sabato 11 gennaio 2025

Pat Garrett & Billy The Kid (1973)

 

  Commento critico a "Pat Garrett & Billy The Kid" 

Una breve premessa storica

Nel 1871 per tenere a freno i cow-boy che invadevano la città e usavano spesso la pistola, il sindaco di Abilene nel Kansas, assunse con l’incarico di sceriffo, un personaggio famoso: James Butler Hickok, conosciuto come Wild Billy. Hickok era un tipico gunfighter, cioè un uomo che si guadagnava da vivere sfruttando la propria abilità con la pistola e il suo coraggio personale. Gli storici distinguono il gunfighter che affronta gli avversari faccia a faccia in un leale show-down, dal gunman, ovvero l’assassino prezzolato che uccide sparando alle spalle. Furono gunfighter diversi sceriffi e fuorilegge di frontiera come Wyatt Earp, John Wesley Hardin e Billy the Kid. Il Kid, secondo la leggenda, aveva commesso 21 omicidi, uno per ogni anno di età. Tra i famosi gunman troviamo invece Pat Garrett, che come sceriffo uccise a tradimento proprio Billy the Kid, consegnando il suo nome alla storia e alla leggenda.     

“Bloody Sam” e la sua versione del mito di Billy the Kid

Immaginate la scena: Bob Dylan in compagnia dello sceneggiatore Rudy Wurlitzer si recano in Messico per convincere Peckinpah a scritturare Dylan per una parte nel suo nuovo film. Giunti in tarda serata alla soglia dell’abitazione sentono uno sparo e scorgono una cameriera che fugge terrorizzata. Entrando sentono un ulteriore sparo, prima di trovare il regista nella sua stanza, mezzo nudo di fronte a uno specchio a figura intera spaccato. Aveva una pistola in una mano e una bottiglia di tequila nell’altra. Dylan e Peckinpah si scambiano qualche battuta e successivamente Wurlitzer spiega al regista che il cantautore vorrebbe partecipare al film su Billy the Kid. Inutile dire che Dylan rimane stregato dal fascino da fuorilegge di Bloody Sam, come veniva chiamato Peckinpah.

Riuscite a pensare a un regista più iconico di David Samuel Peckinpah? Se il nome non vi dice molto, pensate che si tratta dell’autore di film come The Wild Bunch, Getaway! Cane di paglia, The Ballad of Cable Hogue, L’ultimo buscadero, Voglio la testa di Garcia, La croce di ferro e Convoy. Un regista importante non solo per aver dato un’impronta significativa al Revisionist Western, quanto per la sua vena provocatoria, geniale e imprevedibile. Non a caso registi come Haneke, Von Trier, Campion e Lanthimos, ma i fratelli Coen, Tarantino e Malick, devono qualcosa (in certi casi molto) al regista di Fresno. Si fa fatica a citare gli attori, gli sceneggiatori e i direttori della fotografia che hanno collaborato con Peckinpah nel corso della sua carriera. Quattordici opere, di cui giusto dieci di grande successo e/o di forte impatto culturale, più un esordio come sceneggiatore non accreditato per L’invasione degli ultracorpi di Don Siegel.

I suoi film utilizzavano una rappresentazione visivamente innovativa ed esplicita dell'azione e della violenza, nonché un approccio revisionista al genere western. Le opere di Peckinpah trattano del conflitto tra valori e ideali, nonché della corruzione e della violenza nella società umana. I personaggi sono solitari o perdenti che desiderano essere onorevoli, ma sono costretti a scendere a compromessi per sopravvivere in un mondo di nichilismo e brutalità. La personalità combattiva di Peckinpah, segnata da anni di abuso di alcol e droghe, ha influenzato la sua eredità professionale. La produzione di molti dei suoi film includeva battaglie con produttori e membri della troupe, danneggiandone la reputazione e la carriera, durante la sua vita. Potrebbe bastare questo per rendere Sam Peckinpah un autore di culto, ma c’è dell’altro di cui finora per una forma di ritrosia e di timore reverenziale non abbiamo parlato. Si tratta dell’esordio di un musicista nelle vesti di attore. No, non è James Taylor e nemmeno Johnny Cash, ma se vi cito Kris Kristofferson allora si potrebbe accedere una lampadina? Ora, trattare questo argomento significa bypassare tante cose importanti accedute tra gli anni Sessanta e i primi Settanta.

Tagliando la testa al gallo facciamo ancora un nome, necessario: quello dello sceneggiatore e scrittore Rudy Wurlitzer. Uno scrittore che veniva paragonato a Thomas Pynchon, che aveva già collaborato con Roger Corman e Monte Hellman. Non solo, aveva già scritto una sceneggiatura che prevedeva come attori cantanti e musicisti, tra cui proprio James Taylor. Il film è Two-Lane Blacktop che successivamente ispirerà Bruce Springsteen per la realizzazione di uno dei sui album più cinematografici e riusciti della sua carriera: Darkness on the Edge of Town. Disco non a caso giudicato una sorta di omaggio al western crepuscolare di Leone e Peckinpah. Wurlitzer, nativo di Cincinnati, Ohio, abitava a New York ed era diventato amico di un altro importante cantautore. Si trattava naturalmente di Bob Dylan e il resto a questo punto, è storia. 

Nonostante il suo carattere non facile Sam Peckinpah ingaggia proprio Dylan per realizzare la colonna sonora del suo nuovo film che si girerà in Messico, nella città di Durango. L’avventura a Durango si intitola Pat Garrett & Billy The Kid, titolo cult per gli amanti del cinema e della buona musica.  Storia incentrata sul rapporto di contrastata e tragica amicizia, che ha dato spunto a molti film spesso ben accolti dal pubblico. Ora nonostante Peckinpah fosse un cineasta controverso e raramente leggero, questa sua opera risulta tra le più accessibili della sua filmografia. Ritratto malinconico della fine di un’epopea leggendaria, ricca di nobili sentimenti. La vera grandezza del film sta nel fatto che si inserisce nel contesto del western revisionista di Arthur Penn e Robert Altman, dato che ne condivide la filosofia e la struttura estetica e formale. In Pat Garrett & Billy The Kid, la morte non è glorificata. È dappertutto, ed è davvero tragica, orribile.   

Bob Dylan Soundtrack

“John Wesley Harding era un amico dei poveri, andava in giro con una pistola in entrambe le mani, aprì molte porte dappertutto nel Paese, ma non fece mai del male a un uomo onesto.” (B.D.)

Ho fatto questa doverosa premessa perché non ha alcun senso parlare della colonna sonora, senza un robusto riferimento cinematografico. Il disco forse è più conosciuto del film stesso ed è composto da dieci tracce, di cui due canzoni e sei brani strumentali. Una di queste canzoni, Billy, è ripetuta tre volte, mentre l’altra, Knockin’ on Heaven’s Door non ha bisogno di presentazione. Nemmeno a farlo apposta Rolling Stone ha stroncato questa operazione definendola “inetta, amatoriale e imbarazzante”. Arrivati a questo punto della retrospettiva dylaniana perdonerete il mio atteggiamento a volte sarcastico e sprezzante verso la critica musicale del tempo. Una critica che sovente manca di lungimiranza e di obiettività, aspetto che sarebbe fondamentale per un professionista, ma che oggi fa ridere e non poco. A questo bisogna inoltre aggiungere il fatto che queste parole siano state pronunciate da Jon Landau, che di lì a poco avrebbe “scoperto” un rocker e un autore come Bruce Springsteen! Ma questa è decisamente un’altra storia. Per chi volesse approfondire il discorso Pat Garrett & Billy The Kid, oltre a recuperare il bel film interpretato da James Coburn e Kris Kristofferson, mi sento di consigliare il bootleg Peco’s Blues. Questo disco (non ufficiale) contiene le sessioni complete realizzate da Dylan e restituisce l’integrità del progetto. È una vera chicca per completisti, ma vale la pena ascoltarlo almeno una volta, anche perché contiene una canzone altrimenti inedita. 

Difficile esprimere un giudizio sulla colonna sonora, dato che perlopiù si tratta di brani strumentali che fanno da accompagnamento al film, mentre le due canzoni presenti sono entrambe notevoli e importanti per ragioni speculari. A parte il brano di apertura, Main Title Theme (Billy) mi piace ricordarne un altro. “Bunkhouse Theme”, una delle cose più dolci che Dylan abbia mai inciso. Il brano ha un aspetto sentimentale, una sorta di bellezza semplice, simile al barocco russo, che lo fa spiccare all’interno della colonna sonora e del repertorio dylaniano. Anche “Final Theme” è un pezzo incantevole, compiutamente bello e guidato dal flauto. Dove si staglia un lugubre coro di accompagnamento mortuario. Perché la soundtrack realizzata di Dylan è una sorta di requiem, per quello che non è stato, ma poteva essere. Piaccia o meno, nel corso del tempo ha guadagnato un proprio posto nella storia della musica popolare. Bisogna infine spendere qualche parola sul brano più celebre, la traccia numero sette di questo album. La canzone fu incisa lo stesso mese (gennaio ’73) in cui fu dichiarato il cessate il fuoco in Vietnam, ponendo fine al coinvolgimento degli USA in quel lungo conflitto. Un brano che si intona con lo stesso stato d’animo dell’America. Elegiaca, nel suo movimento discendente e perfetto, si tratta di un testo composto da due quartine più un ritornello, sempre uguale. Un motivo semplice da memorizzare, che ebbe non a caso grande successo, nel corso del tempo. Chi vi scrive è a conoscenza del fatto che in Italia  in molti considerano la versione di Knockin’ on Heaven’s Door dei Guns ‘N Roses superiore rispetto all’originale di Dylan. Evito di esprimere un parere, anche perché viviamo in un mondo dove la conoscenza, la competenza e la capacità analitica non sempre sono considerate aspetti importanti e/o positivi. Ad esempio a Jon Landau dopo l’esperienza di critico musicale venne data una seconda opportunità come produttore di Bruce Springsteen. Questo significa che nella vita molte cose sono possibili, ma non tutte le cose. Landau, dopo aver sparato cazzate per anni sul rock, riuscì a riscattarsi, producendo dischi epocali ed epici come Born to Run, The River e Darkness on the Edge of Town. 

Bob Dylan ha superato la delusione del flop di Pat Garrett & Billy The Kid e ha continuato a barcamenarsi tra dischi di mestiere e qualche raro capolavoro. Diciamo che a lui interessava entrare a contatto con un mondo che sentiva suo, come quello del western e del cinema d’autore. Dopo questa esperienza scriverà album ispirati a quel periodo come Desire, Knocked Out Loaded e molto tempo dopo Together Through Life e Tempest

Ora per chi fosse interessato ad approfondire il legame tra Dylan e il mito dei fuorilegge e cow-boy, consiglio l’ascolto supportato dalla lettura dei testi del disco del 1967, John Wesley Harding. Si tratta di un lavoro che la critica dell’epoca ebbe difficoltà a inquadrare, ma che a distanza di cinquant’anni possiamo considerare come uno dei dischi più riusciti e concept del cantautore nordamericano. Naturalmente non è un album rock né tantomeno psichedelico. Non regala nemmeno grandi momenti di energia, pur contenendo due classici dylaniani come All Along the Watchtower e I’ll Be Your Baby Tonight. Brani che sono stati ripresi da artisti come Jimi Hendrix, Robert Palmer, Linda Ronstadt ed Emmylou Harris. Dylan tesse questo allegorico arazzo del fuorilegge che prende le armi contro il mondo degli uomini e delle idee, cercando redenzione e libertà; alla fine trova la salvezza tra le braccia del suo vero amore, così come in Knockin’ on Heaven’s Door lo sceriffo aiutante di Pat Garrett, trovava invece la morte.

Purtroppo anche Sam Peckinpah trova la morte, quasi come un personaggio di uno dei suoi film, il 28 dicembre 1984. Per fortuna prima che il suo “pupillo” tornasse al cinema con il disastroso Hearts of Fire diretto da Richard Marquand e interpretato da Rupert Everett e Fiona Eileen Flanagan.

 

Testo a cura di Dario Greco

N.B.

Uno speciale ringraziamento ad Alessandro Aloe per la consulenza storica.

giovedì 9 gennaio 2025

Impressioni su Rolling Thunder Revue - A Bob Dylan Story by Martin Scorsese


Semplicemente magnifico!
Assolutamente eccezionale!

Ehi, amico, non dirmi che ancora vai dietro alle cazzate che spara Bob Dylan?!? Con tutto quello che sta succedendo nel mondo... Fake news, gay news, rumors, social network, crash network, spare network...

E perché no? Il mondo continua a girare sempre nella stessa dimensione, mi sembra...

A te sembrano troppe cose, ma ci sono davvero tanti problemi da risolvere e frasi che vanno decifrate, sedimentate. Del resto non serve un influencer per capire da che parte tira il vento, oggi! E la risposta soffia su Instagram... 



Non servono parole e non bastano immagini per descrivere quel sapore, quella fumosa consapevolezza, quello squallido disfacimento, vitale, pulsante e inconsistente che sono stati gli anni settanta e continuano ancora a rappresentare, per l’immaginario popolare, per il cinema e per la musica statunitense, di un America ancora giovane e forte, ma al contempo stordita dalle droghe, dal clamore e dai fiumi di denaro che ruotavano attorno alla creatività, al consumo dell’arte e alla mercificazione di qualcosa di selvaggio, qualcosa di vero. 

Come Dylan, come i poeti pazzi e ubriachi, come certi cantautori difficili da etichettare, come un’intera generazione dazed and confused… Chi meglio di Martin Scorsese avrebbe potuto raccogliere e far raccontare ai suoi stessi protagonisti, colui che meglio di tutti aveva saputo raccontare e rendere mitologiche le strade di New york e di Little Italy. La strada, le molte strade che Dylan e la sua pazza carovana avevano percorso, indietro nel tempo, avanti verso una prospettiva distorta, di un racconto che era sogno e di un sogno che era per metà il racconto ubriaco del naso biondo della verità. E il divino Allen e tutto quel carrozzone di delusi, beati, ebeti poeti! Chi meglio di un poeta può raccontare la visione di un mercenario, che non sa bene perché sta combattendo, ma raccoglie le forse e continua la sua battaglia. Di inconsistente vacuità e splendore, come un tuono rotante!


Rolling Thunder Re-vue!

Fino alla resa, fino all'ultimo respiro di una nota stonata, di un’armonica ferita, che sa ancora come suonare, e ruggire e regalare poesia e speranza al mondo. Ma il mondo non ne vuole! Questo è forse il peccato originale del Bob Dylan anni settanta. E’ arrivato troppo tardi per la vittoria e troppo presto per la resa, e si è dovuto accontentare, come un Bardo di vacuità e speme di un’onorevole vittoriosa sconfitta.

Mr Tambourine Man! Play a song for me (these songs of Freedom)
E Woodstock non è mai stata così lontana, così vicina, forse… 
(Sto dicendo cazzate confuse.)
Perché non c’è successo come il fallimento
E il fallimento non è affatto un successo

Anche se nella vita a volte contano più gli affettati che l’affetto, e questo Bob Dylan sembra conoscerlo bene, sulla propria pelle, nella carne di chi ti mostra le ferite senza orgoglio e fierezza, ma come semplici verità, per tutto quello che sono, che è la vita e la vita non è la ricerca di te stesso o di qualcosa. E’ creare te stesso e forse una buona canzone… rock and roll…


Dario Greco



Andammo a vedere il Drugo, The Big Lebowski e New Morning

- Eh, dimmi, come ti vanno le cose? 
- Qualche strike e qualche palla pesa.
- Come ti capisco!

- Ah. Grazie, Gary. Beh tu stammi bene. Torno alla partita.
- Certo. Prendila come viene.
- Sì. sì. 
- So che lo farai.
- Sicuro, Drugo sa aspettare.

Secondo un modo di pensare convenzionale, è più semplice scrivere di argomenti che ci appartengono e che ci stanno maggiormente a cuore. Personalmente ritengo sia un luogo comune da sfatare. New Morning di Bob Dylan è uno dei motivi per cui mi sono avvicinato a questo autore. Era il 1998 e al cinema usciva il film dei fratelli Coen, Il grande Lebowski. Io avevo diciannove anni e mi trovato a Roma quando la pellicola venne distribuita in Italia. Purtroppo tra le città dove il film uscì non c'era Cosenza, quindi dovetti aspettare che venisse riproposto per una rassegna di cinema d'essai in seconda visione.

Ero già un discreto appassionato di film e tra i miei preferiti c'erano proprio i Coen assieme a Kubrick, Scorsese, Lynch, Polanski e Quentin Tarantino. Dei Coen avevo amato e mandato a memoria i vari Arizona Junior, Barton Fink, Blood Simple e soprattutto Fargo. Non sapevo niente di questo nuovo film, ma appena vidi il suo manifesto intuii che aveva del potenziale per essere qualcosa di diverso, nuovo, divertente e stimolante, almeno per uno come me. Di Bob Dylan sapevo che era un grande autore di testi e di canzoni, ma non lo ascoltavo ancora, o meglio, conoscevo quei 15-20 pezzi che per cultura personale e distratta, mi era capitato di beccare, in film, nei passaggi radio o in trasmissioni tv a tema musicale tipo Help di Red Ronnie. Ok, sto divagando. Flashforward: ho visto e rivisto Il Grande Lebowski e grazie a una VHS mando a memoria il brano che accompagna i titoli di testa del film. Si tratta di The Man in Me. Un pezzo "minore" di Dylan, solo che qui non sembra il cantante che aveva imparato a distinguere. È un cantante diverso, con un piglio allegro, quasi ironico. Da qui in poi gradualmente cado nel vortice e nel pentolone come un gallo da combattimento in preda al folk-blues. Grazie a un amico comune recupero un po' di LP e mi metto sul mio giradischi Philips che in quel momento fa ancora il suo sporco lavoro. Ascolto quindi dischi come Infidels, Nashville Skyline, Another Side of Bob Dylan e soprattutto New Morning. BOOM! Mi piacevano già alcune cose come Eric Clapton, Sting, R.E.M., Neil Young e aveva iniziato ad appassionarmi a Bruce Springsteen grazie a dischi come The River e Born to Run. Però l'effetto che mi fece un disco sulla carta tranquillo e "minore" come New Morning di Bob Dylan, pubblicato il 21 ottobre del 1970, me lo fecero poche cose. Da lì fu una ricorsa matta per reperire tutti i dischi, le musicassette e i cd possibili di Dylan. Ricordo che mio fratello aveva registrato una trasmissione su Rai 3, Schegge, dove c'era una porzione di uno speciale tv del 1976, HARD RAIN. Un vero battesimo del fuoco sacro dylaniano per me.

New Morning non avrà il passo dei capolavori anni sessanta e non sarà un disco che cambiò la storia della musica, ma cambiò la mia vita, ed è per questo che ve ne parlo con sentimento e a cuore aperto che sgorga emozione, ricordo, rabbia e tensione. Prima di tutto non ci sono brani troppo lunghi. Quindi se uno è leggermente curioso se lo può ascoltare e riascoltare anche 3-4 volte al giorno. Questo è un approccio che mi direte si può applicare anche ad altri dischi, non solo di Dylan, ma di tutto il pop minimale fini sessanta e inizio settanta. Purtroppo però non sono un fan di Cat Stevens o di James Taylor e scoprirò Elton John solo diverso tempo dopo. Conoscevo già Joe Cocker e quando recuperai alcune sue cose mi fece piacere ascoltare la sua versione un po' reggae di The Man in Me. Oggi so che questo disco nasce da diversi approcci, tra cui la composizione di una colonna sonora teatrale per un pièce di Archibald MacLeisch dal titolo Scratch. Leggo con piacere uno dei capitoli più ispirati di Chronicles - Volume 1, dedicato proprio a questo disco di transizione.

Tuttavia per essere un album meditativo e di transizione, New Morning ti colpisce e ti abbaglia. Non ci sono riempitivi, le canzoni sono ben eseguite e arrangiate. C'è Al Kooper assieme a uno stuolo di musicisti e sessionmen di primordine e per l'ultima volta il suo autore viene prodotto dal capace e tranquillo Bob Johnston. Si torna a New York negli studi B ed E della Columbia con un pugno di brani coerenti. Non ci sono le stravaganze hipster degli anni sessanta, ma troviamo comunque il bell'affresco beat di If dogs run free, una canzone del repertorio maggiore come If Not for You, che vanta alcune cover illustri come quella di George Harrison e di Bryan Ferry, oltre la title track, la già citata The Man in me e un nucleo di canzoni che vanno ad arricchire il songbook dylaniano dopo le prove incerte (a livello di critica) di Nashville Skyline e soprattutto di Self Portrait. Personalmente sono trascorsi più di vent'anni da quando la puntina del mio giradischi si poggiò su New Morning, ma lo ascolto come allora e ne traggo piacere. Durante gli anni il valore di questi dischi di transizione è notevolmente aumentato, grazie a cover, antologie e all'uscita del Bootleg Series Vo. 10 Another Self Portrait. Di questo disco ci sono canzoni che porto nel cuore: Went to See the Gypsy, che si ipotizza fosse un omaggio a Elvis, e poi ancora, Three Angels e Sign on the Window. Ricordo di aver assistito al soundcheck del cantautore Mimmo Locasciulli, dylaniano doc, il quale per scaldarsi e per provare microfono e voce eseguiva all'epoca questo pezzo. Ecco, questi sono quei ricordi marchiati a fuoco nella memoria. Tatuaggi sonori che il tempo non cancellerà mai, finché ci sarà spazio per raccontare la poetica di un disco brillante e solare come New Morning di Bob Dylan. Non un capolavoro, ma qualcosa di più di un amuleto portafortuna per il sottoscritto.

Dario Greco


Se ti è piaciuto questo post ti invitiamo a visitare il Lunario Musicale del Lockdown:

mercoledì 8 gennaio 2025

A proposito di Shadow Kingdom (2021)

 

Shadow Kingdom (2021)

 

È innegabile come la lunga e rilevante carriera di Bob Dylan possa essere analizzata in base a diverse fasi, epoche, bruschi balzi temporali in avanti, indietro e in orizzontale. C’è stato però durante questi dieci anni un momento cruciale, un crossroad, l’ennesimo, il quale pare essere sfuggito alla critica mainstream. Mi riferisco a quella fase inaugurata con “Love and Theft” album del ritorno del 2001, erroneamente considerato sequel del precedente Time Out Of Mind, dove il Nostro cambiò praticamente modus operandi. Da lì in poi realizzò tre dischi composti da inediti, l’ultimo dei quali risponde al nome di Tempest, del 2012. Successivamente iniziò la pubblicazione di quello che venne giustamente definito come il suo Great American Songbook. Tre volumi per cinque album, il primo dei quali si intitola appunto Shadows in the Night, disco concept composto da dieci tracce standard pop, portate al successo da Frank Sinatra, a cavallo tra gli anni quaranta e il 1963. 

Ora, chi conosce bene Dylan avrà imparato che i dettagli non solo fanno la differenza, ma vanno a tratteggiare il quadro nel suo insieme. C’ è un luogo comune e un refrain che con Dylan suona in continuazione: è un artista enigmatico, non si capisce mai dove voglia andare a parare. Potrebbe essere veritiero, se prendessimo in analisi la sua carriera tra gli anni sessanta e i primi novanta. Da quel momento in poi però, diciamo più o meno in seguito alla pubblicazione della trasmissione televisiva Unplugged, qualcosa cambia e in positivo. Era il 1995 e Dylan veniva giustamente considerato superato, non in linea né al passo coi tempi, non era nemmeno giudicato un nume tutelare del movimento grunge, a differenza del suo illustre collega, Neil Young. Dato praticamente per bollito, Dylan aveva però un paio di carte da giocare. Una di queste fu richiamare il produttore Daniel Lanois per una nuova avventura in sala di incisione. Ne uscirà quello che ad oggi è considerato uno dei suoi successi più importanti, dalla seconda metà degli anni settanta in poi. Ma questa è storia, passata. My back pages, direbbe His Bobness!

Realizzare questo disco è stato un autentico privilegio. Tutti conoscevamo molto bene questi brani. È stato fatto tutto dal vivo, forse in una o due registrazioni. Senza alcuna sovra incisione. Niente cuffie, niente cabina di registrazione per il cantante. Di cover ne sono state fatte abbastanza: seppellite. Quello che io e la mia band stiamo tentando è il procedimento inverso. Disseppellire i pezzi dalla tomba, per riportarli alla luce del giorno. Perché questa band non lavora con il favore delle tenebre, o meglio non sempre.

Questo il manifesto programmatico espresso dal suo autore, prima del lancio di Shadows in the Night. Oggi invece, con un titolo speculare, stiamo ascoltando e soprattutto visionando un nuovo format dylanesco. Si tratta di questo incantevole film in bianco e nero che risponde al nome di Shadow Kingdom. Ancora una volta Dylan spiazza, destabilizza, distorce tempo, prospettiva e pensiero. Noi appassionati, succubi e senza alcuna possibilità di redenzione, non possiamo far altro che prendere o lasciare. Chiaramente nel mio caso prendo. Del resto il manifesto programmatico è eloquente. 

Parte come se fosse un episodio pilota diretto da David Lynch e ideato in coppia con Mark Frost. Quasi uno spin off di Roy Orbison and Friends: A Black and White Night, il celebre speciale andato in onda appena prima della prima stagione di Twin Peaks. Perché è vero un fatto: si scrive Bon Bon Club in Marseille, ma si legge Bang Bang Bar, Roadhouse. Siamo dalle parti dell’Impero della mente, dove David Lynch potrebbe senz'altro farci da anfitrione. La suggestione è possibile, come abbiamo potuto vedere anche da certi indizi e suggerimenti lanciati dallo stesso regista di Missoula, il quale di recente aveva affermato: “Amo Bob Dylan. Non c’è nessuno come lui. È unico e semplicemente fantastico.” Ora, fin qui niente di strano, pur trattandosi di uno come Lynch! Del resto già nel suo disco del 2013, The Big Dream, Lynch aveva omaggiato Dylan, eseguendo una versione sperimentale di un brano giovanile e disperato come The Ballad of Hollis Brown, tratto da The Times They Are a-Changin'. Stavolta invece è stato Bob Dylan a sconfinare nei territori battuti dal visionario regista americano. Certo, in Shadow Kingdom ci sono altri riferimenti a parte quello evidente di Velluto blu o Twin Peaks, visto che l’atmosfera ricalca, almeno in parte il Quest show CBC TV – Canada, la cui messa in onda risale al 1964. C’è anche un frammento preso da I’m Not There, con quelle sequenze in bianco e nero ideate dal regista Todd Haynes, e se vogliamo potremmo vederci anche uno stile in debito verso l' Hal Ashby di Bound for Glory. 

È pacifico affermare come l’immaginario dylaniano, musicale e non, difficilmente si spinga oltre la prima metà degli anni sessanta. Si pensi ad esempio alla serie di quadri intitolata The Beaten Path (dallo stesso Dylan) e di evidente ispirazione hopperiana, nel senso di Edward. Tutti elementi che si rincorrono e affiorano durante le visioni fumè e volutamente retrò di questo progetto Shadow Kingdom. Nome suggestivo che stavolta non delude né trascende le aspettative. E non ho nemmeno parlato di musica, ma con Dylan, dopo oltre 59 anni di carriera alle spalle, può diventare davvero accessorio, se non superfluo, talvolta. E' scontato affermare che si tratti di uno dei cinque artisti più influenti del Novecento, dove gli altri potrebbero essere Frank Sinatra, Elvis Presley, Johnny Cash, John Lennon e David Bowie. Forse stavolta il Poeta dell’elettricità è davvero riuscito a dipingere il suo capolavoro? Non a caso la canzone di apertura, prestata per lungo tempo ai sodali The Band si intitola appunto When I Paint My Masterpiece.

Dario Greco


martedì 7 gennaio 2025

Io, Bob Dylan e il cinema come veicolo della miseria umana

 


Io, Bob Dylan e il cinema come veicolo della miseria umana

 

<<Io dico che bisogna essere veggente, farsi veggente. Il Poeta si fa veggente attraverso una lunga, immensa e ragionata sregolatezza di tutti i sensi.>> Parto da questa citazione di Arthur Rimbaud, perché trovo giusto irretire il lettore e persuaderlo del fatto che questo possa essere davvero un buon articolo da leggere! Nel corso degli anni, crescendo ho sviluppato una passione viscerale nei confronti di alcuni autori, indifferentemente legati al mondo dell'arte, della letteratura, del cinema e della musica popolare. Oggi, 42 anni compiuti, osservo il mondo da un punto di vista privilegiato, facendo della scrittura il mio mestiere per vivere e per pagare i conti.

C'è un artista, anzi un musicista, che più di altri ho seguito durante gli ultimi 18-20 anni e risponde al nome di Bob Dylan.

Bob Dylan? Ma non era morto? Può essere. Del resto lo dice egli stesso: I'm Not There.

Dylan è un autore agile, ma con gli scarponi pesanti e pensanti dell'agricoltore e come dice uno dei sei personaggi in cerca di autore nel film di Todd Haynes, "io sono un agricoltore, non posso permettermi di essere fatalista", parafrasando. In effetti per chi non conosce bene la sua musica, Dylan è l'ennesimo vaccaro stile John Wayne con lo Stetson, gli stivali e la giacca di cuoio. Immagine ficcante che in effetti lo descrive piuttosto bene. L'errore però con un artista così ondivago è proprio volerlo fotografare e mettere in archivio. Probabilmente per questo motivo non si reca quasi mai a ritirare un premio. Nemmeno quando si tratta del premio che ogni paroliere sogna di ottenere: il Nobel. Non è stato facile utilizzarlo nel mondo del cinema, anche se molti autori hanno tentato questa strada, in modo diretto e non. Uno dei primissimi film ispirati alla figura di Dylan fu questo Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me? diretto da Ulu Grosbard e interpretato da un brillante Dustin Hoffman. Il film narra le vicende della star del rock Georgie Soloway, assillato per le molestie che sta subendo da questo oscuro personaggio di nome Harry Kellerman. Per chi conosce bene le vicende di Dylan è facile associare questo plot narrativo alla figura dell'autoproclamato dylanologo, A.J. Weberman, personaggio discutibile che usava frugare tra i rifiuti di casa di Dylan, durante la fine degli anni sessanta. Oggi lo potremmo definire un mitomane, complottista cospirazionista. Del resto figure come quelle di Dylan, Sinatra o Lennon, hanno sempre attratto lunatici, fissati e mitomani. Anche io nel mio piccolo, potrei essere additato come un mitomane, se non fosse per il rispetto che nutro verso l'arte e gli artisti che ispirano il mio quotidiano.

Andando avanti sul fronte dylaniano e per quanto concerne il connubio cinema e musica, scopriamo come la sua prima vera apparizione sul grande schermo avvenga per la pellicola di Sam Peckinpah, Pat Garrett and Billy the Kid, del 1973. La breve apparizione in questo film per i fan resta iconica, ma è la colonna sonora il piatto forte di questo progetto. Dylan scrive infatti le musiche, ma soprattutto compone e pubblica il brano Knockin' On Heaven's Door, canzone che ha avuto più vite e più versioni, più o meno note, come quella appunto realizzata dai Guns N' Roses, ma anche da Eric Clapton, in versione reggae.  Tuttavia nonostante il cast di tutto rispetto, uno script intrigante e un regista importante, il film non fu affatto un successo. Una costante per quel che riguarda il ruolo di Bob Dylan, come attore cinematografico. Pochi ricorderanno infatti il film interpretato da Rupert Everett e diretto da Richard Marquand (Return of the Jedi), Hearts of Fire. In questa pellicola del 1987 Dylan è addirittura co-protagonista, ma il film si rivela un colossale flop, sia per incassi che a livello critico. È diventato un cult ma sono per dylaniani hardcore, nel corso del tempo.

In effetti le uniche apparizioni sul grande schermo che si ricordano per il loro valore artistico restano i documentari realizzati da Martin Scorsese e da D.A. Pennebacker.

Vanno meglio pellicole come Chi è Harry Kellerman e perché parla male di me? Quelle che giocano più che altro su assonanze e sui proverbiali easter egg, come l'esordio alla regia del bravo e impegnato Tim Robbins. L'attore californiano realizzerà infatti una pellicola piena zeppa di rimandi alla produzione discografica dylaniana con il suo Bob Roberts. Primo film come regista di Robbins, che è anche sceneggiatore e interprete principale di una pellicola satirica girata in stile falso documentario su un candidato senatore populista conservatore. I rimandi a Dylan e a Orson Welles (Quarto Potere, ma anche Vérités et mensonges) si sprecano e mostrano un Tim Robbins abile anche nel ruolo di interprete musicale. L'attore aveva appena finito di girare I protagonisti di Robert Altman, altra pellicola importante per i primi anni novanta e forse oggi un po' ingiustamente dimenticata. Bob Roberts ruota attorno alla figura fittizia di un cantante country che tenta la strada della politica e si candida al Senato. Un piccolo gioiello assolutamente consigliato e da recuperare se non lo avete visto.

Sempre per ribadire che Dylan funziona a fasi alterne sul grande schermo voglio ricordare due pellicole speculari e molto differenti come esito critico e di pubblico. Si tratta di Wonder Boys e di Masked And Anonymous. Il film diretto nel 2000 dal compianto e talentuoso Curtis Hanson (8 Mile, L.A. Confidential) non ha bisogno di presentazioni. Qui troviamo un cast ispirato, guidato dal sempre bravo Michael Douglas, con un giovane Tobey Maguire, e in ruoli non meno importanti affidati, ma comunque incisivi, Robert Downey Jr. e Frances McDormand. Il film oltre a raccontare una storia insolita, brillante e originale, si fregia di una colonna sonora di assoluto livello. Tra vecchi classici e brani scritti appositamente per il film, troviamo infatti nomi come quello di Van Morrison, Leonard Cohen, Tom Rush, Neil Young e naturalmente Bob Dylan. Dylan fa la parte del leone con Shooting Star, tenera ballata dedicata al suicidio di un vecchio compagno di strada, Buckets of Rain, brano tratto dal capolavoro del 1975, Blood on the tracks e infine componendo per l'occasione il brano Things have changed. La canzone gli valse importanti premi e riconoscimenti come il Golden Globe e il premio Oscar per la miglior canzone nel 2001. Indovinato in che modo Dylan ritirò il premio? Apparendo in collegamento satellitare dall'Australia ed eseguendo il brano dal vivo. Mitico Bob!

Un po' meno brillante invece la sua nuova apparizione nella doppia-tripla veste di sceneggiatore, autore della colonna sonora e co-protagonista nel confuso e a tratti incomprensibile Masked And Anonymous, diretto dal futuro regista di Borat, Larry Charles. Circondato da un cast di stelle, come Jessica Lange, Jeff Bridges, Penelope Cruz, Val Kilmer, Mickey Rourke e Bruce Dern, tra gli altri, il film sembra un manifesto cubista-futurista, dove troviamo dialoghi e situazioni puramente dylaniane, ma senza il sostegno di una vera sceneggiatura e di una trama credibile. Non fa meglio nella colonna sonora, dove mette nel calderone brani rifatti da vari artisti giapponesi, turchi, nordamericani e perfino italiani. Così troviamo senza soluzione di continuità Jerry Garcia, Los Lobos, Francesco De Gregori e gli Articolo 31 che massacrano un classico come Like a Rolling Stone. È proprio il caso di dire che l'orgoglio precede la caduta, ma l'umiltà precede la gloria. Peccato che in questa occasione l'umiltà abbia inviato certificato medico, come illustre assente.

Concludo questo inutile pistolotto agreste ricordando che nemmeno il biopic I'm Not There, realizzato nel 2007 dal talentuoso Todd Haynes, ha messo d'accordo critica e fan sfegatati. Stavolta la pellicola da un punto di vista critico può dirsi pienamente riuscita o comunque ben fatta, nel suo intento cubista, a tratti dadaista. Co-sceneggiato e diretto da Todd Haynes e Oren Moverman, il film ripercorre la storia del musicista in sette distinti momenti della sua vita, venendo interpretato da sei attori diversi. Una didascalia all'inizio del film dichiara di essere "ispirato dalla musica e alle molte vite di Bob Dylan", e questa è l'unica menzione a Dylan nell'intero film, assieme alla colonna sonora. L'unica apparizione del cantante arriva proprio nel finale, con delle immagini di repertorio di un vecchio live del 1966, prima del famoso incidente motociclistico che segnerà l'abbandono dalle scene per lungo tempo. Ma questa è decisamente un'altra storia. Storia che probabilmente vedremo presto sul grande schermo, dato che James Mangold e Timothée Chalamet sono impegnati attualmente nelle riprese di A Complete Unknown. Non ci sono invece grosse novità sul fronte Guadagnino-Dylaniano. 

Il talentuoso regista siciliano aveva annunciato la realizzazione di una pellicola ispirata al capolavoro dylaniano del 1975, Blood on the tracks. La notizia però soffia nel vento, visto che risale al 2018. Ci aggrappiamo però alla speranza, che come si sa è l'ultima a morire per chi vive in un podere occupato, ma senza lavorare la terra. Perché come diceva il maestro Woody, Questa terra è la mia terra! 

(Articolo scritto per la blogzine The Clerks nel 2021)

Dario Greco


lunedì 6 gennaio 2025

Bob Dylan & Chronos: lotta contro il tempo

 

Dylan & Chronos: lotta contro il Tempo

“I tibetani credono che vi sia uno stato di transizione tra la morte e la rinascita. La morte sarebbe fondamentalmente un periodo di attesa. Dopo poco tempo l'anima sarà accolta da un nuovo grembo. Nel frattempo essa restituisce a sé stessa una parte della divinità che ha perduto al momento della nascita.” (Rumore bianco, Don DeLillo)        

Introduzione

“Il tempo è un bambino che gioca, che muove le pedine; di un bambino è il regno.” L’immagine usata da Eraclito per parlare del tempo accosta la leggerezza del gioco, la casualità di un lancio di dadi all’inesorabilità del tempo e all’enigma del suo svolgimento. L’uomo ha sempre rivolto un’attenzione particolare al trascorrere del tempo ed è stato attratto dal futuro e dalla possibilità di conoscerlo anticipatamente. Nell’antichità i greci usavano due termini per definire il tempo: Chronos per indicare lo scorrere dei minuti e la sua natura quantitativa e Kairos per indicare la natura qualitativa dello stesso, ovvero l’abilità di fare la cosa giusta al momento opportuno. Nel mondo moderno, il concetto di Chronos ha storicamente avuto una posizione dominante su Kairos. La velocità di esecuzione di un compito è associata ad un aumento di produttività ed efficienza. La rapidità di adattamento alle situazioni è un indicatore della flessibilità organizzativa e strategica. L’essere in grado di anticipare i concorrenti nel lancio di un prodotto è una misura della capacità di innovazione. Queste dimensioni legate al tempo come Chronos restano importanti per il successo di una persona o di una società, ma passano in secondo piano rispetto alla dimensione temporale qualitativa espressa dal concetto di Kairos.

«Abbiamo la tendenza a vivere nel passato, ma questo riguarda la mia generazione”, ha dichiarato qualche tempo fa Bob Dylan al New York Times parlando del suo brano Murder Most Foul. «I giovani non hanno questa tendenza. Semplicemente non hanno un passato, quindi tutto quello che sanno è quello che vedono e sentono, ed è facile fargli credere qualsiasi cosa. Ma tra 20 o 30 anni saranno loro in prima linea.». Sono parole espresse da un uomo che ha vissuto almeno un paio di vite, artisticamente forse qualcuna in più. Poeta, cantore folk, troubadour, innovatore fantasma di elettricità, esponente di spicco del movimento beat e via dicendo. Non è facile trovare una sola e nuova definizione per questo artista così prolifico, cangiante, capace di spiazzare pubblico e critico, anche adesso, quando gli anni sono ormai più di 80. Ottant'anni di cui più di 50 vissuti al centro della scena musicale e non solo. Dylan infatti nel corso del tempo si è dedicato anche ad altre forme e discipline artistiche, in alcuni casi con un certo successo e seguito. Non è andata benissimo con il cinema, non ha sicuramente eguagliato i suoi capolavori musicali con la pittura, ma è assai raro imbattersi in un autore che scrive, canta, suona, realizza sculture, si dedica alla produzione di whisky e non solo. Già il cinema, forse il suo sogno inespresso e irraggiungibile. Quest'anno ricorrono 50 anni dall'anniversario di Pat Garrett & Billy The Kid, il film di Sam Peckinpah per cui Dylan scrisse la colonna sonora e interpretò un piccolo ruolo. Forse il film più importante a cui ha preso parte. Sicuramente un titolo che per molti ha rappresentato qualcosa, in ottica di western crepuscolare e contemporaneo.

Bob Dylan: in perenne lotta contro tempo e decadenza

Una battaglia contro il tempo lineare e il suo scorrere implacabile e ingannevole, contro le mode, la loro futilità, le ideologie vuote, le morali fasulle, gli amori idioti, l’inutile lotta contro il destino e la falsità e la mediocrità al potere, gli inganni e le manipolazioni che offuscano la mente e impediscono di vedere cosa davvero è reale. Il tempo e la fine del mondo compaiono spesso nelle liriche dei suoi brani. “Ma ero molto più vecchio allora, sono più giovane ora” (My back pages), “Fammi sparire tra gli anelli di fumo della mia mente, tra le rovine nebbiose del tempo” (Mr. Tambourine man), “Dentro i musei viene messa sotto processo l’eternità’ (Visions of Johanna), “E se la Bibbia ha ragione il mondo esploderà […] i prossimi sessanta secondi potrebbero durare un’eternità’ (Things have changed), “Questa terra è interdetta, da New Orleans fino a Gerusalemme” per approdare a Time out of mind, un disco del 1997, costellato di canzoni quasi tutte evocanti un’atmosfera sepolcrale, un disco che qualcuno ha tradotto con ‘poesia del tempo immemorabile’. Ma la lotta contro il tempo è anche, da sempre, una lotta contro i tempi, contro il ritmo delle canzoni, caratterizzate nel modo di cantare da rallentamenti, accelerazioni improvvise e scarti imprevedibili a ogni esibizione dal vivo. Le reinterpretazioni stanno lì a significare che il suo mondo artistico, poetico e musicale, non può essere fissato una volta per tutte, perché in quel caso sarebbe come morto. Si può discutere e ipotizzare se questa visione dell’arte e del tempo sia influenzata da Nietzsche, Bergson e Proust o da Keats, uno dei tanti suoi geni ispiratori, insieme a Blake, Ginsberg, Rimbaud e molti altri, o sia semplicemente dovuta a vicende personali.

Per Bob Dylan il concetto di tempo e di spazio è un qualcosa di mobile e questo ha influenzato anche le sue canzoni e il modo di interpretarle. Non è un caso se la parola Time e Times sia finita più volte sulla copertina dei suoi album, ma non solo. In Blood on the Tracks, il tempo diventa un concetto assolutamente relativo, astratto. Le canzoni infatti possono viaggiare e spostarsi, tra presente, passato e forse futuro. Non è un caso se questo disco sia stato giudicato come uno dei più intensi, riusciti e significativi. Appena tre anni dopo Dylan torna sul concetto di tempo e lo fa con il brano No time to Think, presente su Street Legal del 1978, ma non è solo questo ciò che emerge analizzando la sua opera. Molto spesso si è parlato di canzoni che hanno come tema principale il sogno, le cosiddette canzoni oniriche dylaniane. L'esempio più calzante è sicuramente dato dal brano Series of Dreams, registrato nel 1989 per il disco Oh, Mercy, ma scartato all'ultimo e riproposto nella prima raccolta ufficiale di inediti, The Bootleg Series 1-3 del 1991. 

In Rumore bianco Don DeLillo fa dire a uno dei suoi protagonisti: "La questione del morire si fa saggio strumento di memoria. Ci guarisce della nostra innocenza nei confronti del futuro. Le cose semplici sono fatali, o è una superstizione?" Oppure citando Ode all'usignolo di John Keats: "Svanire e dissolvermi, per dimenticare per sempre quello che tu fra le foglie non hai conosciuto mai, l'abbattimento, la febbre e l'inquietudine della terra dove gli uomini odono l'uno dell'altro i gemiti; ove la paralisi fa tremare gli ultimi melanconici capelli grigi, dove la giovinezza diventa pallida e spettrale e muore.”

Considerazione finale

Mi piace pensare a Bob Dylan, l'artista più che l'uomo, come a un personaggio uscito da un fumetto Marvel, in perenne lotta contro il tempo. Tempo che come sostenevano gli antichi greci, può essere al contempo Kairos e Chronos. Speculativamente, in base ai piani dell'arte, dell'ispirazione della Musa. Dylan guarda al passato anche quando deve scegliere la copertina del suo disco Tempest (2012). Una rielaborazione grafica di Alexander Längauer che raffigura un dettaglio della fontana scolpita da Carl Kundmann a Vienna tra il 1893 e il 1902. I quattro gruppi scultorei intorno a Pallade Atena raffigurano i quattro fiumi principali dell'Austria: il Vltava, l'Elba, l'Inn e il Danubio. Atena, dea guerriera e vergine, una delle più rispettate, ha varie funzioni: difende e consiglia gli eroi, istruisce le donne industriose, orienta i giudici dei tribunali, ispira gli artigiani e protegge i fanciulli. Era anche dea della sapienza e delle arti.

Per concludere vorrei citare il film Watchmen, tratto dall’omonima graphic novel di Alan Moore. Per Alan Moore e Dave Gibbons, Bob Dylan era la luce guida nell'oscurità, un artista che ha modellato un modo completamente diverso di fare le cose. Ed è interessante come il regista Zack Snyder abbia utilizzato il brano The Times They Are A-Changin' di Dylan, nella sequenza dei titoli di testa nella trasposizione cinematografica di Watchmen. Possiamo qui notare la consapevolezza del concetto di tempo (in una cornice storico) da parte di un giovane autore, che si stava imponendo al firmamento musicale dell’epoca. In una lotta personale e perentoria contro il tempo e lo spazio. Signori anche questo è Bob Dylan.

Dario Greco


domenica 5 gennaio 2025

Blood on the Tracks: magnifica ossessione


Tangled up in Blue (Storia di un ordinario capolavoro)

Non è facile scegliere una canzone capace di rappresentare al meglio i 29 anni di una persona. Indipendentemente da chi sia il soggetto, o la soggetta. Variabilmente all'approccio e all'attitudine, sono cazzi amari, ma la vita non è sempre dolce, nemmeno se fai il pasticciere Trotzkista con la licenza di uccidere.
Perché si parla di una delle linee d’ombra inevitabili, come una lama rugginosa che scava, come un riff violento degli Stones: la chitarra che commenta abilmente le scene di un gangster movie alla Scorsese. Nello stesso modo, per me è molto difficile scegliere, anche se mi vedo costretto a farlo. Il disco è Blood on the tracks, la canzone sarà Tangled up in blue. Fin qui tutto regolare, non fosse che per una questione di maniacale perfezionismo e dovere filologico, verso chi ancora non ha interrotto la lettura, devo motivare perché proprio un verso, perché questo verso mi trasmette al contempo: inquietudine, rabbia, speranza, prospettive di vita. Ambivalente oltretutto, visto che posso utilizzarlo per andare avanti, per tornare indietro e ovviamente per incespicare. Cosa che riesce meglio a un numero sempre maggiore di persone. E’ ineluttabile, in una misura esponenziale, possiamo dire. Ora, se una persona scrive, e lo fa spinto da una certa motivazione, è normale rimanere impigliato, nel goffo tentativo di dissimulare convinzioni. Un punto di vista, un dettaglio, una sorta di illuminazione, si spera. 
Domandiamoci allora perché le migliori letture e le pagine più belle vengano realizzate e assorbite durante il momento più buio, quando cede la resistenza, quando ti accovacci nel tuo piccolo giaciglio, avviluppato nella tristezza, in quella malinconia che per forza di cose, sarà adamantina color magenta. Si arriva a un punto in cui il colore è musica, le parole sono immagini e tutto si mescola bene, come un long drink, come un amabile fine settimana trascorso in compagnia di un’amica, quel gruppo di persone che puoi chiamare casa. Ho scritto finora questa piccola antologia con una precisa metrica, di notte, quando le forze mi venivano meno. Così sono riuscito meglio ad abbandonarmi alla malinconia, al ricordo di ciò che è stato, nel bene e nel male, giusto e sbagliato, seguendo una certa idea, di racconto, di prosa. 

Scelgo in questa occasione una precisa partitura e inizio dal seguente verso:

Così ora sto tornando di nuovo indietro, devo raggiungerla in qualche modo. Tutte le persone che conoscevamo sono un'illusione per me ora. Alcuni sono matematici altre sono mogli di carpentieri. Non so come sia iniziato tutto non so cosa facciano delle proprie vite, ma io sono sempre sulla strada diretto verso un altro incrocio.

Ora, io non so se avete dimestichezza con il modo di suonare la chitarra di Dylan, con la sua metrica e il fraseggio. Posso solo assicurarvi che in questo brano, qualunque esecuzione voi prendiate, il Nostro non perde un colpo. Mi spiego: non sto parlando da un punto di vista tecnico, lì sappiamo bene che si tratta di un autore a cui è sempre piaciuto prendersi qualche libertà espressiva. Intendo a livello emozionale. E non è affatto una giustificazione, perché bisogna essere davvero ottusi o fatti di ghiaccio per non considerare in un lavoro del genere l’elemento e l’apporto emozionale. Basta ascoltare la versione naked del brano per ricredersi. Parliamo di un autore ispirato ai massimi livelli, oltre le barriere di un chitarrista scambiato frettolosamente per menestrello capace di fare il busker e vagabondare per le vie innevate di New York City. 

Questa volta Bob Dylan decide di fare sul serio e di mettere sul piatto tutto i mezzi di cui dispone. Inclusa la riscrittura, inclusa la possibilità di riconsiderare una registrazione cristallizzata e forse più adatta per descrivere il contesto. Però l’imponderabile e imprevedibile concetto di tempo, spazio e fiuto per l’arte, colpiscono ancora una volta, lasciando il segno. È veramente un altro punto di vista, aggrovigliato nella tristezza. C’è un sentore di sangue in bocca, come se avessi beccato un pugno dritto sui denti, e forse è così, forse invece si tratta di canzoni di redenzione che raccontano di una Terra straniera e desolata più che promessa, di un Tempo vissuto, forse immaginato. Tangled up in blue è quel tipo di brano dove l'autore, da solo, con una band di accompagnamento, in studio, o dal vivo, corre i maggiori rischi. Rischi verso sé stesso, verso gli affetti che aveva tentato per lungo tempo di proteggere. Senza riuscirci. Perché funziona così, tu cerchi di difendere qualcuno, qualcosa, ma in realtà è da te stesso che dovresti proteggerli. Specialmente se la tua componente migliore, quella principale, è autodistruttiva e quindi lesiva. Possono essere le metriche musicali, può essere una tela, può essere sicuramente un foglio bianco come questo o quello che stai visualizzando ora. Per circa 25 anni ho provato rispetto e timore reverenziale verso autori di cui non sapevo poi molto, lo stesso dicasi per scrittori, registi e poeti. Eppure il vero timore è quello che sperimentiamo nei confronti di noi stessi, dei nostri alti ideali, della coerenza. Mi resi conto che c’era qualcosa di distorto in tutto questo, molto presto, e ho tentato per lungo tempo di sfuggire, a me stesso e al mio giudizio rigoroso, avviluppato nella tristezza. Come un cardellino che si dimena e che batte le ali contro vento, in un freddo giorno di pioggia, qui nella campagna irlandese, dove mi trovo proprio ora, in questo momento, mentre sto ascoltando la canzone, senza skippare i brani che non mi piacciono, ma abbondando di repeat-one, quando il pezzo è uno della prima triade, quando ad esempio si sta cantando di un rifugio, un riparo dalla tempesta che infuria, impazza, contro il morire della luce. Davvero bella questa! Non vediamo la luce del sole da circa tre settimane; scarpe usate eppur bisogna andare! Bisogna pedalare, verso quella scoscesa rupe, verso la collina di Hollyhill, col Blues di Marri Again! Del resto la pausa per fare colazione nella spaziosa canteen è solo tra due ore e mezza: se mi dice bene ci saranno quelle salsicce che mi piacciono tanto! E allora, di cosa mi dovrei lamentare, se ieri sono stato in un locale a jammare con ragazzi provenienti da mezza Europa. Proprio io, che non sono mai stato un vero bassista. Forse non importa, forse ci siamo capito lo stesso, e anche loro avevano qualcosa da farsi passare, un dolore, un dispiacere, un momento di nostalgia, avviluppato nella tristezza.

Dario Greco


giovedì 2 gennaio 2025

Le profezie di Ezechiele secondo Dylan

 The Times They Are a-Changin' (1964) 

Provate a immaginare la scena. Un giovane cantautore non ancora 23enne lancia le proprie invettive contro un cielo plumbeo, minaccioso, nefasto. Il terzo disco in studio di Bob Dylan risente fortemente del clima in cui gli Stati Uniti d'Americano erano piombati durante quel fatidico autunno del 1963. Il presidente Kennedy era stato assassinato appena sei settimane prima della pubblicazione di The Times They Are a-Changin' e il musicista che diede alle stampe il suo primo disco completamente autografo sente il peso e la responsabilità di un momento così drammatico, privo di speranza. Una premessa doverosa per un disco che ascoltato oggi manca un po’ del pathos e della leggerezza a cui Dylan ci ha abituati nel corso dei molti episodi maggiori della sua carriera.

Disco importante  per un artista poco più che ventenne, ma già in grado di incarnare, più di tutti, il senso dell'epoca che sta attraversando. Le registrazioni risalgono a un periodo che va dal 6 agosto al 31 ottobre 1963, motivo per cui il disco pur risentendo del clima politico e sociale di quel periodo non dovrebbe avere riferimenti diretti alla storia recente del Paese in cui è ambientato. Sono proprio i temi, i riferimenti biblici e il tono serio a creare un corto circuito di cui il giovane autore faticherà ad affrancarsi completamente per lunghissimo tempo. Ancora oggi in Italia e in Europa ci sono ambiti dove l'equivoco politico e politicizzato permangono e sono probabilmente uno dei motivi per cui i dischi e la musica di Bob Dylan sono ritenuti, a torto, materiale valido per una certa parte di utenza e di ascoltatori. Con questo non intendiamo dire che Dylan è un autore bipartisan o politicamente ambiguo, ma che non ha certo impostato la propria carriera artistica sull'impegno politico e partitico. Ugualmente c'è da dire che questo terzo disco risulta ancora oggi, dopo oltre 50 anni il lavoro più radicale e innodico per una generazione.

Non è servito il tempo e i molti riferimenti nella cultura di massa per rendere questo disco qualcosa di meno vincolato al momento storico in cui è stato realizzato e pubblicato. Eppure vi sono titoli e testi che potrebbero parlare di molte cose diverse. L'ambiguità dei testi di Dylan è leggendaria, ma questa volta, salvo casi isolati, appena poggiamo la puntina sul vinile ci scorre davanti un'istantanea dei primi anni sessanta. Il ché non è necessariamente un male, anche se preferiamo pensare a Dylan come a un autore universale, senza tempo, eterno. Dylan il profeta, l'autore che flagella la propria coscienza e che è più maturo rispetto ai suoi dati anagrafici. Un disco che però si fa fatica ad ascoltare per intero, a differenza del precedente The Freewheelin' o dei lavori che lo seguiranno. Resta questa immagine seria e alcune delle più azzeccate metafore mai enunciate da un cantante fino a quel momento. Ogni brano, sia esso di denuncia o di protesta, ha un senso ed è perfettamente a focus, eppure c'è qualcosa nell'inflessione della voce e nelle note di chitarra che fanno pensare a tematiche troppo serie per essere ascoltate in un normale giorno di pioggia, di sole e di vento di una timida primavera come quella che stiamo attraversando. 

“Sapevo esattamente cosa dire e a chi dirlo. Volevo scrivere un grande brano, una sorta di pezzo simbolo con versi brevi e concisi, accumulati in modo ipnotico l'uno sull'altro.”

Di Dylan potrebbe dirsi che è stato uomo per tutte le stagioni, come accezione assolutamente positiva. Eppure questo giovane ventitreenne che si affaccia alla canzone di protesta appare così sicuro e consapevole di un ruolo non certo semplice. Ha dalle sue la spavalda certezza dei vent'anni ed è un artista con una missione, come raramente sarà nell'arco della sua lunga carriera. Il terzo disco che contiene solo materiale autografo è lavoro serio, perentorio che suona davvero biblico. Le sue più che canzoni, sembrano essere canti di chiesa. Una chiesa laica e politicamente impegnata, ma che risponde a criteri piuttosto precisi, codificati. Un giovane ossessionato dal folk, che non nasconde le proprie influenze e che ammette di aver preso in prestito alcune melodie da vecchi brani irlandesi e scozzesi. Due esempi su tutti sono quelli di Restless Farewell dal tradizionale The Parting Glass. Mentre la melodia di With God on Our Side proviene da The Merry Month of May. La stessa title track ha qualcosa di già sentito, visto che affonda nelle radici della tradizione. Aspetto che anziché penalizzarne il valore, lo accresce, rendendo il brano riconoscibile e semplice da memorizzare. Dal punto di vista squisitamente sonoro e musicale il disco è tanto scarno quanto solenne. Tuttavia non mancano i lampi di luce e di brio in un album che è principalmente cupo, teso, vibrante. Tra le cose più solari, troviamo un brano arrembante come When The Ship Comes In, che secondo la critica musicale deve qualcosa al brano Seeräuberjenny (Jenny dei pirati) composto da Kurt Weill su testo di Bertolt Brecht. Dieci brani dove oltre alle già citate spiccano composizioni come One Too Many Mornings, una delle rare canzoni non dichiaratamente politiche del disco, assieme alla splendida Boots of Spanish Leather, una sorta di remake di Girl from the North Country. L'impegno torna protagonista in brani come The Ballad of Hollis Brown, ballata amarissima che narra le vicende di un contadino del South Dakota che travolto dalla disperazione e dalla povertà uccide prima la moglie e i figli e infine sé stesso. Non è un caso se questo brano ha ispirato molti anni dopo il regista David Lynch che realizzerà una cover di questo brano per il suo disco The Big Dream del 2013. Troviamo poi canzoni che faranno epoca come The Lonesome Death of Hattie Carroll, ancora un brano su un omicidio e una grave ingiustizia da denunciare, Only a Pawn in Their Game, dedicata all'attivista dei diritti civili Medgar Evers, ucciso il 12 giugno del 1963 a Jackson, Mississippi. Da segnalare anche il brano North Country Blues, tipica ballata del Minnesota, dove a raccontare questa storia di lavori in subappalto nell'Iron Range, per la prima volta troviamo una protagonista femminile. Radici folk profonde per un pezzo ancora una volta drammatico e teso.

"Venite scrittori e critici che profetizzate con le vostre penne e tenete gli occhi ben aperti, l'occasione non tornerà. E non parlate troppo presto perché la ruota sta ancora girando e non c'è nessuno che può dire chi sarà scelto. Il perdente adesso sarà il vincente di domani perché i tempi stanno cambiando."

Resta da dire della title track. Probabilmente una delle più famose canzoni di Bob Dylan. In molti ritengono che catturi lo spirito di sconvolgimento sociale e politico che ha caratterizzato gli anni '60. A chiudere il cerchio, confermando le tesi secondo cui Dylan è uno dei maggiori autori della sua generazione, ci penserà il monumentale brano Murder Most Foul, pubblicato come singolo nel 2020 e che farà poi parte del disco Rough and Rowdy Ways. Il brano tratta dell'assassinio del presidente John F. Kennedy nel contesto della più ampia storia politica e culturale americana. Come a dire che dopo quel fatidico 22 novembre 1963 qualcosa cambiò per sempre nelle vite di chi era presente. I tempi sono cambiati, nuovamente. Per completezza si consiglia di ascoltare i primi due volumi di The Bootleg Series 1-3, visto che molti outtakes di valore assoluto provengono proprio dalle sessions di The Times They Are a-Changin'. Chiude il disco un contenuto unicamente testuale. Si tratta del poema che si trova sul retro del vinile: 11 Outlined Epitaphs. Quasi a dire che il ragazzo avesse ancora delle cose da dire… oltre alla mitragliata di parole già contenute nelle sue dieci canzoni da consegnare alla Storia.

Lavoro importante e indispensabile, ma che raramente lascia spazio all'immaginazione e concede tregua rispetto a una rovina imminente. Tra le sue qualità troviamo la capacità di prevedere quel che accadrà 50 anni dopo. Non sempre la musica deve essere qualcosa di piacevole da ascoltare, quando ci sono dentro parole di questo valore assoluto. Uno dei dischi più ostici da ascoltare di Dylan, ma che vale comunque lo sforzo. Soprattutto in momenti drammatici come quelli che stiamo vivendo.

 

Dario Greco Writer