature affermando: "Belle Isle mi ha riportato alla
memoria tutti i momenti di tenerezza che io abbia mai provato per un altro
essere umano, e questo, nel panorama superficiale della musica pop, è davvero
una grande cosa. Per favore, tutte le persone che scrivono amaramente di una
stella perduta, ricordate che con la maturità arriva il cambiamento, così come
la morte segue la vita”.
È interessante
rileggere in una chiave retrospettiva alcune insinuazioni su un Dylan stanco e
a fine corsa, che ironizzano tirando il ballo il titolo della prima traccia:
All The Tired Horses. Nel 2021 dopo 39 dischi e innumerevoli live, pensare a un
ventinovenne Dylan stanco strappa sicuramente più di un sorriso! Gli
illustrissimi critici musicali Jimmy Guterman e Owen O'Donnell,
nel loro libro del 1991 The Worst Rock and Roll Records of All Time
sentenziarono: "Lo scioglimento dei Beatles poco prima dell'uscita di
questo album segnò la fine degli anni Sessanta; Self Portrait segnò la fine di
Bob Dylan". Insomma siamo alle solite: chi ha orecchie per intendere e per
apprezzare, ascolti, ma la cosa che un po' lascia perplessi a fine disco, dopo
oltre settanta minuti di musica è che ci siamo divertiti non poco. Merda o non
merda, Self Portrait ha vinto la sua sfida contro il tempo e non è un disco
dimenticato. Vi pare poco?