lunedì 6 gennaio 2025

Bob Dylan & Chronos: lotta contro il tempo

 

Dylan & Chronos: lotta contro il Tempo

“I tibetani credono che vi sia uno stato di transizione tra la morte e la rinascita. La morte sarebbe fondamentalmente un periodo di attesa. Dopo poco tempo l'anima sarà accolta da un nuovo grembo. Nel frattempo essa restituisce a sé stessa una parte della divinità che ha perduto al momento della nascita.” (Rumore bianco, Don DeLillo)        

Introduzione

“Il tempo è un bambino che gioca, che muove le pedine; di un bambino è il regno.” L’immagine usata da Eraclito per parlare del tempo accosta la leggerezza del gioco, la casualità di un lancio di dadi all’inesorabilità del tempo e all’enigma del suo svolgimento. L’uomo ha sempre rivolto un’attenzione particolare al trascorrere del tempo ed è stato attratto dal futuro e dalla possibilità di conoscerlo anticipatamente. Nell’antichità i greci usavano due termini per definire il tempo: Chronos per indicare lo scorrere dei minuti e la sua natura quantitativa e Kairos per indicare la natura qualitativa dello stesso, ovvero l’abilità di fare la cosa giusta al momento opportuno. Nel mondo moderno, il concetto di Chronos ha storicamente avuto una posizione dominante su Kairos. La velocità di esecuzione di un compito è associata ad un aumento di produttività ed efficienza. La rapidità di adattamento alle situazioni è un indicatore della flessibilità organizzativa e strategica. L’essere in grado di anticipare i concorrenti nel lancio di un prodotto è una misura della capacità di innovazione. Queste dimensioni legate al tempo come Chronos restano importanti per il successo di una persona o di una società, ma passano in secondo piano rispetto alla dimensione temporale qualitativa espressa dal concetto di Kairos.

«Abbiamo la tendenza a vivere nel passato, ma questo riguarda la mia generazione”, ha dichiarato qualche tempo fa Bob Dylan al New York Times parlando del suo brano Murder Most Foul. «I giovani non hanno questa tendenza. Semplicemente non hanno un passato, quindi tutto quello che sanno è quello che vedono e sentono, ed è facile fargli credere qualsiasi cosa. Ma tra 20 o 30 anni saranno loro in prima linea.». Sono parole espresse da un uomo che ha vissuto almeno un paio di vite, artisticamente forse qualcuna in più. Poeta, cantore folk, troubadour, innovatore fantasma di elettricità, esponente di spicco del movimento beat e via dicendo. Non è facile trovare una sola e nuova definizione per questo artista così prolifico, cangiante, capace di spiazzare pubblico e critico, anche adesso, quando gli anni sono ormai più di 80. Ottant'anni di cui più di 50 vissuti al centro della scena musicale e non solo. Dylan infatti nel corso del tempo si è dedicato anche ad altre forme e discipline artistiche, in alcuni casi con un certo successo e seguito. Non è andata benissimo con il cinema, non ha sicuramente eguagliato i suoi capolavori musicali con la pittura, ma è assai raro imbattersi in un autore che scrive, canta, suona, realizza sculture, si dedica alla produzione di whisky e non solo. Già il cinema, forse il suo sogno inespresso e irraggiungibile. Quest'anno ricorrono 50 anni dall'anniversario di Pat Garrett & Billy The Kid, il film di Sam Peckinpah per cui Dylan scrisse la colonna sonora e interpretò un piccolo ruolo. Forse il film più importante a cui ha preso parte. Sicuramente un titolo che per molti ha rappresentato qualcosa, in ottica di western crepuscolare e contemporaneo.

Bob Dylan: in perenne lotta contro tempo e decadenza

Una battaglia contro il tempo lineare e il suo scorrere implacabile e ingannevole, contro le mode, la loro futilità, le ideologie vuote, le morali fasulle, gli amori idioti, l’inutile lotta contro il destino e la falsità e la mediocrità al potere, gli inganni e le manipolazioni che offuscano la mente e impediscono di vedere cosa davvero è reale. Il tempo e la fine del mondo compaiono spesso nelle liriche dei suoi brani. “Ma ero molto più vecchio allora, sono più giovane ora” (My back pages), “Fammi sparire tra gli anelli di fumo della mia mente, tra le rovine nebbiose del tempo” (Mr. Tambourine man), “Dentro i musei viene messa sotto processo l’eternità’ (Visions of Johanna), “E se la Bibbia ha ragione il mondo esploderà […] i prossimi sessanta secondi potrebbero durare un’eternità’ (Things have changed), “Questa terra è interdetta, da New Orleans fino a Gerusalemme” per approdare a Time out of mind, un disco del 1997, costellato di canzoni quasi tutte evocanti un’atmosfera sepolcrale, un disco che qualcuno ha tradotto con ‘poesia del tempo immemorabile’. Ma la lotta contro il tempo è anche, da sempre, una lotta contro i tempi, contro il ritmo delle canzoni, caratterizzate nel modo di cantare da rallentamenti, accelerazioni improvvise e scarti imprevedibili a ogni esibizione dal vivo. Le reinterpretazioni stanno lì a significare che il suo mondo artistico, poetico e musicale, non può essere fissato una volta per tutte, perché in quel caso sarebbe come morto. Si può discutere e ipotizzare se questa visione dell’arte e del tempo sia influenzata da Nietzsche, Bergson e Proust o da Keats, uno dei tanti suoi geni ispiratori, insieme a Blake, Ginsberg, Rimbaud e molti altri, o sia semplicemente dovuta a vicende personali.

Per Bob Dylan il concetto di tempo e di spazio è un qualcosa di mobile e questo ha influenzato anche le sue canzoni e il modo di interpretarle. Non è un caso se la parola Time e Times sia finita più volte sulla copertina dei suoi album, ma non solo. In Blood on the Tracks, il tempo diventa un concetto assolutamente relativo, astratto. Le canzoni infatti possono viaggiare e spostarsi, tra presente, passato e forse futuro. Non è un caso se questo disco sia stato giudicato come uno dei più intensi, riusciti e significativi. Appena tre anni dopo Dylan torna sul concetto di tempo e lo fa con il brano No time to Think, presente su Street Legal del 1978, ma non è solo questo ciò che emerge analizzando la sua opera. Molto spesso si è parlato di canzoni che hanno come tema principale il sogno, le cosiddette canzoni oniriche dylaniane. L'esempio più calzante è sicuramente dato dal brano Series of Dreams, registrato nel 1989 per il disco Oh, Mercy, ma scartato all'ultimo e riproposto nella prima raccolta ufficiale di inediti, The Bootleg Series 1-3 del 1991. 

In Rumore bianco Don DeLillo fa dire a uno dei suoi protagonisti: "La questione del morire si fa saggio strumento di memoria. Ci guarisce della nostra innocenza nei confronti del futuro. Le cose semplici sono fatali, o è una superstizione?" Oppure citando Ode all'usignolo di John Keats: "Svanire e dissolvermi, per dimenticare per sempre quello che tu fra le foglie non hai conosciuto mai, l'abbattimento, la febbre e l'inquietudine della terra dove gli uomini odono l'uno dell'altro i gemiti; ove la paralisi fa tremare gli ultimi melanconici capelli grigi, dove la giovinezza diventa pallida e spettrale e muore.”

Considerazione finale

Mi piace pensare a Bob Dylan, l'artista più che l'uomo, come a un personaggio uscito da un fumetto Marvel, in perenne lotta contro il tempo. Tempo che come sostenevano gli antichi greci, può essere al contempo Kairos e Chronos. Speculativamente, in base ai piani dell'arte, dell'ispirazione della Musa. Dylan guarda al passato anche quando deve scegliere la copertina del suo disco Tempest (2012). Una rielaborazione grafica di Alexander Längauer che raffigura un dettaglio della fontana scolpita da Carl Kundmann a Vienna tra il 1893 e il 1902. I quattro gruppi scultorei intorno a Pallade Atena raffigurano i quattro fiumi principali dell'Austria: il Vltava, l'Elba, l'Inn e il Danubio. Atena, dea guerriera e vergine, una delle più rispettate, ha varie funzioni: difende e consiglia gli eroi, istruisce le donne industriose, orienta i giudici dei tribunali, ispira gli artigiani e protegge i fanciulli. Era anche dea della sapienza e delle arti.

Per concludere vorrei citare il film Watchmen, tratto dall’omonima graphic novel di Alan Moore. Per Alan Moore e Dave Gibbons, Bob Dylan era la luce guida nell'oscurità, un artista che ha modellato un modo completamente diverso di fare le cose. Ed è interessante come il regista Zack Snyder abbia utilizzato il brano The Times They Are A-Changin' di Dylan, nella sequenza dei titoli di testa nella trasposizione cinematografica di Watchmen. Possiamo qui notare la consapevolezza del concetto di tempo (in una cornice storico) da parte di un giovane autore, che si stava imponendo al firmamento musicale dell’epoca. In una lotta personale e perentoria contro il tempo e lo spazio. Signori anche questo è Bob Dylan.

Dario Greco


domenica 5 gennaio 2025

Blood on the Tracks: magnifica ossessione


Tangled up in Blue (Storia di un ordinario capolavoro)

Non è facile scegliere una canzone capace di rappresentare al meglio i 29 anni di una persona. Indipendentemente da chi sia il soggetto, o la soggetta. Variabilmente all'approccio e all'attitudine, sono cazzi amari, ma la vita non è sempre dolce, nemmeno se fai il pasticciere Trotzkista con la licenza di uccidere.
Perché si parla di una delle linee d’ombra inevitabili, come una lama rugginosa che scava, come un riff violento degli Stones: la chitarra che commenta abilmente le scene di un gangster movie alla Scorsese. Nello stesso modo, per me è molto difficile scegliere, anche se mi vedo costretto a farlo. Il disco è Blood on the tracks, la canzone sarà Tangled up in blue. Fin qui tutto regolare, non fosse che per una questione di maniacale perfezionismo e dovere filologico, verso chi ancora non ha interrotto la lettura, devo motivare perché proprio un verso, perché questo verso mi trasmette al contempo: inquietudine, rabbia, speranza, prospettive di vita. Ambivalente oltretutto, visto che posso utilizzarlo per andare avanti, per tornare indietro e ovviamente per incespicare. Cosa che riesce meglio a un numero sempre maggiore di persone. E’ ineluttabile, in una misura esponenziale, possiamo dire. Ora, se una persona scrive, e lo fa spinto da una certa motivazione, è normale rimanere impigliato, nel goffo tentativo di dissimulare convinzioni. Un punto di vista, un dettaglio, una sorta di illuminazione, si spera. 
Domandiamoci allora perché le migliori letture e le pagine più belle vengano realizzate e assorbite durante il momento più buio, quando cede la resistenza, quando ti accovacci nel tuo piccolo giaciglio, avviluppato nella tristezza, in quella malinconia che per forza di cose, sarà adamantina color magenta. Si arriva a un punto in cui il colore è musica, le parole sono immagini e tutto si mescola bene, come un long drink, come un amabile fine settimana trascorso in compagnia di un’amica, quel gruppo di persone che puoi chiamare casa. Ho scritto finora questa piccola antologia con una precisa metrica, di notte, quando le forze mi venivano meno. Così sono riuscito meglio ad abbandonarmi alla malinconia, al ricordo di ciò che è stato, nel bene e nel male, giusto e sbagliato, seguendo una certa idea, di racconto, di prosa. 

Scelgo in questa occasione una precisa partitura e inizio dal seguente verso:

Così ora sto tornando di nuovo indietro, devo raggiungerla in qualche modo. Tutte le persone che conoscevamo sono un'illusione per me ora. Alcuni sono matematici altre sono mogli di carpentieri. Non so come sia iniziato tutto non so cosa facciano delle proprie vite, ma io sono sempre sulla strada diretto verso un altro incrocio.

Ora, io non so se avete dimestichezza con il modo di suonare la chitarra di Dylan, con la sua metrica e il fraseggio. Posso solo assicurarvi che in questo brano, qualunque esecuzione voi prendiate, il Nostro non perde un colpo. Mi spiego: non sto parlando da un punto di vista tecnico, lì sappiamo bene che si tratta di un autore a cui è sempre piaciuto prendersi qualche libertà espressiva. Intendo a livello emozionale. E non è affatto una giustificazione, perché bisogna essere davvero ottusi o fatti di ghiaccio per non considerare in un lavoro del genere l’elemento e l’apporto emozionale. Basta ascoltare la versione naked del brano per ricredersi. Parliamo di un autore ispirato ai massimi livelli, oltre le barriere di un chitarrista scambiato frettolosamente per menestrello capace di fare il busker e vagabondare per le vie innevate di New York City. 

Questa volta Bob Dylan decide di fare sul serio e di mettere sul piatto tutto i mezzi di cui dispone. Inclusa la riscrittura, inclusa la possibilità di riconsiderare una registrazione cristallizzata e forse più adatta per descrivere il contesto. Però l’imponderabile e imprevedibile concetto di tempo, spazio e fiuto per l’arte, colpiscono ancora una volta, lasciando il segno. È veramente un altro punto di vista, aggrovigliato nella tristezza. C’è un sentore di sangue in bocca, come se avessi beccato un pugno dritto sui denti, e forse è così, forse invece si tratta di canzoni di redenzione che raccontano di una Terra straniera e desolata più che promessa, di un Tempo vissuto, forse immaginato. Tangled up in blue è quel tipo di brano dove l'autore, da solo, con una band di accompagnamento, in studio, o dal vivo, corre i maggiori rischi. Rischi verso sé stesso, verso gli affetti che aveva tentato per lungo tempo di proteggere. Senza riuscirci. Perché funziona così, tu cerchi di difendere qualcuno, qualcosa, ma in realtà è da te stesso che dovresti proteggerli. Specialmente se la tua componente migliore, quella principale, è autodistruttiva e quindi lesiva. Possono essere le metriche musicali, può essere una tela, può essere sicuramente un foglio bianco come questo o quello che stai visualizzando ora. Per circa 25 anni ho provato rispetto e timore reverenziale verso autori di cui non sapevo poi molto, lo stesso dicasi per scrittori, registi e poeti. Eppure il vero timore è quello che sperimentiamo nei confronti di noi stessi, dei nostri alti ideali, della coerenza. Mi resi conto che c’era qualcosa di distorto in tutto questo, molto presto, e ho tentato per lungo tempo di sfuggire, a me stesso e al mio giudizio rigoroso, avviluppato nella tristezza. Come un cardellino che si dimena e che batte le ali contro vento, in un freddo giorno di pioggia, qui nella campagna irlandese, dove mi trovo proprio ora, in questo momento, mentre sto ascoltando la canzone, senza skippare i brani che non mi piacciono, ma abbondando di repeat-one, quando il pezzo è uno della prima triade, quando ad esempio si sta cantando di un rifugio, un riparo dalla tempesta che infuria, impazza, contro il morire della luce. Davvero bella questa! Non vediamo la luce del sole da circa tre settimane; scarpe usate eppur bisogna andare! Bisogna pedalare, verso quella scoscesa rupe, verso la collina di Hollyhill, col Blues di Marri Again! Del resto la pausa per fare colazione nella spaziosa canteen è solo tra due ore e mezza: se mi dice bene ci saranno quelle salsicce che mi piacciono tanto! E allora, di cosa mi dovrei lamentare, se ieri sono stato in un locale a jammare con ragazzi provenienti da mezza Europa. Proprio io, che non sono mai stato un vero bassista. Forse non importa, forse ci siamo capito lo stesso, e anche loro avevano qualcosa da farsi passare, un dolore, un dispiacere, un momento di nostalgia, avviluppato nella tristezza.

Dario Greco


giovedì 2 gennaio 2025

Le profezie di Ezechiele secondo Dylan

 The Times They Are a-Changin' (1964) 

Provate a immaginare la scena. Un giovane cantautore non ancora 23enne lancia le proprie invettive contro un cielo plumbeo, minaccioso, nefasto. Il terzo disco in studio di Bob Dylan risente fortemente del clima in cui gli Stati Uniti d'Americano erano piombati durante quel fatidico autunno del 1963. Il presidente Kennedy era stato assassinato appena sei settimane prima della pubblicazione di The Times They Are a-Changin' e il musicista che diede alle stampe il suo primo disco completamente autografo sente il peso e la responsabilità di un momento così drammatico, privo di speranza. Una premessa doverosa per un disco che ascoltato oggi manca un po’ del pathos e della leggerezza a cui Dylan ci ha abituati nel corso dei molti episodi maggiori della sua carriera.

Disco importante  per un artista poco più che ventenne, ma già in grado di incarnare, più di tutti, il senso dell'epoca che sta attraversando. Le registrazioni risalgono a un periodo che va dal 6 agosto al 31 ottobre 1963, motivo per cui il disco pur risentendo del clima politico e sociale di quel periodo non dovrebbe avere riferimenti diretti alla storia recente del Paese in cui è ambientato. Sono proprio i temi, i riferimenti biblici e il tono serio a creare un corto circuito di cui il giovane autore faticherà ad affrancarsi completamente per lunghissimo tempo. Ancora oggi in Italia e in Europa ci sono ambiti dove l'equivoco politico e politicizzato permangono e sono probabilmente uno dei motivi per cui i dischi e la musica di Bob Dylan sono ritenuti, a torto, materiale valido per una certa parte di utenza e di ascoltatori. Con questo non intendiamo dire che Dylan è un autore bipartisan o politicamente ambiguo, ma che non ha certo impostato la propria carriera artistica sull'impegno politico e partitico. Ugualmente c'è da dire che questo terzo disco risulta ancora oggi, dopo oltre 50 anni il lavoro più radicale e innodico per una generazione.

Non è servito il tempo e i molti riferimenti nella cultura di massa per rendere questo disco qualcosa di meno vincolato al momento storico in cui è stato realizzato e pubblicato. Eppure vi sono titoli e testi che potrebbero parlare di molte cose diverse. L'ambiguità dei testi di Dylan è leggendaria, ma questa volta, salvo casi isolati, appena poggiamo la puntina sul vinile ci scorre davanti un'istantanea dei primi anni sessanta. Il ché non è necessariamente un male, anche se preferiamo pensare a Dylan come a un autore universale, senza tempo, eterno. Dylan il profeta, l'autore che flagella la propria coscienza e che è più maturo rispetto ai suoi dati anagrafici. Un disco che però si fa fatica ad ascoltare per intero, a differenza del precedente The Freewheelin' o dei lavori che lo seguiranno. Resta questa immagine seria e alcune delle più azzeccate metafore mai enunciate da un cantante fino a quel momento. Ogni brano, sia esso di denuncia o di protesta, ha un senso ed è perfettamente a focus, eppure c'è qualcosa nell'inflessione della voce e nelle note di chitarra che fanno pensare a tematiche troppo serie per essere ascoltate in un normale giorno di pioggia, di sole e di vento di una timida primavera come quella che stiamo attraversando. 

“Sapevo esattamente cosa dire e a chi dirlo. Volevo scrivere un grande brano, una sorta di pezzo simbolo con versi brevi e concisi, accumulati in modo ipnotico l'uno sull'altro.”

Di Dylan potrebbe dirsi che è stato uomo per tutte le stagioni, come accezione assolutamente positiva. Eppure questo giovane ventitreenne che si affaccia alla canzone di protesta appare così sicuro e consapevole di un ruolo non certo semplice. Ha dalle sue la spavalda certezza dei vent'anni ed è un artista con una missione, come raramente sarà nell'arco della sua lunga carriera. Il terzo disco che contiene solo materiale autografo è lavoro serio, perentorio che suona davvero biblico. Le sue più che canzoni, sembrano essere canti di chiesa. Una chiesa laica e politicamente impegnata, ma che risponde a criteri piuttosto precisi, codificati. Un giovane ossessionato dal folk, che non nasconde le proprie influenze e che ammette di aver preso in prestito alcune melodie da vecchi brani irlandesi e scozzesi. Due esempi su tutti sono quelli di Restless Farewell dal tradizionale The Parting Glass. Mentre la melodia di With God on Our Side proviene da The Merry Month of May. La stessa title track ha qualcosa di già sentito, visto che affonda nelle radici della tradizione. Aspetto che anziché penalizzarne il valore, lo accresce, rendendo il brano riconoscibile e semplice da memorizzare. Dal punto di vista squisitamente sonoro e musicale il disco è tanto scarno quanto solenne. Tuttavia non mancano i lampi di luce e di brio in un album che è principalmente cupo, teso, vibrante. Tra le cose più solari, troviamo un brano arrembante come When The Ship Comes In, che secondo la critica musicale deve qualcosa al brano Seeräuberjenny (Jenny dei pirati) composto da Kurt Weill su testo di Bertolt Brecht. Dieci brani dove oltre alle già citate spiccano composizioni come One Too Many Mornings, una delle rare canzoni non dichiaratamente politiche del disco, assieme alla splendida Boots of Spanish Leather, una sorta di remake di Girl from the North Country. L'impegno torna protagonista in brani come The Ballad of Hollis Brown, ballata amarissima che narra le vicende di un contadino del South Dakota che travolto dalla disperazione e dalla povertà uccide prima la moglie e i figli e infine sé stesso. Non è un caso se questo brano ha ispirato molti anni dopo il regista David Lynch che realizzerà una cover di questo brano per il suo disco The Big Dream del 2013. Troviamo poi canzoni che faranno epoca come The Lonesome Death of Hattie Carroll, ancora un brano su un omicidio e una grave ingiustizia da denunciare, Only a Pawn in Their Game, dedicata all'attivista dei diritti civili Medgar Evers, ucciso il 12 giugno del 1963 a Jackson, Mississippi. Da segnalare anche il brano North Country Blues, tipica ballata del Minnesota, dove a raccontare questa storia di lavori in subappalto nell'Iron Range, per la prima volta troviamo una protagonista femminile. Radici folk profonde per un pezzo ancora una volta drammatico e teso.

"Venite scrittori e critici che profetizzate con le vostre penne e tenete gli occhi ben aperti, l'occasione non tornerà. E non parlate troppo presto perché la ruota sta ancora girando e non c'è nessuno che può dire chi sarà scelto. Il perdente adesso sarà il vincente di domani perché i tempi stanno cambiando."

Resta da dire della title track. Probabilmente una delle più famose canzoni di Bob Dylan. In molti ritengono che catturi lo spirito di sconvolgimento sociale e politico che ha caratterizzato gli anni '60. A chiudere il cerchio, confermando le tesi secondo cui Dylan è uno dei maggiori autori della sua generazione, ci penserà il monumentale brano Murder Most Foul, pubblicato come singolo nel 2020 e che farà poi parte del disco Rough and Rowdy Ways. Il brano tratta dell'assassinio del presidente John F. Kennedy nel contesto della più ampia storia politica e culturale americana. Come a dire che dopo quel fatidico 22 novembre 1963 qualcosa cambiò per sempre nelle vite di chi era presente. I tempi sono cambiati, nuovamente. Per completezza si consiglia di ascoltare i primi due volumi di The Bootleg Series 1-3, visto che molti outtakes di valore assoluto provengono proprio dalle sessions di The Times They Are a-Changin'. Chiude il disco un contenuto unicamente testuale. Si tratta del poema che si trova sul retro del vinile: 11 Outlined Epitaphs. Quasi a dire che il ragazzo avesse ancora delle cose da dire… oltre alla mitragliata di parole già contenute nelle sue dieci canzoni da consegnare alla Storia.

Lavoro importante e indispensabile, ma che raramente lascia spazio all'immaginazione e concede tregua rispetto a una rovina imminente. Tra le sue qualità troviamo la capacità di prevedere quel che accadrà 50 anni dopo. Non sempre la musica deve essere qualcosa di piacevole da ascoltare, quando ci sono dentro parole di questo valore assoluto. Uno dei dischi più ostici da ascoltare di Dylan, ma che vale comunque lo sforzo. Soprattutto in momenti drammatici come quelli che stiamo vivendo.

 

Dario Greco Writer