Provate a
immaginare la scena. Un giovane cantautore non ancora 23enne lancia le proprie
invettive contro un cielo plumbeo, minaccioso, nefasto. Il terzo disco in
studio di Bob Dylan risente fortemente del clima in cui gli Stati Uniti
d'Americano erano piombati durante quel fatidico autunno del 1963. Il
presidente Kennedy era stato assassinato appena sei settimane prima della
pubblicazione di The Times They Are a-Changin' e
il musicista che diede alle stampe il suo primo disco completamente autografo
sente il peso e la responsabilità di un momento così drammatico, privo di
speranza. Una premessa doverosa per un disco che ascoltato oggi manca un po’
del pathos e della leggerezza a cui Dylan ci ha abituati nel corso dei molti
episodi maggiori della sua carriera.
Disco importante per un artista poco più che ventenne, ma già in grado di incarnare, più di tutti, il senso dell'epoca che sta attraversando. Le registrazioni risalgono a un
periodo che va dal 6 agosto al 31 ottobre 1963, motivo per cui il disco pur
risentendo del clima politico e sociale di quel periodo non dovrebbe avere
riferimenti diretti alla storia recente del Paese in cui è ambientato. Sono proprio i temi, i riferimenti biblici e il tono serio a creare un corto
circuito di cui il giovane autore faticherà ad affrancarsi completamente per
lunghissimo tempo. Ancora oggi in Italia e in Europa ci sono ambiti dove
l'equivoco politico e politicizzato permangono e sono probabilmente uno dei
motivi per cui i dischi e la musica di Bob Dylan sono ritenuti, a torto,
materiale valido per una certa parte di utenza e di ascoltatori. Con questo non
intendiamo dire che Dylan è un autore bipartisan o politicamente ambiguo, ma
che non ha certo impostato la propria carriera artistica sull'impegno politico
e partitico. Ugualmente c'è da dire che questo terzo disco risulta ancora oggi,
dopo oltre 50 anni il lavoro più radicale e innodico per una generazione.
Non è servito il tempo e i molti riferimenti nella cultura di massa per rendere questo disco qualcosa di meno vincolato al momento storico in cui è stato realizzato e pubblicato. Eppure vi sono titoli e testi che potrebbero parlare di molte cose diverse. L'ambiguità dei testi di Dylan è leggendaria, ma questa volta, salvo casi isolati, appena poggiamo la puntina sul vinile ci scorre davanti un'istantanea dei primi anni sessanta. Il ché non è necessariamente un male, anche se preferiamo pensare a Dylan come a un autore universale, senza tempo, eterno. Dylan il profeta, l'autore che flagella la propria coscienza e che è più maturo rispetto ai suoi dati anagrafici. Un disco che però si fa fatica ad ascoltare per intero, a differenza del precedente The Freewheelin' o dei lavori che lo seguiranno. Resta questa immagine seria e alcune delle più azzeccate metafore mai enunciate da un cantante fino a quel momento. Ogni brano, sia esso di denuncia o di protesta, ha un senso ed è perfettamente a focus, eppure c'è qualcosa nell'inflessione della voce e nelle note di chitarra che fanno pensare a tematiche troppo serie per essere ascoltate in un normale giorno di pioggia, di sole e di vento di una timida primavera come quella che stiamo attraversando.
“Sapevo
esattamente cosa dire e a chi dirlo. Volevo scrivere un grande brano, una sorta
di pezzo simbolo con versi brevi e concisi, accumulati in modo ipnotico l'uno
sull'altro.”
Di Dylan
potrebbe dirsi che è stato uomo per tutte le stagioni, come accezione
assolutamente positiva. Eppure questo giovane ventitreenne che si affaccia alla
canzone di protesta appare così sicuro e consapevole di un ruolo non certo
semplice. Ha dalle sue la spavalda certezza dei vent'anni ed è un artista con
una missione, come raramente sarà nell'arco della sua lunga carriera. Il terzo
disco che contiene solo materiale autografo è lavoro serio, perentorio che
suona davvero biblico. Le sue più che canzoni, sembrano essere canti di chiesa.
Una chiesa laica e politicamente impegnata, ma che risponde a criteri piuttosto
precisi, codificati. Un giovane ossessionato dal folk, che non nasconde le
proprie influenze e che ammette di aver preso in prestito alcune melodie da
vecchi brani irlandesi e scozzesi. Due esempi su tutti sono quelli di Restless
Farewell dal tradizionale The Parting Glass. Mentre la
melodia di With God on Our Side proviene da The Merry Month of May.
La stessa title track ha qualcosa di già sentito, visto che affonda nelle
radici della tradizione. Aspetto che anziché penalizzarne il valore, lo
accresce, rendendo il brano riconoscibile e semplice da memorizzare. Dal punto
di vista squisitamente sonoro e musicale il disco è tanto scarno quanto
solenne. Tuttavia non mancano i lampi di luce e di brio in un album che è
principalmente cupo, teso, vibrante. Tra le cose più solari, troviamo un brano
arrembante come When The Ship Comes In, che secondo la critica musicale
deve qualcosa al brano Seeräuberjenny (Jenny dei pirati) composto
da Kurt Weill su testo di Bertolt Brecht. Dieci brani dove oltre
alle già citate spiccano composizioni come One Too Many Mornings, una delle
rare canzoni non dichiaratamente politiche del disco, assieme alla splendida Boots
of Spanish Leather, una sorta di remake di Girl from the North
Country. L'impegno torna protagonista in brani come The Ballad of Hollis
Brown, ballata amarissima che narra le vicende di un contadino del South
Dakota che travolto dalla disperazione e dalla povertà uccide prima la
moglie e i figli e infine sé stesso. Non è un caso se questo brano ha ispirato
molti anni dopo il regista David Lynch che realizzerà una cover di
questo brano per il suo disco The Big Dream del 2013. Troviamo poi
canzoni che faranno epoca come The Lonesome Death of Hattie
Carroll, ancora un brano su un omicidio e una grave ingiustizia da
denunciare, Only a Pawn in Their Game, dedicata all'attivista dei
diritti civili Medgar Evers, ucciso il 12 giugno del 1963 a Jackson,
Mississippi. Da segnalare anche il brano North Country Blues,
tipica ballata del Minnesota, dove a raccontare questa storia di lavori
in subappalto nell'Iron Range, per la prima volta troviamo una protagonista
femminile. Radici folk profonde per un pezzo ancora una volta drammatico e
teso.
"Venite
scrittori e critici che profetizzate con le vostre penne e tenete gli occhi ben
aperti, l'occasione non tornerà. E non parlate troppo presto perché la ruota
sta ancora girando e non c'è nessuno che può dire chi sarà scelto. Il perdente
adesso sarà il vincente di domani perché i tempi stanno cambiando."
Resta da
dire della title track. Probabilmente una delle più famose canzoni di Bob
Dylan. In molti ritengono che catturi lo spirito di sconvolgimento sociale e
politico che ha caratterizzato gli anni '60. A chiudere il cerchio, confermando
le tesi secondo cui Dylan è uno dei maggiori autori della sua generazione, ci
penserà il monumentale brano Murder Most Foul, pubblicato come singolo
nel 2020 e che farà poi parte del disco Rough and Rowdy Ways. Il brano
tratta dell'assassinio del presidente John F. Kennedy nel contesto della
più ampia storia politica e culturale americana. Come a dire che dopo quel
fatidico 22 novembre 1963 qualcosa cambiò per sempre nelle vite di chi era
presente. I tempi sono cambiati, nuovamente. Per completezza si consiglia di
ascoltare i primi due volumi di The Bootleg Series 1-3, visto che molti
outtakes di valore assoluto provengono proprio dalle sessions di The Times
They Are a-Changin'. Chiude il disco un contenuto unicamente testuale. Si
tratta del poema che si trova sul retro del vinile: 11 Outlined Epitaphs.
Quasi a dire che il ragazzo avesse ancora delle cose da dire… oltre alla
mitragliata di parole già contenute nelle sue dieci canzoni da consegnare alla
Storia.
Lavoro importante
e indispensabile, ma che raramente lascia spazio all'immaginazione e concede
tregua rispetto a una rovina imminente. Tra le sue qualità troviamo la capacità
di prevedere quel che accadrà 50 anni dopo. Non sempre la musica deve essere
qualcosa di piacevole da ascoltare, quando ci sono dentro parole di questo
valore assoluto. Uno dei dischi più ostici da ascoltare di Dylan, ma che vale comunque lo
sforzo. Soprattutto in momenti drammatici come quelli che stiamo vivendo.
Dario Twist of Fate
Hai ragione, "the times they are a-changin" è un album straordinario, di quelli che non se ne vedono più di uno per generazione. Le note allegate al disco sono davvero poesia. Quella dedicata alla città da cui Dylan proviene, è bellissima. Non so se la poesia possa essere veicolata dalla musica - è una questione che non sarà mai conclusa - ma, per me, le notes che accompagnano questo album, sono di certo poesia. Ciao Carla
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