mercoledì 19 giugno 2024

A proposito di Rough and Rowdy Ways

 Rough and Rowdy Ways: un Bob Dylan ruvido e ispirato 

E’ un Dylan diverso quello che torna a calcare le scene. Fermamente convinto del fatto che ogni sette anni il nostro corpo possa mutare, l’Autore si presenta con un pugno di canzoni durante l’ora più buia.Ad attenderlo, manco a farlo apposta sono davvero Rough and Rowdy Times. Già il tempo, i tempi:chi meglio di un artista con una carriera alle spalle lunga mezzo secolo, potrebbe giocare con il tempo, con lo spazio? Bob Dylan aveva scritto queste canzoni presumibilmente prima dell’emergenza da Covid-19, specialmente prima che l’America tornasse a bruciare. Ed è strano non abbia citato, in un disco dove c’è tanto cinema l’Orson Welles che parlando dell’antica Roma elogiava le qualità dell’orchestra di Nerone, che suonava magnificamente, mentre il mondo intorno brucia. Non sappiamo se Dylan sia un appassionato di Paolo Sorrentino e della sua Grande Bellezza, ma ricordiamo di certo la sua passione per Fellini e per Claudia Cardinale. Canzoni che inneggiano alla satira, come i classici greci prima, latini poi. La gente diceva che era una spugna; lui si definiva uno spedizioniere musicale per il quale i diritti di proprietà erano provvisori, scriveva Daniel Mark Epsten in The Ballad of Bob Dylan.

Rough and Rowdy Ways ha un titolo che fa il verso, strizzando l’occhio a uno dei suoi dischi meno apprezzati dalla critica: Street-legal. Altro contesto, altra epoca. Street-legal usciva in piena esplosione punk e new wave; giustamente non venne capito, né apprezzato, se non a distanza di tempo. Era un lavoro enigmatico e oscuro, proprio come questo Rough and Rowdy Ways: comune denominatore è l’energia, in quel caso legata alla crisi matrimoniale, stavolta invece più spirituale, trascendente. Per certi versi questo disco segna un ritorno, a distanza di otto anni dall’ultimo lavoro autografo: Tempest del 2012. Nella sua lunga e sterminata produzione in studio, lo spedizioniere musicale Bob Dylan non si era mai fermato così a lungo. L’ultima lunga pausa, come autore di canzoni, era stata proprio negli anni novanta, quando dopo Oh, Mercy e il meno importante Under the Red Sky, era tornato a incidere brani tradizionali e cover. Ci fu poi il ritorno con Time Out of Mind, lavoro che di fatto riaccese la miccia della creatività, da cui arrivarono in successione quattro nuovi lavori, tutti di livello medio-alto. Quasi dei capolavori, sicuramente dei classici contemporanei. Alla sua maniera. Ed era tanto che non scriveva e non raccontava storie con un taglio così evocativo, ispirato: dichiaratamente cinematografico. Difficile e dispendioso citare tutti i rimandi e annotare tutti i nomi contenuti in questo pregevole ritorno discografico. Di certo balza agli occhi un richiamo all’horror, al gotico nordamericano. Poe e Lovecraft, ma per restare nell’ambito dell’immaginario pop, Dylan parla il linguaggio della Hollywood classica, tirando in ballo Al Pacino e Marlon Brando, Indiana Jones e Nightmare, Boris Karloff e American Graffiti, Marilyn Monroe, Elvis Presley e Frank Sinatra, Woody Allen, Buster Keaton e Bob Fosse, riportando tutto a casa, compresoil miti, includendo i poeti e gli eroi, includendo la propria esperienza e questo scomodo fardello.

Shakespeare, he’s in the alley, ma è una tragedia ancora una volta filtrata attraverso uno schermo cinematografico, come nella pellicola del 1953 di Joseph L. Mankiewicz, con Marlon Brando e James Mason. L’atmosfera ricorda anche una vecchia pellicola di Vincent Price, mentre aleggia il fantasma di Robert Mitchum in The Night of the Hunter. Spirit on the water! Spettri, trascendenza e oscurità. Il baratro, così come la fine, è prossimo. Conduce però non in un luogo allegorico, ma semplicemente al Black Horse Tavern di Armageddon Street.

Oggi più che mai è davvero facile riavvolgere il nastro e far partire un brano a caso, una volta ho visto un film che parlava di un uomo che attraversava il deserto ed era interpretato da Gregory Peck. Veniva ucciso da un ragazzo assetato di gloria che cercava di farsi un nome. Tutto ciò avviene prima di giungere dalle parti di Key West, girando la manopola di una vecchia radio valvolare analogica. Ironia della sorta, Dylan citando stazioni radio pirata lontane nel tempo e nella memoria ci riporta alle suggestioni di In the Days Before Rock ‘N’ Roll, brano di Van Morrison dove comparivano proprio le frequenze di Luxembourg e Budapest. E’ come se ci fosse la piena volontà di trascinare sulle spalle o solo nella memoria, tutto ciò che è stato, capace di viaggiare leggero, come una piccola valigia, portando dietro tutte le cose importanti e anche quelle futili. C’è l’idea di America e di Occidente, c’è la voce di una Nazione, oppure no. C’è un riferimento alla Terra di Oz, ma anche ai presidenti degli Stati Uniti che Dylan ha conosciuto e attraversato, forse con indifferenza, più probabile con piena coscienza. Non è certo casuale il riferimento a Ginsberg, Corso e Kerouac, le maggiori voci della Beat Generation. Senso di appartenenza? Probabilmente. In un disco che fa della citazione la sua arma prediletta, è necessario menzionare almeno Billy “The Kid” Emerson e Jimmy Reed, così come Louis Armstrong e Bud Powell. Non può mancare un riferimento alla Sacra Bibbia, immancabile totem dylaniano. Sceglietelo da voi però il salmo che preferite. Solo un suggerimento: visti i tempi evitate il Libro della Rivelazione. I opened my heart to the world and the world came in.

Rough and Rowdy Ways: focus on the tracks

My Own Version of You è una delle tre gemme prezioso di questo disco. Il passo è sinuoso ed elegante: una nuova, audace,Ain’t Talkin. Più aggraziata, meno sentenziosa e definitiva. Quasi a dare lo start al disco, dopo una falsa partenza e un blues-stomp ingannevole e fuorviante. Il testo è esemplare, un affresco che trasuda un gusto per il gotico. Un vero e proprio racconto in prima persona, davvero simile a quelli a cui ci aveva abituato negli anni sessanta e settanta. Un ennesimo ritorno con impeccabile e implacabile sagacia. Un Bob Dylan sardonico e mefistofelico, a metà tra Poe, Lovecraft e Mary Shelley. Un nuovo classico?

Black Rider è un altro brano capolavoro, sia da un punto di vista stilistico che formale. A metà tra un racconto di Italo Calvino e il Cavaliere Nero di Proietti. Ricorda per certe atmosfere e intarsi di chitarra il Leonard Cohen andaluso e il Tom Waits più teatrale e oscuro.

Key West (Philosopher Pirate) è un pezzo dedicato alla città della Florida dove il regista Joe Dante aveva ambientato uno dei suoi film più ispirati, Matinée, pellicola del 1993, che si svolgeva durante la crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962. Dylan descrive questo posto come una specie di paradiso in terra attraverso un ispirato e poetico flusso di coscienza dove trovano spazio anche i poeti beat Ginsberg, Corso e Kerouac. La melodia fa pensare subito a The Band e alla fisarmonica di Garth Hudson, ma anche al Tom Waits di Cold Cold Ground. “Key West è il posto migliore dove trovarsi se si cerca l’immortalità, Key West è il paradiso divino. Se hai perso il senno, lo ritroverai là. Key West è sulla linea dell’orizzonte”. Un pezzo che da solo vale il disco, se non fosse che stiamo parlando di uno degli album più ispirati di Bob Dylan degli ultimi 30 anni.

Dario Greco Web Writer

sabato 15 giugno 2024

Il cambio di guardia dylaniano: Street-Legal



Un fallimentare cambio di guardia per Bob Dylan in piena esplosione punk

 "C'è un leone sulla strada, c'è un demone sfuggito, ci sono un milione di sogni passati, c'è un panorama rapito. Mentre la sua bellezza si nasconde e la vedo togliere le tende, non vorrei, ma poi ancora, forse posso. Oh, se solo potessi trovarti stanotte."

Anche per un Forever Young come Dylan arriva il momento della maturità. Street-Legal è infatti il suo 18esimo disco in studio, pubblicato il 15 giugno 1978. Per chi vi scrive si tratta di un album particolare, per cui ha sempre provato affetto e condiscendenza. Voglio dirlo esplicitamente: amo Street-Legal, per ragioni che tenterò di eviscerare in questo commento retrospettivo.

Secondo un modo di pensare convenzionale, è più semplice scrivere di argomenti che ci appartengono e che ci stanno maggiormente a cuore. Ritengo sia un luogo comune da sfatare. Detto ciò, tenterò di risalire la china e darvi un punto di vista personale di questo disco. 

Difficile perché nonostante siano trascorsi più di 43 anni dalla data di pubblicazione, critica e pubblico restano ancora divisi. Bisogna sottolineare come vi sia, in questo caso, una distanza netta tra il punto di vista del pubblico europeo e quello nordamericano. Per tanto tempo si è detto che questo disco per tematiche musicali e testuali è più vicino allo spirito e al modo di essere di noi latini. Sarà anche vero, dato che io ci sento dentro davvero tante anime ed energie; soprattutto la voglia da parte dell' autore di realizzare qualcosa di nuovo e di diverso, con un bel passo audace e prorompente. Artisticamente parlando gli ultimi prodotti erano stati tra i migliori del decennio, con un Dylan tornato prepotentemente in corsa.

Come sempre si scatena la gara all'interpretazione critica di messaggi cifrati, dato che in questa particolare occasione le liriche risultano estremamente criptiche, anche rispetto agli elevati standard di un artista come il Nostro. Tuttavia ciò la cosa che lascia perplessi e un po' straniati è il tentativo estremo da parte della critica, la quale vorrebbe interpretare i testi di questo Dylan del '78 come quelli di un misogino rancoroso e risentito verso il gentil sesso. Quasi l'esatto opposto rispetto a quel "poeta stilnovista" che  da più di 15 anni aveva idealizzato la figura e il proprio universo femminile. Immancabile l'intervento del puntale Greil Marcus, sempre pronto a lanciare la prima pietra, per via di un testo che allude alle mansioni e a quello che dovrebbe fare il personaggio femminile in Is Your Love in Vain?

Chi vi scrive ha tentato di analizzare il testo in senso metaforico e letterale, e non ha trovato nulla di strano, distorto e incoerente con la poetica gentile e romantica che l'autore ha portato avanti per lunghissimo tempo. Possiamo quindi dire che verso questo disco vi sia autentico livore e accanimento, un po' voluto, un po' casuale, forse. Il 1978 è un anno fondamentale per la musica pop. Elvis Presley era morto da pochi mesi, nello stesso tempo c'era stata la prima ondata punk rock che si era abbattuta sugli States, come era già avvenuto più di dieci anni prima con la British Invasion. Non solo, era il momento di altri cantautori che più o meno si ispiravano dichiaratamente a Bob Dylan con l'intenzione di detronizzarlo dalla propria leadership. Erano emersi autori come Tom Waits, Bob Seger, Patti Smith, Tom Petty e ancora di più, erano gli anni di massimo splendore di Bruce Springsteen

Il cantautore del New Jersey durante i suoi esordi era stato più volte accostato e paragonato a Dylan, ma adesso stava accadendo qualcosa di diverso. Complice l'utilizzo del sax, con interventi a opera di Steve Douglas, il sound di Street-Legal era stato accostato a quello di Springsteen e del suo fedele sassofonista, Clarence Clemons. In effetti prima di allora Dylan non aveva mai pubblicato un disco con la presenza fissa di un sassofono. Questo è un fatto insindacabile. Tuttavia l'utilizzo di fiati e ottoni aveva caratterizzato alcune prove precedenti come quella di Blonde on Blonde e di Self Portrait. 

Oggi abbiamo scoperto che una sezione fiati era stata utilizzata anche per New Morning del 1970, poi messa da parte a favore di una soluzione più essenziale degli arrangiamenti. Però l'analogia tra il sound di Bruce Springsteen e quello di Street-Legal si interrompe qui. Non serve un professore di musica, né un sassofonista per notare che la struttura dei brani, l'uso del sax e altro ancora non ha punti di contatto tra Dylan e Springsteen, specialmente perché quel genere di suono e di stile non è stato creato nel New Jersey, ma deve la propria origine a cose arrivate ben prima della pubblicazione di Greetings from Asbury Park, NJ del 1973. Poco prima c'erano state le intuizioni di altri artisti come Rolling Stones, ma soprattutto come Van Morrison.

Morrison infatti ispirandosi al sound di artisti black aveva preso a piene mani dalle etichette Atlantic e Stax, ispirandosi ad alcuni leggendari performer e a sezioni fiati che valorizzavano il sound del sassofono, unito a quello del pianoforte e dell'organo Hammond B3. Tutta questa digressione mi è utile per dire che il suono che stava cercando di ottenere Dylan da questo album virava verso la black music. Non era ancora arrivato però il tempo di fare un'inversione di marcia e puntare dritti ai Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield, Alabama. 

Questa volta Dylan sarebbe inciampato in una registrazione californiana, dove però la sua ricerca di un nuovo sound avrebbe prodotto un disco davvero agile e ricco di sfumature, tra il blues e il soul, con una presenza di cori femminili e tutto quello che serviva in termini di energia e spinta della sezione ritmica, delle percussioni e delle tastiere. Questo disco è stato per lungo tempo criticato e messo alla gogna per il suo suono. Oggi grazie alla possibilità di ascoltare il remix di Don DeVito, realizzato nel 1999, abbiamo una pulizia dei suoni che ci fa intuire a cosa stava mirando Dylan. Per non parlare di alcune canzoni che all'epoca non vennero capite né valutate per il loro reale potenziale. 

Si tratta di materiale come Changing of the Guards, No Time to Think, Baby, Stop Crying, ma soprattutto di Senor (Tales of Yankee Power) e della conclusiva, dolonte e maestosa Where Are You Tonight? (Journey Through Dark Heat). Brani che dicono tanto di questo disco frainteso, che a distanza di 40 anni possiamo riposizionare dove è giusto che stia. Appena un passo dietro i grandi classici, ma in una posizione di rilievo tra gli appassionati di buona musica, di chiunque abbia una passione per il rock blues e quel genere di sound urbano, sanguigno e pulsante, che a partire da Elvis e Orbison, tira dritto verso gli Stones, gli Animals, Van Morrison e Santana. Dylan che già in passato si era tinto le mani e il viso di nero, stavolta si cala completamente nella black music e affiora con grande consapevolezza, tanto che lo step successivo sarà proprio quello di farsi produrre da Jerry Wexler e Barry Beckett. Se vi pare poco!

 Signori, disse lui, non ho bisogno della vostra organizzazione, ho lustrato le vostre scarpe. Ho smosso le vostre montagne e segnato le vostre carte, ma il paradiso è in fiamme, o vi preparate ad essere eliminati oppure i vostri cuori devono avere il coraggio per il cambio della guardia.

Dario Twist of Fate



lunedì 10 giugno 2024

Empire Burlesque (Dylan at the Movies)

 Dylan at the Movies 

Quando Bob Dylan scrive i nuovi pezzi per quello che sarà il suo 23esimo disco in studio, la cosa che gli sta più a cuore è dimostrare, (a sé stesso) di poter stare sul pezzo ed essere competitivo con la musica che gira intorno. Un po’ quello che era stato il chiodo fisso della seconda metà dei settanta e che sarà croce e delizia durante uno dei decenni più bui per lui e per le vecchie glorie del rock e del pop. Gli anni ottanta non lasciano scampo, per tutti quelli che non sanno creare roboante musica da stadio. Basti pensare ad artisti come Bruce Springsteen e Joe Cocker, i quali pur riuscendo a produrre grandissima musica, finiranno per snaturarsi, soprattutto in rapporto al pubblico e a quel modo di produrre musica così intimo e speciale del decennio precedente. E Dylan tenterà di percorrere la stessa strada di tutti gli altri big che avevano iniziato a fare musica a cavallo tra i ‘60 e i ‘70. Per farlo si avvale di uno stuolo di musicisti di altissimo livello. Basti leggere con attenzione i crediti di Empire Burlesque per farci un'idea. Ci sono pezzi importanti di Tom Petty and The Heartbreakers, così come alcuni ex e attuali Rolling Stones, e trovano spazio perfino due membri della E Street Band (ma che poi nel disco non si sentiranno), senza contare i suoi fidati Al Kooper, Jim Keltner, Robbie Shakespeare, e le prime apparizioni di musicisti come Stuart Kimball, Benmont Tench con qui da qui in poi stringerà un sodalizio destinato a durare nel tempo. Dietro la console c'è anche il mago dei remix dance Arthur Baker, nel tentativo di dare ai suoni un’impronta al passo coi tempi e marcatamente radiofonica. L'idea è quella di mettere assieme del materiale valido per dare seguito al successo, di critica e pubblico, rappresentato dal suo disco precedente: Infidels. Purtroppo la cosa non riesce, non perché le canzoni siano prive di valore e di impegno, basti pensare che da queste session verrà scartato un pezzo come New Danville Girl, poi recuperato sull'album successivo con un nuovo titolo e un testo leggermente differente. Si tratta del brano Brownsville Girl scritto con Sam Shepard. I testi spesso richiamano a un immaginario filmico, aspetto forse più penalizzante che vincente per il lavoro finale. Non a caso si è sempre detto che Dylan deve fare Dylan, punto. Sarà così? Qui si percepisce l’idea di un album drive-in più che Disco Music, come molti hanno scritto, denigrando il risultato di Empire Burlesque.  

Al netto di un'operazione che pubblico e critica in parte rigettano, senza capire né ascoltare con impegno, (ma ci può stare, visto che siamo nei tremendi anni ottanta!) troviamo un tentativo di intercettare quel suono a metà tra rock, pop contemporaneo e soul. Il sound, tolte le diavolerie di tendenza modaiole, si rifà in modo netto al periodo 1979-1981, quel cosiddetto periodo religioso, che la critica ha killerato senza pietà. Eppure ci sono canzoni e suoni che ancora oggi possono dire la loro. Il valore di brani come I'll Remember You, Emotionally Yours, When the Night Comes Falling from the Sky, della scarna e solitaria Dark Eyes, non si discutono. C'è poi un brano che a nostro parere risulta riuscito e ben calibrato, nel tentativo di rincorrere il suono contemporaneo dell'epoca. Parliamo di Tight Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love). Uno dei pezzi dove Dylan riesce ad attualizzare e modernizzare il proprio canone, senza snaturarsi troppo, ma centrando l'obiettivo. Empire Burlesque come il precedente Infidels, risente per certi versi della svolta evangelica, in termini testuale. Don McLeese afferma: "Anche questo lavoro che esce come album laico, nel testo del brano di apertura recita un verso che è un riferimento esplicito al rituale cristiano della comunione. Ci sono altri episodi che riportano alla luce queste cose. Forse non le afferma, ma se ne distacca, di certo le evoca e questo ha un significato. Il soul che sentiamo nei solchi di questo lavoro, con un brano molto bello come Emotionally Yours è il perfetto ponte tra il Dylan tardo settanta e quello di metà anni ottanta. Un disco complesso ed eclettico, che è stato etichettato e giudicato come scarso, mentre era un audace tentativo di stare al passo. Il tentativo di fare un grande disco, un grande disco di Bob Dylan, con un sound attuale per l'epoca. Un suono che nei migliori episodi è certamente formidabile. O meglio: se tutti brani fossero al livello della prima traccia, di I'll Remember You e di When the Night Comes Falling from the Sky oggi potremmo parlare del riuscito sequel di Infidels. Così purtroppo non è stato. Bisogna perciò tenere il buono e archiviare i pezzi irrisolti e meno riusciti. Certo, è innegabile come di lì a breve, le canzoni brutte e non riuscite diventeranno tante, per un grande autore come Dylan. Per Alex Lubet il disco va di pari passo con brani che hanno più cambi di accordi, forme più complesse rispetto al materiale precedente. Certi brani si avvalgono di meravigliose melodie, ottimi cambi di accordi, ma non si sposano perfettamente con i testi. Una complessità musicale che nuoce all’audience dell’album, dove Dylan ci mostra di padroneggiare strumenti di cui la gente non pensava potesse servirsi. Anche il critico Robert Christgau si distacca dalla lista dei detrattori di questo episodio, affermando che nella migliore delle ipotesi Dylan ha raggiunto la professionalità che ha sempre affermato come suo obiettivo; potendo contare sul talento necessario per inventare un buon gruppo di canzoni. Per chi fosse interessato a recuperare una recensione negativa ma molto divertente, consigliamo quella di Greil Marcus, dal titolo Un’altra rentrée, apparsa su Village Voice il 13 agosto 1985. Stavolta un signorile Marcus non definisce il lavoro rifiuto alimentare organico, ma si limita a definirlo fanghiglia, un disco meglio assemblata rispetto a Street Legal (Sic!).

Peccato che chi applauda al futuro Oh Mercy non abbia apprezzato e compreso a fondo il valore e il senso di Empire Burlesque per il suo autore. Perchè senza questi esperimenti e quel desiderio ossessivo di restare sulla breccia, (un fiasco completo) non avremmo in seguito i tour con Tom Petty e la sua band, ma soprattutto non avremmo un disco nel 1989 prodotto da Daniel Lanois.

Se vi sembra poco…

Dario Twist of Fate

sabato 8 giugno 2024

Cavalli di Ritorno al sole Dylaniano


Self Portrait (1970)

Esiste forse una categoria di persone più povere di spirito rispetto a quella del critico musicale o del critico in generale? Pensare oggi a Self Portrait, decimo lavoro in studio di Bob Dylan e secondo album doppio a distanza di quattro anni da Blonde on Blonde, ci fa pensare subito al film di Woody Allen Io e Annie, dove il solone di turno stroncava senza pietà la poetica di Federico Fellini. Perché a distanza di cinquant'anni ci sarebbe da capire il motivo per cui questo disco venne accolto con tanta ostilità! Eppure Dylan coadiuvato dall'abituale produttore Bob Johnston non fa altro che radunare il solito gruppo di lavoro, ancora una volta diviso tra le sessions di New York e quelle di Nashville. Mette dentro un po' di generi differenti, di musicisti in voga e di robusti e abili virtuosi che in studio erano abituati a sfornare dischi importanti e a collaborare con solisti di primissimo livello. Però qui qualcosa va davvero storto! Perchè dall'essere d'accordo con il saccente Greil Marcus al definire questo disco un capolavoro ce ne passa. Quindi scendiamo almeno di uno o due livelli, rispetto ai lavori che lo avevano preceduto e che già erano qualcosa di differente rispetto al trittico Bringing - Highway - Blonde, ma anche se si prende a modello un disco pienamente centrato come John Wesley Harding e il breve ma riuscito Nashville Skyline, vediamo che la differenza è subito evidente. Eppure, basterebbe andare oltre le svagate prime tracce e arrivare fino al cuore del primo disco, quello che va da Days of 49 passando per Let It Be Me fino a Living the Blues. Oggi un disco così verrebbe acclamato come un mezzo miracolo, ma in effetti qui siamo nel 1970 e i critici musicali stavano vivendo la loro stagione d'oro, come del resto anche l'industria musicale e quella dell'intrattenimento analogico. Quindi è importante calarsi bene nella parte, inforcare gli occhiali severi e spessi e dire che Dylan ha sbagliato tiro, permettendosi di cantare bene, di farsi accompagnare da bravi session men e di variare negli arrangiamenti, come mai aveva saputo fare fino a quel momento.

Self Portrait venne registrato in più sessioni svolte tra il 24 aprile del 1969 e il 31 marzo del 1970; vi presero parte un gruppo eterogeneo di musicisti, tra cui Al Kooper, Ron Cornelius, Pete Drake, Charlie Daniels, Kenneth Buttrey, Charlie McCoy, David Bromberg e naturalmente The Band, per le registrazioni live al Festival dell’Isola di Wight. 

Questo disco è un manifesto programmatico di quello che il suo autore avrebbe continuato a proporre al pubblico e alla critica, durante i cinquant’anni a seguire. Dobbiamo essere onesti: i dischi di Dylan vengono incensati e stroncati senza che vengano ascoltati né assimilati. È appena accaduto anche con questo ultimo capolavoro, Rough and Rowdy Ways. Dopo un po' ci si stanca e si decide di staccare la spina. Anche perché ci pensa il tempo a riqualificare e ristabilire le gerarchie. Escono inediti e registrazioni alternative e ci mostrano un artista vivo e vegeto, che canta e suona meglio, concentrato. Soprattutto con Dylan venire abbagliati, sorpresi e spiazzati è all'ordine del giorno e del gioco e non deve affatto stupire. Basta aprire una rivista del cazzo o una testata hipster per leggere tutto e il contrario di tutto su un disco prodotto da Mr. Zimmerman. Eppure non ci vuole molto per capire che l'artista che diede alle stampe Self Portrait sapeva bene cosa aveva pubblicato. Possiamo dirci stupiti e batterci il petto, con aria affranta e frustrazione. Ma un artista finito non rilascerebbe a distanza di così poco un nuovo disco come New Morning, e non avrebbe tenuto a decantare per decenni quelle perle che oggi possiamo ascoltare sulla decima uscita dei Bootleg Series, Another Self Portrait del 2013. 

Credi di conoscermi? Credi di capire che tipo di musica dovrei fare. Eccoti 24 brani, a riprova che non sai prevedere cosa farò. Quel che colpisce è il fatto che buona parte del disco riguardi luoghi dove è già stato o luoghi dove andrà in seguito. Si tratta di dispetti, scherzi d'autore e non mi stancherò mai di essere indignato per le parole che scrisse Greil Marcus. Quando non si capisce qualcosa bisogna avere il buon senso di chiedere o se non si è umili, sarebbe preferibile tacere. Il tempo è sempre un grandissimo gentiluomo e con Dylan, che ha mostrato sempre di dare del tu al concetto temporale, anche di più. Per onore di cronaca è importante dire che non tutti i critici nel corso degli anni si sono schierati contro questo disco, almeno non in modo così perentorio e demolitivo. Secondo Kim Ruhel redattore della rivista alt-country No Depression che Dylan ne fosse consapevole o meno, Self Portrait sembra essere solo l'ennesimo esempio di un lavoro in anticipo sui tempi. Il dato interessante è con quante voci qui riesca a cantare. Spazia infatti dal rock and roll, dal country al blues, infilando spesso cose un po' bizzarre, ma non per queste prive di valore o di interesse. Lo stesso utilizzo dei cori femminili e degli archi, per non parlare della sezione fiati, aiuta le canzoni e il suo interprete a mostrare tutto il suo bagaglio di influenze, curiosità e interessi compresi.

Toccanti e profonde sono poi le parole di Marc Bolan, musicista che si distacca dal coro delle stroncature affermando: "Belle Isle mi ha riportato alla memoria tutti i momenti di tenerezza che io abbia mai provato per un altro essere umano, e questo, nel panorama superficiale della musica pop, è davvero una grande cosa. Per favore, tutte le persone che scrivono amaramente di una stella perduta, ricordate che con la maturità arriva il cambiamento, così come la morte segue la vita”.

È interessante rileggere in una chiave retrospettiva alcune insinuazioni su un Dylan stanco e a fine corsa, che ironizzano tirando il ballo il titolo della prima traccia: All The Tired Horses. Nel 2021 dopo 39 dischi e innumerevoli live, pensare a un ventinovenne Dylan stanco strappa sicuramente più di un sorriso! Gli illustrissimi critici musicali Jimmy Guterman e Owen O'Donnell, nel loro libro del 1991 The Worst Rock and Roll Records of All Time sentenziarono: "Lo scioglimento dei Beatles poco prima dell'uscita di questo album segnò la fine degli anni Sessanta; Self Portrait segnò la fine di Bob Dylan". Insomma siamo alle solite: chi ha orecchie per intendere e per apprezzare, ascolti, ma la cosa che un po' lascia perplessi a fine disco, dopo oltre settanta minuti di musica è che ci siamo divertiti non poco. Merda o non merda, Self Portrait ha vinto la sua sfida contro il tempo e non è un disco dimenticato. Vi pare poco?

Dario Greco Web Writer