domenica 18 giugno 2023

Rough and Rowdy Ways: Bob Dylan nell’epoca dei Millenial

 Rough and Rowdy Ways: un Dylan ruvido nell’era dei Millenial

E’ un Dylan diverso quello che torna a calcare le scene. Fermamente convinto del fatto che ogni sette anni il nostro corpo possa mutare, l’Autore si presenta con un pugno di canzoni durante l’ora più buia.Ad attenderlo, manco a farlo apposta sono davvero Rough and Rowdy Times. Già il tempo, i tempi:chi meglio di un artista con una carriera alle spalle lunga mezzo secolo, potrebbe giocare con il tempo, con lo spazio? Bob Dylan aveva scritto queste canzoni presumibilmente prima dell’emergenza da Covid-19, specialmente prima che l’America tornasse a bruciare. Ed è strano non abbia citato, in un disco dove c’è tanto cinema l’Orson Welles che parlando dell’antica Roma elogiava le qualità dell’orchestra di Nerone, che suonava magnificamente, mentre il mondo intorno brucia. Non sappiamo se Dylan sia un appassionato di Paolo Sorrentino e della sua Grande Bellezza, ma ricordiamo di certo la sua passione per Fellini e per Claudia Cardinale. Canzoni che inneggiano alla satira, come i classici greci prima, latini poi. La gente diceva che era una spugna; lui si definiva uno spedizioniere musicale per il quale i diritti di proprietà erano provvisori, scriveva Daniel Mark Epsten in The Ballad of Bob Dylan.

Rough and Rowdy Ways ha un titolo che fa il verso, strizzando l’occhio a uno dei suoi dischi meno apprezzati dalla critica: Street-legal. Altro contesto, altra epoca. Street-legal usciva in piena esplosione punk e new wave; giustamente non venne capito, né apprezzato, se non a distanza di tempo. Era un lavoro enigmatico e oscuro, proprio come questo Rough and Rowdy Ways: comune denominatore è l’energia, in quel caso legata alla crisi matrimoniale, stavolta invece più spirituale, trascendente. Per certi versi questo disco segna un ritorno, a distanza di otto anni dall’ultimo lavoro autografo: Tempest del 2012. Nella sua lunga e sterminata produzione in studio, lo spedizioniere musicale Bob Dylan non si era mai fermato così a lungo. L’ultima lunga pausa, come autore di canzoni, era stata proprio negli anni novanta, quando dopo Oh, Mercy e il meno importante Under the Red Sky, era tornato a incidere brani tradizionali e cover. Ci fu poi il ritorno con Time Out of Mind, lavoro che di fatto riaccese la miccia della creatività, da cui arrivarono in successione quattro nuovi lavori, tutti di livello medio-alto. Quasi dei capolavori, sicuramente dei classici contemporanei. Alla sua maniera. Ed era tanto che non scriveva e non raccontava storie con un taglio così evocativo, ispirato: dichiaratamente cinematografico. Difficile e dispendioso citare tutti i rimandi e annotare tutti i nomi contenuti in questo pregevole ritorno discografico. Di certo balza agli occhi un richiamo all’horror, al gotico nordamericano. Poe e Lovecraft, ma per restare nell’ambito dell’immaginario pop, Dylan parla il linguaggio della Hollywood classica, tirando in ballo Al Pacino e Marlon Brando, Indiana Jones e Nightmare, Boris Karloff e American Graffiti, Marilyn Monroe, Elvis Presley e Frank Sinatra, Woody Allen, Buster Keaton e Bob Fosse, riportando tutto a casa, compresoil miti, includendo i poeti e gli eroi, includendo la propria esperienza e questo scomodo fardello.

Shakespeare, he’s in the alley, ma è una tragedia ancora una volta filtrata attraverso uno schermo cinematografico, come nella pellicola del 1953 di Joseph L. Mankiewicz, con Marlon Brando e James Mason. L’atmosfera ricorda anche una vecchia pellicola di Vincent Price, mentre aleggia il fantasma di Robert Mitchum in The Night of the Hunter. Spirit on the water! Spettri, trascendenza e oscurità. Il baratro, così come la fine, è prossimo. Conduce però non in un luogo allegorico, ma semplicemente al Black Horse Tavern di Armageddon Street.

Oggi più che mai è davvero facile riavvolgere il nastro e far partire un brano a caso, una volta ho visto un film che parlava di un uomo che attraversava il deserto ed era interpretato da Gregory Peck. Veniva ucciso da un ragazzo assetato di gloria che cercava di farsi un nome. Tutto ciò avviene prima di giungere dalle parti di Key West, girando la manopola di una vecchia radio valvolare analogica. Ironia della sorta, Dylan citando stazioni radio pirata lontane nel tempo e nella memoria ci riporta alle suggestioni di In the Days Before Rock ‘N’ Roll, brano di Van Morrison dove comparivano proprio le frequenze di Luxembourg e Budapest. E’ come se ci fosse la piena volontà di trascinare sulle spalle o solo nella memoria, tutto ciò che è stato, capace di viaggiare leggero, come una piccola valigia, portando dietro tutte le cose importanti e anche quelle futili. C’è l’idea di America e di Occidente, c’è la voce di una Nazione, oppure no. C’è un riferimento alla Terra di Oz, ma anche ai presidenti degli Stati Uniti che Dylan ha conosciuto e attraversato, forse con indifferenza, più probabile con piena coscienza. Non è certo casuale il riferimento a Ginsberg, Corso e Kerouac, le maggiori voci della Beat Generation. Senso di appartenenza? Probabilmente. In un disco che fa della citazione la sua arma prediletta, è necessario menzionare almeno Billy “The Kid” Emerson e Jimmy Reed, così come Louis Armstrong e Bud Powell. Non può mancare un riferimento alla Sacra Bibbia, immancabile totem dylaniano. Sceglietelo da voi però il salmo che preferite. Solo un suggerimento: visti i tempi evitate il Libro della Rivelazione. I opened my heart to the world and the world came in.

Rough and Rowdy Ways: focus on the tracks

My Own Version of You è una delle tre gemme prezioso di questo disco. Il passo è sinuoso ed elegante: una nuova, audace,Ain’t Talkin. Più aggraziata, meno sentenziosa e definitiva. Quasi a dare lo start al disco, dopo una falsa partenza e un blues-stomp ingannevole e fuorviante. Il testo è esemplare, un affresco che trasuda un gusto per il gotico. Un vero e proprio racconto in prima persona, davvero simile a quelli a cui ci aveva abituato negli anni sessanta e settanta. Un ennesimo ritorno con impeccabile e implacabile sagacia. Un Bob Dylan sardonico e mefistofelico, a metà tra Poe, Lovecraft e Mary Shelley. Un nuovo classico?

Black Rider è un altro brano capolavoro, sia da un punto di vista stilistico che formale. A metà tra un racconto di Italo Calvino e il Cavaliere Nero di Proietti. Ricorda per certe atmosfere e intarsi di chitarra il Leonard Cohen andaluso e il Tom Waits più teatrale e oscuro.

Key West (Philosopher Pirate) è un pezzo dedicato alla città della Florida dove il regista Joe Dante aveva ambientato uno dei suoi film più ispirati, Matinée, pellicola del 1993, che si svolgeva durante la crisi dei missili di Cuba dell’ottobre 1962. Dylan descrive questo posto come una specie di paradiso in terra attraverso un ispirato e poetico flusso di coscienza dove trovano spazio anche i poeti beat Ginsberg, Corso e Kerouac. La melodia fa pensare subito a The Band e alla fisarmonica di Garth Hudson, ma anche al Tom Waits di Cold Cold Ground. “Key West è il posto migliore dove trovarsi se si cerca l’immortalità, Key West è il paradiso divino. Se hai perso il senno, lo ritroverai là. Key West è sulla linea dell’orizzonte”. Un pezzo che da solo vale il disco, se non fosse che stiamo parlando di uno degli album più ispirati di Bob Dylan degli ultimi 30 anni.

Dario Greco, blogger

giovedì 15 giugno 2023

Il cambio di guardia dylaniano: Street-Legal



Un fallimentare cambio di guardia per Bob Dylan in piena esplosione punk

 "C'è un leone sulla strada, c'è un demone sfuggito, ci sono un milione di sogni passati, c'è un panorama rapito. Mentre la sua bellezza si nasconde e la vedo togliere le tende, non vorrei, ma poi ancora, forse posso. Oh, se solo potessi trovarti stanotte."

Anche per un Forever Young come Dylan arriva il momento della maturità. Street-Legal è infatti il suo 18esimo disco in studio, pubblicato il 15 giugno 1978. Per chi vi scrive si tratta di un album particolare, per cui ha sempre provato affetto e condiscendenza. Voglio dirlo esplicitamente: amo Street-Legal, per ragioni che tenterò di eviscerare in questo commento retrospettivo.

Secondo un modo di pensare convenzionale, è più semplice scrivere di argomenti che ci appartengono e che ci stanno maggiormente a cuore. Ritengo sia un luogo comune da sfatare. Detto ciò, tenterò di risalire la china e darvi un punto di vista personale di questo disco. 

Difficile perché nonostante siano trascorsi più di 43 anni dalla data di pubblicazione, critica e pubblico restano ancora divisi. Bisogna sottolineare come vi sia, in questo caso, una distanza netta tra il punto di vista del pubblico europeo e quello nordamericano. Per tanto tempo si è detto che questo disco per tematiche musicali e testuali è più vicino allo spirito e al modo di essere di noi latini. Sarà anche vero, dato che io ci sento dentro davvero tante anime ed energie; soprattutto la voglia da parte dell' autore di realizzare qualcosa di nuovo e di diverso, con un bel passo audace e prorompente. Artisticamente parlando gli ultimi prodotti erano stati tra i migliori del decennio, con un Dylan tornato prepotentemente in corsa.

Come sempre si scatena la gara all'interpretazione critica di messaggi cifrati, dato che in questa particolare occasione le liriche risultano estremamente criptiche, anche rispetto agli elevati standard di un artista come il Nostro. Tuttavia ciò la cosa che lascia perplessi e un po' straniati è il tentativo estremo da parte della critica, la quale vorrebbe interpretare i testi di questo Dylan del '78 come quelli di un misogino rancoroso e risentito verso il gentil sesso. Quasi l'esatto opposto rispetto a quel "poeta stilnovista" che  da più di 15 anni aveva idealizzato la figura e il proprio universo femminile. Immancabile l'intervento del puntale Greil Marcus, sempre pronto a lanciare la prima pietra, per via di un testo che allude alle mansioni e a quello che dovrebbe fare il personaggio femminile in Is Your Love in Vain?

Chi vi scrive ha tentato di analizzare il testo in senso metaforico e letterale, e non ha trovato nulla di strano, distorto e incoerente con la poetica gentile e romantica che l'autore ha portato avanti per lunghissimo tempo. Possiamo quindi dire che verso questo disco vi sia autentico livore e accanimento, un po' voluto, un po' casuale, forse. Il 1978 è un anno fondamentale per la musica pop. Elvis Presley era morto da pochi mesi, nello stesso tempo c'era stata la prima ondata punk rock che si era abbattuta sugli States, come era già avvenuto più di dieci anni prima con la British Invasion. Non solo, era il momento di altri cantautori che più o meno si ispiravano dichiaratamente a Bob Dylan con l'intenzione di detronizzarlo dalla propria leadership. Erano emersi autori come Tom Waits, Bob Seger, Patti Smith, Tom Petty e ancora di più, erano gli anni di massimo splendore di Bruce Springsteen

Il cantautore del New Jersey durante i suoi esordi era stato più volte accostato e paragonato a Dylan, ma adesso stava accadendo qualcosa di diverso. Complice l'utilizzo del sax, con interventi a opera di Steve Douglas, il sound di Street-Legal era stato accostato a quello di Springsteen e del suo fedele sassofonista, Clarence Clemons. In effetti prima di allora Dylan non aveva mai pubblicato un disco con la presenza fissa di un sassofono. Questo è un fatto insindacabile. Tuttavia l'utilizzo di fiati e ottoni aveva caratterizzato alcune prove precedenti come quella di Blonde on Blonde e di Self Portrait. 

Oggi abbiamo scoperto che una sezione fiati era stata utilizzata anche per New Morning del 1970, poi messa da parte a favore di una soluzione più essenziale degli arrangiamenti. Però l'analogia tra il sound di Bruce Springsteen e quello di Street-Legal si interrompe qui. Non serve un professore di musica, né un sassofonista per notare che la struttura dei brani, l'uso del sax e altro ancora non ha punti di contatto tra Dylan e Springsteen, specialmente perché quel genere di suono e di stile non è stato creato nel New Jersey, ma deve la propria origine a cose arrivate ben prima della pubblicazione di Greetings from Asbury Park, NJ del 1973. Poco prima c'erano state le intuizioni di altri artisti come Rolling Stones, ma soprattutto come Van Morrison.

Morrison infatti ispirandosi al sound di artisti black aveva preso a piene mani dalle etichette Atlantic e Stax, ispirandosi ad alcuni leggendari performer e a sezioni fiati che valorizzavano il sound del sassofono, unito a quello del pianoforte e dell'organo Hammond B3. Tutta questa digressione mi è utile per dire che il suono che stava cercando di ottenere Dylan da questo album virava verso la black music. Non era ancora arrivato però il tempo di fare un'inversione di marcia e puntare dritti ai Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield, Alabama. 

Questa volta Dylan sarebbe inciampato in una registrazione californiana, dove però la sua ricerca di un nuovo sound avrebbe prodotto un disco davvero agile e ricco di sfumature, tra il blues e il soul, con una presenza di cori femminili e tutto quello che serviva in termini di energia e spinta della sezione ritmica, delle percussioni e delle tastiere. Questo disco è stato per lungo tempo criticato e messo alla gogna per il suo suono. Oggi grazie alla possibilità di ascoltare il remix di Don DeVito, realizzato nel 1999, abbiamo una pulizia dei suoni che ci fa intuire a cosa stava mirando Dylan. Per non parlare di alcune canzoni che all'epoca non vennero capite né valutate per il loro reale potenziale. 

Si tratta di materiale come Changing of the Guards, No Time to Think, Baby, Stop Crying, ma soprattutto di Senor (Tales of Yankee Power) e della conclusiva, dolonte e maestosa Where Are You Tonight? (Journey Through Dark Heat). Brani che dicono tanto di questo disco frainteso, che a distanza di 40 anni possiamo riposizionare dove è giusto che stia. Appena un passo dietro i grandi classici, ma in una posizione di rilievo tra gli appassionati di buona musica, di chiunque abbia una passione per il rock blues e quel genere di sound urbano, sanguigno e pulsante, che a partire da Elvis e Orbison, tira dritto verso gli Stones, gli Animals, Van Morrison e Santana. Dylan che già in passato si era tinto le mani e il viso di nero, stavolta si cala completamente nella black music e affiora con grande consapevolezza, tanto che lo step successivo sarà proprio quello di farsi produrre da Jerry Wexler e Barry Beckett. Se vi pare poco!

 Signori, disse lui, non ho bisogno della vostra organizzazione, ho lustrato le vostre scarpe. Ho smosso le vostre montagne e segnato le vostre carte, ma il paradiso è in fiamme, o vi preparate ad essere eliminati oppure i vostri cuori devono avere il coraggio per il cambio della guardia.

Dario Twist of Fate



mercoledì 14 giugno 2023

Pat Garrett & Billy The Kid (1973)

 

  Commento critico a "Pat Garrett & Billy The Kid" 

Una breve premessa storica

Nel 1871 per tenere a freno i cow-boy che invadevano la città e usavano spesso la pistola, il sindaco di Abilene nel Kansas, assunse con l’incarico di sceriffo, un personaggio famoso: James Butler Hickok, conosciuto come Wild Billy. Hickok era un tipico gunfighter, cioè un uomo che si guadagnava da vivere sfruttando la propria abilità con la pistola e il suo coraggio personale. Gli storici distinguono il gunfighter che affronta gli avversari faccia a faccia in un leale show-down, dal gunman, ovvero l’assassino prezzolato che uccide sparando alle spalle. Furono gunfighter diversi sceriffi e fuorilegge di frontiera come Wyatt Earp, John Wesley Hardin e Billy the Kid. Il Kid, secondo la leggenda, aveva commesso 21 omicidi, uno per ogni anno di età. Tra i famosi gunman troviamo invece Pat Garrett, che come sceriffo uccise a tradimento proprio Billy the Kid, consegnando il suo nome alla storia e alla leggenda.     

“Bloody Sam” e la sua versione del mito di Billy the Kid

Immaginate la scena: Bob Dylan in compagnia dello sceneggiatore Rudy Wurlitzer si recano in Messico per convincere Peckinpah a scritturare Dylan per una parte nel suo nuovo film. Giunti in tarda serata alla soglia dell’abitazione sentono uno sparo e scorgono una cameriera che fugge terrorizzata. Entrando sentono un ulteriore sparo, prima di trovare il regista nella sua stanza, mezzo nudo di fronte a uno specchio a figura intera spaccato. Aveva una pistola in una mano e una bottiglia di tequila nell’altra. Dylan e Peckinpah si scambiano qualche battuta e successivamente Wurlitzer spiega al regista che il cantautore vorrebbe partecipare al film su Billy the Kid. Inutile dire che Dylan rimane stregato dal fascino da fuorilegge di Bloody Sam, come veniva chiamato Peckinpah.

Riuscite a pensare a un regista più iconico di David Samuel Peckinpah? Se il nome non vi dice molto, pensate che si tratta dell’autore di film come The Wild Bunch, Getaway! Cane di paglia, The Ballad of Cable Hogue, L’ultimo buscadero, Voglio la testa di Garcia, La croce di ferro e Convoy. Un regista importante non solo per aver dato un’impronta significativa al Revisionist Western, quanto per la sua vena provocatoria, geniale e imprevedibile. Non a caso registi come Haneke, Von Trier, Campion e Lanthimos, ma i fratelli Coen, Tarantino e Malick, devono qualcosa (in certi casi molto) al regista di Fresno. Si fa fatica a citare gli attori, gli sceneggiatori e i direttori della fotografia che hanno collaborato con Peckinpah nel corso della sua carriera. Quattordici opere, di cui giusto dieci di grande successo e/o di forte impatto culturale, più un esordio come sceneggiatore non accreditato per L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel.

I suoi film utilizzavano una rappresentazione visivamente innovativa ed esplicita dell'azione e della violenza, nonché un approccio revisionista al genere western. Le opere di Peckinpah trattano del conflitto tra valori e ideali, nonché della corruzione e della violenza nella società umana. I personaggi sono solitari o perdenti che desiderano essere onorevoli, ma sono costretti a scendere a compromessi per sopravvivere in un mondo di nichilismo e brutalità. La personalità combattiva di Peckinpah, segnata da anni di abuso di alcol e droghe, ha influenzato la sua eredità professionale. La produzione di molti dei suoi film includeva battaglie con produttori e membri della troupe, danneggiandone la reputazione e la carriera, durante la sua vita. Potrebbe bastare questo per rendere Sam Peckinpah un autore di culto, ma c’è dell’altro di cui finora per una forma di ritrosia e di timore reverenziale non abbiamo parlato. Si tratta dell’esordio di un musicista nelle vesti di attore. No, non è James Taylor e nemmeno Johnny Cash, ma se vi cito Kris Kristofferson allora si potrebbe accedere una lampadina? Ora, trattare questo argomento significa bypassare tante cose importanti accedute tra gli anni Sessanta e i primi Settanta.

Tagliando la testa al gallo facciamo ancora un nome, necessario: quello dello sceneggiatore e scrittore Rudy Wurlitzer. Uno scrittore che veniva paragonato a Thomas Pynchon, che aveva già collaborato con Roger Corman e Monte Hellman. Non solo, aveva già scritto una sceneggiatura che prevedeva come attori cantanti e musicisti, tra cui proprio James Taylor. Il film è Two-Lane Blacktop che successivamente ispirerà Bruce Springsteen per la realizzazione di uno dei sui album più cinematografici e riusciti della sua carriera: Darkness on the Edge of Town. Disco non a caso giudicato una sorta di omaggio al western crepuscolare di Leone e Peckinpah. Wurlitzer, nativo di Cincinnati, Ohio, abitava a New York ed era diventato amico di un altro importante cantautore. Si trattava naturalmente di Bob Dylan e il resto a questo punto, è storia. 

Nonostante il suo carattere non facile Sam Peckinpah ingaggia proprio Dylan per realizzare la colonna sonora del suo nuovo film che si girerà in Messico, nella città di Durango. L’avventura a Durango si intitola Pat Garrett & Billy The Kid, titolo cult per gli amanti del cinema e della buona musica.  Storia incentrata sul rapporto di contrastata e tragica amicizia, che ha dato spunto a molti film spesso ben accolti dal pubblico. Ora nonostante Peckinpah fosse un cineasta controverso e raramente leggero, questa sua opera risulta tra le più accessibili della sua filmografia. Ritratto malinconico della fine di un’epopea leggendaria, ricca di nobili sentimenti. La vera grandezza del film sta nel fatto che si inserisce nel contesto del western revisionista di Arthur Penn e Robert Altman, dato che ne condivide la filosofia e la struttura estetica e formale. In Pat Garrett & Billy The Kid, la morte non è glorificata. È dappertutto, ed è davvero tragica, orribile.   

Bob Dylan Soundtrack

“John Wesley Harding era un amico dei poveri, andava in giro con una pistola in entrambe le mani, aprì molte porte dappertutto nel Paese, ma non fece mai del male a un uomo onesto.” (B.D.)

Ho fatto questa doverosa premessa perché non ha alcun senso parlare della colonna sonora, senza un robusto riferimento cinematografico. Il disco forse è più conosciuto del film stesso ed è composto da dieci tracce, di cui due canzoni e sei brani strumentali. Una di queste canzoni, Billy, è ripetuta tre volte, mentre l’altra, Knockin’ on Heaven’s Door non ha bisogno di presentazione. Nemmeno a farlo apposta Rolling Stone ha stroncato questa operazione definendola “inetta, amatoriale e imbarazzante”. Arrivati a questo punto della retrospettiva dylaniana perdonerete il mio atteggiamento a volte sarcastico e sprezzante verso la critica musicale del tempo. Una critica che sovente manca di lungimiranza e di obiettività, aspetto che sarebbe fondamentale per un professionista, ma che oggi fa ridere e non poco. A questo bisogna inoltre aggiungere il fatto che queste parole siano state pronunciate da Jon Landau, che di lì a poco avrebbe “scoperto” un rocker e un autore come Bruce Springsteen! Ma questa è decisamente un’altra storia. Per chi volesse approfondire il discorso Pat Garrett & Billy The Kid, oltre a recuperare il bel film interpretato da James Coburn e Kris Kristofferson, mi sento di consigliare il bootleg Peco’s Blues. Questo disco (non ufficiale) contiene le sessioni complete realizzate da Dylan e restituisce l’integrità del progetto. È una vera chicca per completisti, ma vale la pena ascoltarlo almeno una volta, anche perché contiene una canzone altrimenti inedita. 

Difficile esprimere un giudizio sulla colonna sonora, dato che perlopiù si tratta di brani strumentali che fanno da accompagnamento al film, mentre le due canzoni presenti sono entrambe notevoli e importanti per ragioni speculari. A parte il brano di apertura, Main Title Theme (Billy) mi piace ricordarne un altro. “Bunkhouse Theme”, una delle cose più dolci che Dylan abbia mai inciso. Il brano ha un aspetto sentimentale, una sorta di bellezza semplice, simile al barocco russo, che lo fa spiccare all’interno della colonna sonora e del repertorio dylaniano. Anche “Final Theme” è un pezzo incantevole, compiutamente bello e guidato dal flauto. Dove si staglia un lugubre coro di accompagnamento mortuario. Perché la soundtrack realizzata di Dylan è una sorta di requiem, per quello che non è stato, ma poteva essere. Piaccia o meno, nel corso del tempo ha guadagnato un proprio posto nella storia della musica popolare. Bisogna infine spendere qualche parola sul brano più celebre, la traccia numero sette di questo album. La canzone fu incisa lo stesso mese (gennaio ’73) in cui fu dichiarato il cessate il fuoco in Vietnam, ponendo fine al coinvolgimento degli USA in quel lungo conflitto. Un brano che si intona con lo stesso stato d’animo dell’America. Elegiaca, nel suo movimento discendente e perfetto, si tratta di un testo composto da due quartine più un ritornello, sempre uguale. Un motivo semplice da memorizzare, che ebbe non a caso grande successo, nel corso del tempo. Chi vi scrive è a conoscenza del fatto che in Italia  in molti considerano la versione di Knockin’ on Heaven’s Door dei Guns ‘N Roses superiore rispetto all’originale di Dylan. Evito di esprimere un parere, anche perché viviamo in un mondo dove la conoscenza, la competenza e la capacità analitica non sempre sono considerate aspetti importanti e/o positivi. Ad esempio a Jon Landau dopo l’esperienza di critico musicale venne data una seconda opportunità come produttore di Bruce Springsteen. Questo significa che nella vita molte cose sono possibili, ma non tutte le cose. Landau, dopo aver sparato cazzate per anni sul rock, riuscì a riscattarsi, producendo dischi epocali ed epici come Born to Run, The River e Darkness on the Edge of Town. 

Bob Dylan ha superato la delusione del flop di Pat Garrett & Billy The Kid e ha continuato a barcamenarsi tra dischi di mestiere e qualche raro capolavoro. Diciamo che a lui interessava entrare a contatto con un mondo che sentiva suo, come quello del western e del cinema d’autore. Dopo questa esperienza scriverà album ispirati a quel periodo come Desire, Knocked Out Loaded e molto tempo dopo Together Through Life e Tempest

Ora per chi fosse interessato ad approfondire il legame tra Dylan e il mito dei fuorilegge e cow-boy, consiglio l’ascolto supportato dalla lettura dei testi del disco del 1967, John Wesley Harding. Si tratta di un lavoro che la critica dell’epoca ebbe difficoltà a inquadrare, ma che a distanza di cinquant’anni possiamo considerare come uno dei dischi più riusciti e concept del cantautore nordamericano. Naturalmente non è un album rock né tantomeno psichedelico. Non regala nemmeno grandi momenti di energia, pur contenendo due classici dylaniani come All Along the Watchtower e I’ll Be Your Baby Tonight. Brani che sono stati ripresi da artisti come Jimi Hendrix, Robert Palmer, Linda Ronstadt ed Emmylou Harris. Dylan tesse questo allegorico arazzo del fuorilegge che prende le armi contro il mondo degli uomini e delle idee, cercando redenzione e libertà; alla fine trova la salvezza tra le braccia del suo vero amore, così come in Knockin’ on Heaven’s Door lo sceriffo aiutante di Pat Garrett, trovava invece la morte.

Purtroppo anche Sam Peckinpah trova la morte, quasi come un personaggio di uno dei suoi film, il 28 dicembre 1984. Per fortuna prima che il suo “pupillo” tornasse al cinema con il disastroso Hearts of Fire diretto da Richard Marquand e interpretato da Rupert Everett e Fiona Eileen Flanagan.

 

Testo a cura di Dario Greco

N.B.

Uno speciale ringraziamento ad Alessandro Aloe per la consulenza storica.

giovedì 8 giugno 2023

Cavalli di Ritorno al sole Dylaniano


Self Portrait (1970)

Esiste forse una categoria di persone più povere di spirito rispetto a quella del critico musicale o del critico in generale? Pensare oggi a Self Portrait, decimo lavoro in studio di Bob Dylan e secondo album doppio a distanza di quattro anni da Blonde on Blonde, ci fa pensare subito al film di Woody Allen Io e Annie, dove il solone di turno stroncava senza pietà la poetica di Federico Fellini. Perché a distanza di cinquant'anni ci sarebbe da capire il motivo per cui questo disco venne accolto con tanta ostilità! Eppure Dylan coadiuvato dall'abituale produttore Bob Johnston non fa altro che radunare il solito gruppo di lavoro, ancora una volta diviso tra le sessions di New York e quelle di Nashville. Mette dentro un po' di generi differenti, di musicisti in voga e di robusti e abili virtuosi che in studio erano abituati a sfornare dischi importanti e a collaborare con solisti di primissimo livello. Però qui qualcosa va davvero storto! Perchè dall'essere d'accordo con il saccente Greil Marcus al definire questo disco un capolavoro ce ne passa. Quindi scendiamo almeno di uno o due livelli, rispetto ai lavori che lo avevano preceduto e che già erano qualcosa di differente rispetto al trittico Bringing - Highway - Blonde, ma anche se si prende a modello un disco pienamente centrato come John Wesley Harding e il breve ma riuscito Nashville Skyline, vediamo che la differenza è subito evidente. Eppure, basterebbe andare oltre le svagate prime tracce e arrivare fino al cuore del primo disco, quello che va da Days of 49 passando per Let It Be Me fino a Living the Blues. Oggi un disco così verrebbe acclamato come un mezzo miracolo, ma in effetti qui siamo nel 1970 e i critici musicali stavano vivendo la loro stagione d'oro, come del resto anche l'industria musicale e quella dell'intrattenimento analogico. Quindi è importante calarsi bene nella parte, inforcare gli occhiali severi e spessi e dire che Dylan ha sbagliato tiro, permettendosi di cantare bene, di farsi accompagnare da bravi session men e di variare negli arrangiamenti, come mai aveva saputo fare fino a quel momento.

Self Portrait venne registrato in più sessioni svolte tra il 24 aprile del 1969 e il 31 marzo del 1970; vi presero parte un gruppo eterogeneo di musicisti, tra cui Al Kooper, Ron Cornelius, Pete Drake, Charlie Daniels, Kenneth Buttrey, Charlie McCoy, David Bromberg e naturalmente The Band, per le registrazioni live al Festival dell’Isola di Wight. 

Questo disco è un manifesto programmatico di quello che il suo autore avrebbe continuato a proporre al pubblico e alla critica, durante i cinquant’anni a seguire. Dobbiamo essere onesti: i dischi di Dylan vengono incensati e stroncati senza che vengano ascoltati né assimilati. È appena accaduto anche con questo ultimo capolavoro, Rough and Rowdy Ways. Dopo un po' ci si stanca e si decide di staccare la spina. Anche perché ci pensa il tempo a riqualificare e ristabilire le gerarchie. Escono inediti e registrazioni alternative e ci mostrano un artista vivo e vegeto, che canta e suona meglio, concentrato. Soprattutto con Dylan venire abbagliati, sorpresi e spiazzati è all'ordine del giorno e del gioco e non deve affatto stupire. Basta aprire una rivista del cazzo o una testata hipster per leggere tutto e il contrario di tutto su un disco prodotto da Mr. Zimmerman. Eppure non ci vuole molto per capire che l'artista che diede alle stampe Self Portrait sapeva bene cosa aveva pubblicato. Possiamo dirci stupiti e batterci il petto, con aria affranta e frustrazione. Ma un artista finito non rilascerebbe a distanza di così poco un nuovo disco come New Morning, e non avrebbe tenuto a decantare per decenni quelle perle che oggi possiamo ascoltare sulla decima uscita dei Bootleg Series, Another Self Portrait del 2013. 

Credi di conoscermi? Credi di capire che tipo di musica dovrei fare. Eccoti 24 brani, a riprova che non sai prevedere cosa farò. Quel che colpisce è il fatto che buona parte del disco riguardi luoghi dove è già stato o luoghi dove andrà in seguito. Si tratta di dispetti, scherzi d'autore e non mi stancherò mai di essere indignato per le parole che scrisse Greil Marcus. Quando non si capisce qualcosa bisogna avere il buon senso di chiedere o se non si è umili, sarebbe preferibile tacere. Il tempo è sempre un grandissimo gentiluomo e con Dylan, che ha mostrato sempre di dare del tu al concetto temporale, anche di più. Per onore di cronaca è importante dire che non tutti i critici nel corso degli anni si sono schierati contro questo disco, almeno non in modo così perentorio e demolitivo. Secondo Kim Ruhel redattore della rivista alt-country No Depression che Dylan ne fosse consapevole o meno, Self Portrait sembra essere solo l'ennesimo esempio di un lavoro in anticipo sui tempi. Il dato interessante è con quante voci qui riesca a cantare. Spazia infatti dal rock and roll, dal country al blues, infilando spesso cose un po' bizzarre, ma non per queste prive di valore o di interesse. Lo stesso utilizzo dei cori femminili e degli archi, per non parlare della sezione fiati, aiuta le canzoni e il suo interprete a mostrare tutto il suo bagaglio di influenze, curiosità e interessi compresi.

Toccanti e profonde sono poi le parole di Marc Bolan, musicista che si distacca dal coro delle stroncature affermando: "Belle Isle mi ha riportato alla memoria tutti i momenti di tenerezza che io abbia mai provato per un altro essere umano, e questo, nel panorama superficiale della musica pop, è davvero una grande cosa. Per favore, tutte le persone che scrivono amaramente di una stella perduta, ricordate che con la maturità arriva il cambiamento, così come la morte segue la vita”.

È interessante rileggere in una chiave retrospettiva alcune insinuazioni su un Dylan stanco e a fine corsa, che ironizzano tirando il ballo il titolo della prima traccia: All The Tired Horses. Nel 2021 dopo 39 dischi e innumerevoli live, pensare a un ventinovenne Dylan stanco strappa sicuramente più di un sorriso! Gli illustrissimi critici musicali Jimmy Guterman e Owen O'Donnell, nel loro libro del 1991 The Worst Rock and Roll Records of All Time sentenziarono: "Lo scioglimento dei Beatles poco prima dell'uscita di questo album segnò la fine degli anni Sessanta; Self Portrait segnò la fine di Bob Dylan". Insomma siamo alle solite: chi ha orecchie per intendere e per apprezzare, ascolti, ma la cosa che un po' lascia perplessi a fine disco, dopo oltre settanta minuti di musica è che ci siamo divertiti non poco. Merda o non merda, Self Portrait ha vinto la sua sfida contro il tempo e non è un disco dimenticato. Vi pare poco?

Dario Twist of Fate

venerdì 2 giugno 2023

A proposito di Shadow Kingdom (2021)

 

Shadow Kingdom (2021)

 

È innegabile come la lunga e rilevante carriera di Bob Dylan possa essere analizzata in base a diverse fasi, epoche, bruschi balzi temporali in avanti, indietro e in orizzontale. C’è stato però durante questi dieci anni un momento cruciale, un crossroad, l’ennesimo, il quale pare essere sfuggito alla critica mainstream. Mi riferisco a quella fase inaugurata con “Love and Theft” album del ritorno del 2001, erroneamente considerato sequel del precedente Time Out Of Mind, dove il Nostro cambiò praticamente modus operandi. Da lì in poi realizzò tre dischi composti da inediti, l’ultimo dei quali risponde al nome di Tempest, del 2012. Successivamente iniziò la pubblicazione di quello che venne giustamente definito come il suo Great American Songbook. Tre volumi per cinque album, il primo dei quali si intitola appunto Shadows in the Night, disco concept composto da dieci tracce standard pop, portate al successo da Frank Sinatra, a cavallo tra gli anni quaranta e il 1963. 

Ora, chi conosce bene Dylan avrà imparato che i dettagli non solo fanno la differenza, ma vanno a tratteggiare il quadro nel suo insieme. C’ è un luogo comune e un refrain che con Dylan suona in continuazione: è un artista enigmatico, non si capisce mai dove voglia andare a parare. Potrebbe essere veritiero, se prendessimo in analisi la sua carriera tra gli anni sessanta e i primi novanta. Da quel momento in poi però, diciamo più o meno in seguito alla pubblicazione della trasmissione televisiva Unplugged, qualcosa cambia e in positivo. Era il 1995 e Dylan veniva giustamente considerato superato, non in linea né al passo coi tempi, non era nemmeno giudicato un nume tutelare del movimento grunge, a differenza del suo illustre collega, Neil Young. Dato praticamente per bollito, Dylan aveva però un paio di carte da giocare. Una di queste fu richiamare il produttore Daniel Lanois per una nuova avventura in sala di incisione. Ne uscirà quello che ad oggi è considerato uno dei suoi successi più importanti, dalla seconda metà degli anni settanta in poi. Ma questa è storia, passata. My back pages, direbbe His Bobness!

Realizzare questo disco è stato un autentico privilegio. Tutti conoscevamo molto bene questi brani. È stato fatto tutto dal vivo, forse in una o due registrazioni. Senza alcuna sovra incisione. Niente cuffie, niente cabina di registrazione per il cantante. Di cover ne sono state fatte abbastanza: seppellite. Quello che io e la mia band stiamo tentando è il procedimento inverso. Disseppellire i pezzi dalla tomba, per riportarli alla luce del giorno. Perché questa band non lavora con il favore delle tenebre, o meglio non sempre.

Questo il manifesto programmatico espresso dal suo autore, prima del lancio di Shadows in the Night. Oggi invece, con un titolo speculare, stiamo ascoltando e soprattutto visionando un nuovo format dylanesco. Si tratta di questo incantevole film in bianco e nero che risponde al nome di Shadow Kingdom. Ancora una volta Dylan spiazza, destabilizza, distorce tempo, prospettiva e pensiero. Noi appassionati, succubi e senza alcuna possibilità di redenzione, non possiamo far altro che prendere o lasciare. Chiaramente nel mio caso prendo. Del resto il manifesto programmatico è eloquente. 

Parte come se fosse un episodio pilota diretto da David Lynch e ideato in coppia con Mark Frost. Quasi uno spin off di Roy Orbison and Friends: A Black and White Night, il celebre speciale andato in onda appena prima della prima stagione di Twin Peaks. Perché è vero un fatto: si scrive Bon Bon Club in Marseille, ma si legge Bang Bang Bar, Roadhouse. Siamo dalle parti dell’Impero della mente, dove David Lynch potrebbe senz'altro farci da anfitrione. La suggestione è possibile, come abbiamo potuto vedere anche da certi indizi e suggerimenti lanciati dallo stesso regista di Missoula, il quale di recente aveva affermato: “Amo Bob Dylan. Non c’è nessuno come lui. È unico e semplicemente fantastico.” Ora, fin qui niente di strano, pur trattandosi di uno come Lynch! Del resto già nel suo disco del 2013, The Big Dream, Lynch aveva omaggiato Dylan, eseguendo una versione sperimentale di un brano giovanile e disperato come The Ballad of Hollis Brown, tratto da The Times They Are a-Changin'. Stavolta invece è stato Bob Dylan a sconfinare nei territori battuti dal visionario regista americano. Certo, in Shadow Kingdom ci sono altri riferimenti a parte quello evidente di Velluto blu o Twin Peaks, visto che l’atmosfera ricalca, almeno in parte il Quest show CBC TV – Canada, la cui messa in onda risale al 1964. C’è anche un frammento preso da I’m Not There, con quelle sequenze in bianco e nero ideate dal regista Todd Haynes, e se vogliamo potremmo vederci anche uno stile in debito verso l' Hal Ashby di Bound for Glory. 

È pacifico affermare come l’immaginario dylaniano, musicale e non, difficilmente si spinga oltre la prima metà degli anni sessanta. Si pensi ad esempio alla serie di quadri intitolata The Beaten Path (dallo stesso Dylan) e di evidente ispirazione hopperiana, nel senso di Edward. Tutti elementi che si rincorrono e affiorano durante le visioni fumè e volutamente retrò di questo progetto Shadow Kingdom. Nome suggestivo che stavolta non delude né trascende le aspettative. E non ho nemmeno parlato di musica, ma con Dylan, dopo oltre 59 anni di carriera alle spalle, può diventare davvero accessorio, se non superfluo, talvolta. E' scontato affermare che si tratti di uno dei cinque artisti più influenti del Novecento, dove gli altri potrebbero essere Frank Sinatra, Elvis Presley, Johnny Cash, John Lennon e David Bowie. Forse stavolta il Poeta dell’elettricità è davvero riuscito a dipingere il suo capolavoro? Non a caso la canzone di apertura, prestata per lungo tempo ai sodali The Band si intitola appunto When I Paint My Masterpiece.

Dario Greco