martedì 23 aprile 2024

Io, Bob Dylan e il cinema come veicolo della miseria umana

 


Io, Bob Dylan e il cinema come veicolo della miseria umana

 

<<Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi.>> Parto da questa citazione di Arthur Rimbaud, perché trovo giusto irretire il lettore e persuaderlo del fatto che questo possa essere davvero un buon articolo da leggere! Nel corso degli anni, crescendo ho sviluppato una passione viscerale nei confronti di alcuni autori, indifferentemente legati al mondo dell'arte, della letteratura, del cinema e della musica popolare. Oggi, 42 anni compiuti, osservo il mondo da un punto di vista privilegiato, facendo della scrittura il mio mestiere per vivere e per pagare i conti.

C'è un artista, anzi un musicista, che più di altri ho seguito durante gli ultimi 18-20 anni e risponde al nome di Bob Dylan.

Bob Dylan? Ma non era morto? Può essere. Del resto lo dice egli stesso: I'm Not There.

Dylan è un autore agile, ma con gli scarponi pesanti e pensanti dell'agricoltore e come dice uno dei sei personaggi in cerca di autore nel film di Todd Haynes, "io sono un agricoltore, non posso permettermi di essere fatalista", parafrasando. In effetti per chi non conosce bene la sua musica, Dylan è l'ennesimo vaccaro stile John Wayne con lo Stetson, gli stivali e la giacca di cuoio. Immagine ficcante che in effetti lo descrive piuttosto bene. L'errore però con un artista così ondivago è proprio volerlo fotografare e mettere in archivio. Probabilmente per questo motivo non si reca quasi mai a ritirare un premio. Nemmeno quando si tratta del premio che ogni paroliere sogna di ottenere: il Nobel. Non è stato facile utilizzarlo nel mondo del cinema, anche se molti autori hanno tentato questa strada, in modo diretto e non. Uno dei primissimi film ispirati alla figura di Dylan fu questo Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me? diretto da Ulu Grosbard e interpretato da un brillante Dustin Hoffman. Il film narra le vicende della star del rock Georgie Soloway, assillato per le molestie che sta subendo da questo oscuro personaggio di nome Harry Kellerman. Per chi conosce bene le vicende di Dylan è facile associare questo plot narrativo alla figura dell'autoproclamato dylanologo, A.J. Weberman, personaggio discutibile che usava frugare tra i rifiuti di casa di Dylan, durante la fine degli anni sessanta. Oggi lo potremmo definire un mitomane, complottista cospirazionista. Del resto figure come quelle di Dylan, Sinatra o Lennon, hanno sempre attratto lunatici, fissati e mitomani. Anche io nel mio piccolo, potrei essere additato come un mitomane, se non fosse per il rispetto che nutro verso l'arte e gli artisti che ispirano il mio quotidiano.

Andando avanti sul fronte dylaniano e per quanto concerne il connubio cinema e musica, scopriamo come la sua prima vera apparizione sul grande schermo avvenga per la pellicola di Sam Peckinpah, Pat Garrett and Billy the Kid, del 1973. La breve apparizione in questo film per i fan resta iconica, ma è la colonna sonora il piatto forte di questo progetto. Dylan scrive infatti le musiche, ma soprattutto compone e pubblica il brano Knockin' On Heaven's Door, canzone che ha avuto più vite e più versioni, più o meno note, come quella appunto realizzata dai Guns N' Roses, ma anche da Eric Clapton, in versione reggae.  Tuttavia nonostante il cast di tutto rispetto, uno script intrigante e un regista importante, il film non fu affatto un successo. Una costante per quel che riguarda il ruolo di Bob Dylan, come attore cinematografico. Pochi ricorderanno infatti il film interpretato da Rupert Everett e diretto da Richard Marquand (Return of the Jedi), Hearts of Fire. In questa pellicola del 1987 Dylan è addirittura co-protagonista, ma il film si rivela un colossale flop, sia per incassi che a livello critico. È diventato un cult ma sono per dylaniani hardcore, nel corso del tempo.

In effetti le uniche apparizioni sul grande schermo che si ricordano per il loro valore artistico restano i documentari realizzati da Martin Scorsese e da D.A. Pennebacker.

Vanno meglio pellicole come Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me? Quelle che giocano più che altro su assonanze e sui proverbiali easter egg, come l'esordio alla regia del bravo e impegnato Tim Robbins. L'attore californiano realizzerà infatti una pellicola piena zeppa di rimandi alla produzione discografica dylaniana con il suo Bob Roberts. Primo film come regista di Robbins, che è anche sceneggiatore e interprete principale di una pellicola satirica girata in stile falso documentario su un candidato senatore populista conservatore. I rimandi a Dylan e a Orson Welles (Quarto Potere, ma anche Vérités et mensonges) si sprecano e mostrano un Tim Robbins abile anche nel ruolo di interprete musicale. L'attore aveva appena finito di girare I protagonisti di Robert Altman, altra pellicola importante per i primi anni novanta e forse oggi un po' ingiustamente dimenticata. Bob Roberts ruota attorno alla figura fittizia di un cantante country che tenta la strada della politica e si candida al Senato. Un piccolo gioiello assolutamente consigliato e da recuperare se non lo avete visto.

Sempre per ribadire che Dylan funziona a fasi alterne sul grande schermo voglio ricordare due pellicole speculari e molto differenti come esito critico e di pubblico. Si tratta di Wonder Boys e di Masked And Anonymous. Il film diretto nel 2000 dal compianto e talentuoso Curtis Hanson (8 Mile, L.A. Confidential) non ha bisogno di presentazioni. Qui troviamo un cast ispirato, guidato dal sempre bravo Michael Douglas, con un giovane Tobey Maguire, e in ruoli non meno importanti affidati, ma comunque incisivi, Robert Downey Jr. e Frances McDormand. Il film oltre a raccontare una storia insolita, brillante e originale, si fregia di una colonna sonora di assoluto livello. Tra vecchi classici e brani scritti appositamente per il film, troviamo infatti nomi come quello di Van Morrison, Leonard Cohen, Tom Rush, Neil Young e naturalmente Bob Dylan. Dylan fa la parte del leone con Shooting Star, tenera ballata dedicata al suicidio di un vecchio compagno di strada, Buckets of Rain, brano tratto dal capolavoro del 1975, Blood on the tracks e infine componendo per l'occasione il brano Things have changed. La canzone gli valse importanti premi e riconoscimenti come il Golden Globe e il premio Oscar per la miglior canzone nel 2001. Indovinato in che modo Dylan ritirò il premio? Apparendo in collegamento satellitare dall'Australia ed eseguendo il brano dal vivo. Mitico Bob!

Un po' meno brillante invece la sua nuova apparizione nella doppia-tripla veste di sceneggiatore, autore della colonna sonora e co-protagonista nel confuso e a tratti incomprensibile Masked And Anonymous, diretto dal futuro regista di Borat, Larry Charles. Circondato da un cast di stelle, come Jessica Lange, Jeff Bridges, Penelope Cruz, Val Kilmer, Mickey Rourke e Bruce Dern, tra gli altri, il film sembra un manifesto cubista-futurista, dove troviamo dialoghi e situazioni puramente dylaniane, ma senza il sostegno di una vera sceneggiatura e di una trama credibile. Non fa meglio nella colonna sonora, dove mette nel calderone brani rifatti da vari artisti giapponesi, turchi, nordamericani e perfino italiani. Così troviamo senza soluzione di continuità Jerry Garcia, Los Lobos, Francesco De Gregori e gli Articolo 31 che massacrano un classico come Like a Rolling Stone. È proprio il caso di dire che l'orgoglio precede la caduta, ma l'umiltà precede la gloria. Peccato che in questa occasione l'umiltà abbia inviato certificato medico, come illustre assente.

Concludo questo inutile pistolotto agreste ricordando che nemmeno il biopic I'm Not There, realizzato nel 2007 dal talentuoso Todd Haynes, ha messo d'accordo critica e fan sfegatati. Stavolta la pellicola da un punto di vista critico può dirsi pienamente riuscita o comunque ben fatta, nel suo intento cubista, a tratti dadaista. Co-sceneggiato e diretto da Todd Haynes e Oren Moverman, il film ripercorre la storia del musicista in sette distinti momenti della sua vita, venendo interpretato da sei attori diversi. Una didascalia all'inizio del film dichiara di essere "ispirato dalla musica e alle molte vite di Bob Dylan", e questa è l'unica menzione a Dylan nell'intero film, assieme alla colonna sonora. L'unica apparizione del cantante arriva proprio nel finale, con delle immagini di repertorio di un vecchio live del 1966, prima del famoso incidente motociclistico che segnerà l'abbandono dalle scene per lungo tempo. Ma questa è decisamente un'altra storia. Storia che probabilmente vedremo presto sul grande schermo, dato che James Mangold e Timothée Chalamet sono impegnati attualmente nelle riprese di A Complete Unknown. Non ci sono invece grosse novità sul fronte Guadagnino-Dylaniano. 

Il talentuoso regista siciliano aveva annunciato la realizzazione di una pellicola ispirata al capolavoro dylaniano del 1975, Blood on the tracks. La notizia però soffia nel vento, visto che risale al 2018. Ci aggrappiamo però alla speranza, che come si sa è l'ultima a morire per chi vive in un podere occupato, ma senza lavorare la terra. Perché come diceva il maestro Woody, Questa terra è la mia terra! 

(Articolo scritto per la blogzine The Clerks nel 2021)

Dario Greco



- SITUAZIONISMO DYLANIANO - 

lunedì 15 aprile 2024

Time Out of Mind (1997)

Time Out of Mind (1997)


Un trionfale ritorno per Bob Dylan. Time Out of Mind è il trentesimo lavoro in studio di Bob Dylan, nonché uno dei suoi più grandi successi, riconosciuto dalla critica, dal pubblico, e per una volta anche dai premi che ricevette. Oggi può suonare strano, ma questo disco venne salutato come Album of the Year, davanti a produzioni come Flaming Pie di Paul McCartney e OK Computer dei Radiohead. Nonostante venga pubblicato come cd singolo, Time Out of Mind è in realtà un doppio album in studio. Wikipedia afferma si tratti del primo doppio dai tempi di Self Portrait (1970), ma in realtà l’ultimo era stato The Basement Tapes (1975). La durata complessiva sarà di 72 minuti e 50 secondi, con il solo brano Highlands che raggiunge doppia cifra, arrivando a 16 minuti e 31 secondi. Registrato negli imponenti Criteria Studios di Miami, il lavoro si avvale nuovamente di Daniel Lanois in cabina di regia. Per certi versi possiamo considerarlo una sorta di sequel di Oh Mercy, nonostante vi siano alcune evidenti differenze, nel suono, nell'impostazione e nella realizzazione. Il suo autore qui sembra avere maggior controllo e liberà di movimento. Laddove Oh Mercy era un lavoro agile, breve e conciso, Time Out of Mind, pur avendo un marchio preciso che lo definisce nel suono e nell'atmosfera, ricorda per certi versi il metodo di lavoro che Dylan avevano adottato con successo, a cavallo tra gli anni sessanta e settanta. È un disco molto cupo, a tratti deprimente, ma che al suo interno contiene una delle migliori raccolte di canzoni dai tempi di Blood on the Tracks, Desire e Infidels. In più, rispetto a quel tipo di lavori che i fan di Dylan hanno apprezzato e amato nel tempo, questo disco è stato capace di mettere d'accordo un po' tutta la comunità musicale, sia quella del blues e del country, ma soprattutto quella più eterogenea del rock, per via del suo suono gonfio, presente e per una volta ben centrato e calibrato, durante gli episodi maggiori dell'album.

È innegabile come l'autore che si presenti in studio sia in stato di grazia a livello compositivo. Non è un caso se dal cilindro riesca a togliere fuori oltre alle sue solite ballate ispirate anche un singolo di successo come Make You Feel My Love, che verrà in seguito ripresa da diversi artisti come Billy Joel, Adele, Bryan Ferry e Garth Brooks. Tornano i grandi testi e possiamo affermare di ascoltare almeno quattro nuovi classici dylaniani, altrettante canzoni di valore assoluto e forse giusto due-tre riempitivi come 'Till I Feel In Love With You, Dirt Road Blues e Million Miles. Le atmosfere richiamano certi western crepuscolari sulla fine del mito della frontiera e lo stesso Greil Marcus, dirà che il disco gli ricorda per certi versi uno score alternativo degli Spietati di Clint Eastwood. In questo caso però ascoltiamo i lamenti e il male di vivere di chi ha sempre saputo stillare oro dalle proprie paturnie. Musicalmente il disco risente dell'ispirazione di alcuni importanti artisti seminali come Charley Patton, Little Walter e Little Willie John, a cui lo stesso Dylan aggiungerà durante il discorso di cerimonia dei Grammy anche il nome di Buddy HollyDylan è in viaggio, diretto verso l'ignoto, il Nowhere, anche se qui e lì accenna a posti reali, come Baltimora, New Orleans, il Missouri, Boston-town, oppure descriva di aver visitato Londra e Parigi, come in passato aveva fatto con Roma in When I Paint My Masterpiece. Torna anche la garra agonistica di confrontarsi col suo ingombrante passato. L'impressione è che i suoi guai sentimentali e la chiamata alle armi di un cuore sofferente, metaforicamente e non, gli abbiano fornito l'assist giusto e la volontà per consegnare alla morte una goccia di splendore, di umanità e verità. A livello di ispirazione lirica i critici citano spesso John Keats, Robert Burns e il visionario William Blake. In particolare le liriche di Not Dark Yet sembrano una risposta proprio al poema Ode to a Nightingale di Keats. Per Jochen Markhorst Tryin' to Get to Heaven è tra le "opere più belle" dell'autore, data la somiglianza "più accessibile" della celebre Not Dark Yet perché qui offre la "prospettiva di redenzione in un aldilà". Anche da un punto di vista sonoro bisogna annotare il gran lavoro di Mark Howard  rispetto all'uso dell'armonica di Dylan, che qui possiamo apprezzare per la sua qualità elettrica, di distorsione del suono, predominante tra una strofa e l'altra. Un brano superbo e maiuscolo, come del resto lo è tutto il disco, nei suoi momenti di maggiore ispirazione e intensità.

Oltre al plauso che va condiviso tra l’autore e il produttore, è bene citare alcuni dei musicisti che prendono parte alle sessions del disco. Dylan schiera quella che all’epoca era la sua band di palcoscenico, dove troviamo il fidato Tony Garnier al basso, David Kemper alla batteria, Bucky Baxter alla chitarra acustica e pedal steel e alcune vecchie conoscenze come Jim Keltner e soprattutto l’organista Augie Meyers e la suonatrice di steel guitar e dobro, Cindy Cashdollar. Questa combo, che comprende naturalmente anche gli stessi Dylan e Lanois, si avvale poi di altri musicisti addizionali come il percussionista Tony Mangurian, Duke Robillard, Robert Britt e altri due batteristi: Winston Watson e Brian Blade. Un sistema di produzione e registrazione che sembra la versione aggiornata di Blonde on Blonde, a tratti. Per quanto riguarda la parte testuale, il marchio speciale di disperazione di Bob Dylan sta tutto nelle parole di testi come Not Dark Yet, Love Sick, Tryin' To Get To Heaven e soprattutto di Cold Irons Bound, quando afferma:

"Ci sono troppe persone, troppe da rammentare. Credevo che alcuni di loro fossero miei amici; mi sono sbagliato su tutti. Bene, la strada è rocciosa ed il pendio della collina è fangoso. Sopra la mia testa ci sono solo nuvole di sangue. Ho trovato il mio mondo, trovato il mio mondo in te. Ma il tuo amore non si è dimostrato vero. Sono a venti miglia dalla città, incatenato a fredde manette."

Tra le dichiarazioni migliori su questo disco, alcune sono proprio dello stesso Dylan e di Daniel Lanois.

"Quei dischi furono fatti molto tempo fa, e sai, sinceramente, le registrazioni che furono fatti in quei giorni erano tutte buone. Avevano dentro un po' di magia perché la tecnologia non andava oltre ciò che stava facendo l'artista. Era molto più facile riportare l'eccellenza in quei giorni su un disco di quanto non lo sia ora. La massima priorità adesso è la tecnologia. Non è l'artista o l'arte. È la tecnologia che sta arrivando. Questo è ciò che rende Time Out of Mind particolare. Non si prende sul serio, ma poi di nuovo, il suono è molto significativo per quel disco. Se quel disco fosse stato realizzato in modo più casuale, non sarebbe suonato in quel modo. Non avrebbe avuto l'impatto che ha avuto. Non c'è stato alcuno spreco di sforzo su Time Out of Mind e non credo che ci sarà più nei miei dischi. Una dichiarazione d'intenti che a distanza di quasi 25 anni possiamo condividere e sposare. Bob Dylan dopo il suo trentesimo e ispirato lavoro in studio è tornato ai suoi livelli di eccellenza, dove i passi falsi si sono notevolmente ridotti e ridimensionati. Anche se a onor del vero, bisogna ricordare come successivamente alla pubblicazione di Time Out of Mind, darà alle stampe solo cinque dischi contenenti brani autografi, uno dei quali scritto in collaborazione con Robert Hunter, paroliere dei Grateful Dead. Uno degli ultimi fondamentali squilli di tromba, una chiamata alle armi, che arriva quasi dall'Oltretomba.

Fatto non trascurabile: da queste sessions, verranno scartate canzoni del calibro di Mississippi (poi pubblicata nel successivo Love and Theft) della splendida e rara Red River Shore, di Marching to the City (pubblicata sul volume 8 dei Bootleg Series) e di Dreamin’ on You, anch’essa recuperata sull’antologico Tell Tale Signs del 2008.

Tra le bellissime interpretazioni di questo disco, sono da segnalare almeno tre cover: Not Dark Yet del compianto Jimmy LaFave, Tryin’ To Get To Heaven rifatta da David Bowie e Make You Feel My Love di Bryan Ferry, tratta dall'album tributo Dylanesque del 2007.

Disco monumentale e imprescindibile per conoscere in maniera più approfondita l’opera del suo autore.

Dario Twist of Fate