domenica 12 settembre 2021

Oh Mercy (1989)

 

Oh Mercy (1989) 

“Non ho un posto per sparire, non ho cappotto. Sono su un fiume impetuoso in una barca ondeggiante e sto cercando di leggere un appunto che qualcuno ha scritto a proposito della dignità.” (Bob Dylan)

Perché Oh Mercy è uno dei dischi più importanti della seconda parte di carriera di Bob Dylan? 

Principalmente per ragioni anagrafiche e del contesto in cui viene prodotto e inciso. Il suo autore veniva infatti da una sequenza di album che avevano messo d'accordo critica e pubblico, ma in senso negativo. Dopo l'inusuale, ma coraggioso Empire Burlesque (1985) il Nostro dava alle stampe due lavori che sono considerati tra le sue peggiori produzioni di sempre. Stiamo parlando di Knocked out Loaded e Down the Groove, rispettivamente del 1986 e del 1988. Eppure dopo il tour con Tom Petty and The Heartbreakers e dopo le date coi Grateful Dead, accade qualcosa. Dylan arrivato a questo punto ha uno dei tanti ripensamenti e decide di coinvolgere in fase di produzione il mago Daniel Lanois, su segnalazione dell’amico comune Bono Vox. Ora, mentre oggi la distanza tra questi due artisti appare meno evidente e scontata, non era affatto lo stesso prima della realizzazione di Oh Mercy. Per una volta non dobbiamo affidarci a terze persone, visto che lo stesso Dylan dedicherà uno dei capitoli più avvincenti e ispirati della sua autobiografia, Chronicles Vol. 1 proprio alle sessioni del disco in questione. Si parla quindi di New Orleans e della lavorazione di un nuovo album, il quale dovrebbe, si spera, risollevare la carriera ormai finita di un autore che incide musica da più di 25 anni.

Pubblicato il 18 settembre 1989, Oh Mercy è il 26esimo disco in studio, comprendente dieci tracce. Solo due di queste superano la durata di cinque minuti. Fin dai titoli e dai crediti possiamo notare come il disco appaia differente rispetto al canone anni ottanta e più in generale, a confronto con altri lavori del passato. Un nutrito gruppo di musicisti accompagna Dylan tra cui lo stesso Daniel Lanois e Cyril Neville dei Neville Brothers. Senza mezzi termini, il disco viene salutato come un grande ritorno e un trionfo a livello di critica. In effetti il suo valore aumenterà a distanza di tempo e resta uno dei dischi più al passo coi tempi, per un autore che lungamente è stato refrattario a questa idea di suonare un tipo di musica contemporanea. Non è un caso se tra i ripensamenti ci saranno, di lì a breve, due dischi contenenti solo pezzi tradizionali folk, country e blues.

Oh Mercy si apre con l'ispirata e tesa Political World, ma già dalla seconda traccia mostra barbagli di tenerezza e di sentimento agrodolce, grazie a brani come Where Teardrops Fall, ma soprattutto con la ballata per piano, Ring Them Bells, con il cuore oscuro e misterioso di Man in the Long Black Coat. Da citare anche Everything Is Broken, un pezzo che per molti critici riflette sull'entropia del mondo. Ma è nel secondo lato che Dylan e Lanois calano un pokerissimo d’assi che da queste parti non si sentiva da tempo. Most of the Time, What Good Am I, What Was It You Wanted e la tenera conclusione di Shooting Star, intervallate dall’ intensa e calda ballata per piano di Disease of Conceit. Da segnalare come durante queste sessions siano state registrate e successivamente scartate canzoni del livello di Dignity, God Knows e Born in Time. Soprattutto la splendida Series of Dreams: probabilmente tra le migliori canzoni di Dylan da Desire (1976) in poi. Una inaspettata sorpresa per quel 1989 dove il mondo stava andando letteralmente a pezzi, Everything is Broken appunto. Sono tanti gli artisti, colleghi e critici che spenderanno qualche parola per manifestare il proprio apprezzamento nei confronti di questo album. Ne citiamo almeno quattro: Lou Reed, che definì Disease of Conceit la migliore canzone dell'anno, mentre Willie Nelson e Mark Lanegan renderanno giustizia ai brani What Was It You Wanted e Man in the Long Black Coat con due intense e convincenti riproposizioni. L'ultimo, ma non per importanza è la testimonianza di Eric Andersen. Proprio Andersen qualche tempo prima aveva affermato che Dylan fosse un artista giunto ormai al suo capolinea, a livello artistico. Eppure non bisogna mai vendere la pelle dell'orso prima di averlo ucciso, men che meno quando l'orso risponde al nome di Bob Dylan.

Andersen con onestà intellettuale dirà infatti che queste canzoni sono sostenute e incoraggiati da tocchi tenebrosi, oscuri, paludosamente arcaici di Lanois. Oh Mercy urla incertezza, desiderio, dolore, compassione e verità nascoste. Quasi un gioco morale. Questi brani sono brutalmente sinceri, di chi non si sottrae al dolore. Quest'album riflette una mezzanotte personale buia, la proverbiale ora di buio, attraversando i territori sconfinati di un'anima senza protezione. Scrivere questa confessione deve essergli costato non poco. Eppure questa non sarà l'ultima volta; e non è sorprendente tutto questo, alla luce di album del valore di Tempest e Rough And Rowdy Ways

Un consiglio: anche se avete sempre manifestato pregiudizi verso Bob Dylan e la sua musica, almeno per una volta provate a cedere. Troverete un disco di livello eccelso, raro e prezioso. 


“Il più delle volte metto bene a fuoco tutto quello che ho intorno. Il più delle volte riesco a stare con i piedi per terra. Posso seguire il sentiero, posso capire i segnali, tengo la destra quando la strada si fa tortuosa, riesco ad affrontare qualunque cosa mi capiti, non mi accorgo neanche che lei se n'è andata, il più delle volte.” (Bob Dylan)

Dario Twist of Fate

domenica 29 agosto 2021

A proposito di Modern Times

 


Segnali rivelatori dell’anziano menestrello (2006) 

È notte nella grande città. Una donna cammina a piedi nudi, con le scarpe a tacco alto in una borsetta. Un uomo si ubriaca e si rade i baffi. Un gatto rovescia una lampada. Un poliziotto fuori servizio parcheggia di fronte la casa dell’ex moglie.  

(Theme Time Radio Hour)

Modern Times è il 32esimo disco pubblicato da Bob Dylan per la Label Columbia. Come il precedente "Love And Theft" anche questo lavoro viene prodotto da Dylan e suonato con la band che in quel periodo lo accompagnava in studio. Per molti versi questo disco sembra una sorta di sequel del lavoro precedente. La critica ha parlato di una "potenziale trilogia" che andrebbe a concludere il discorso sonoro intrapreso con Time Out of Mind. Aspetto che tuttavia lo stesso autore ha escluso, affermando che se ci sarà una trilogia, questa è iniziata con Love And Theft. Diamo quindi per buone le dichiarazioni di un autore che nel tempo si è ammorbidito, sostituendo al suo stile di intervista criptico, una trasparenza che solo chi è in netta malafede può non riconoscergli. L'autore che si affaccia al pubblico nel 2006 è in effetti un nuovo performer, sotto molti punti di vista. Oltre a prodursi con successo i suoi dischi, Dylan ha infatti realizzato successivamente alla sua ultima prova in studio: un film, Masked And Anonymous (flop al botteghino, cult per i fedelissimi) un libro autobiografico (Chronicles), ma soprattutto il suo programma radiofonico Theme Time Radio Hour, che andrà in onda dal 3 maggio 2006 fino al mese di aprile del 2009.

Oltre alle uscite antologiche della Bootleg Series, giunte al volume numero sette, nel 2005 viene realizzato il film documentario No Direction Home, diretto da Martin Scorsese, che ripercorre la vita di Bob Dylan dai primi passi fino all'incidente in moto del 1966. Così per avere un quadro più esaustivo del momento storico e artistico, il Nostro cantautore americano preferito, è vivo e vegeto, quando darà alle stampe questo Modern Times. Disco stravagante e illuminato, riceve ancora una volta il plauso della critica unanime, salvo poi rivedere questa posizione quando il disco venderà bene (forse troppo!) , per via della mancanza dei soliti crediti, furto con scasso e plagi che Dylan opera con la solita capacità di tombarolo che gli andrebbe una volta per tutte riconosciute! Un Dylan in versione Arsenio Lupin

Stavolta di suo ci mette giusto la voce e la firma, almeno a sentire certi giudizi. Il titolo richiama al noto film di Charlie Chaplin del 1936, mentre molte canzoni sono in debito per quanto riguarda la struttura musicale e il contenuto testuale. Oggi, 2021 sappiamo bene che questo sarà uno degli ultimi lavori autografi (o semi-autografi) in 15 anni di attività musicale. Nonostante le polemiche, a nostro parere risibili, a causa dei testi simili a quelli del poeta Herny Timrod più qualche oscuro blues, Modern Times è un successo clamoroso, sia in termini di pubblico che di critica. 

Diverse riviste lo indicano come disco dell'anno e anche il rating attuale lo colloca tra i grandi capolavori, visto che oscilla tra il 9 e il 10 e tra le quattro e le cinque stelle, su prestigiose testate quali Uncut, Rolling Stone, Mojo e The GuardianPer Joe Levy di Rolling Stone l'album il "terzo capolavoro consecutivo" di Dylan, mentre Uncut lo ha definito un "sequel diretto e audace" di Love and Theft. Secondo Robert Christgau è un lavoro sorprendente capace di sprigionare bellezza con quella calma osservante da vecchi maestri che hanno visto abbastanza la vita per essere pronti a tutto. Si passa dal poeta William Butler Yeats a Matisse fino a giungere dalle parti di Sonny Rollins. Jody Rosen definisce Modern Times un lavoro migliore di Time Out of Mind e del maestoso Love And Theft: una delle migliori opere di Dylan dai tempi di Blood on the Tracks. Sul fatto che si possa definire un capolavoro senile moderno, siamo tutti d'accordo.

La band coinvolta vede uno stravolgimento della line-up rispetto a Love And Theft, dato che l'unico superstite è Tony Garnier al basso. Per il resto troviamo due nuovi chitarristi, con Denny Freeman e la vecchia conoscenza di Stu Kimball, il batterista George G. Receli, che da lì in poi sarà una presenza stabile per un lungo periodo e il polistrumentista Donnie Herron, che suona diversi strumenti a corda, dal vivo così come in studio. Il suono è questa volta meno calibrato e questo non sempre giova a bani che mediamente superano i sei minuti, ma l'atmosfera e l'intensità di certe performance, di alcuni versi e del disco, è più che riuscita, tanto che Modern Times se possibile sarà un successo maggiore rispetto ai due dischi che lo hanno preceduto. Vi sono senza dubbio almeno tre nuove canzoni che possono assurgere al ruolo di nuovi classici dylaniani. Il numero di rimandi, citazioni, strizzatine d'occhio è ancora una volta elevato. Questo lo si nota fin da subito dato che ad esempio il titolo del brano Workingman's Blues #2 è una citazione al brano di Merle Haggard del 1969, Workin' Man Blues. Come con il precedente disco si respira ancora una volta musica di genere blues, rockabilly e ballate pre-rock, in una parola: Americana.

Le canzoni che restano saranno principalmente le seguenti: Nettie Moore, Thunder on the Mountain, Workingman's Blues #2 e soprattutto Ain't Talkin'.

In merito a quest’ultimo brano è utile ricordare il punto di vista di Greil Marcus: “Dopo aver pronunciato le prime parole del testo, Dylan scompare. Sembra che a cantare il brano sia un’altra persona anziché il cantante che pensiamo di conoscere. Questo brano non ha una conclusione, e con le prime parole, Mentre uscivo, viene gettata un’ombra.” Il pathos e la capacità di farci vivere quell’istante in modo così vivido e reale è una qualità a cui raramente un disco e una canzone pop potranno ambire. Eppure Bob Dylan ci riesce e non ci conduce per mano in un posto sicuro. Tutto il contrario. C’è sgomento, thrilling, panico assoluto. Dylan esce allo scoperto in quanto è mosso da un autentico desiderio di puro istinto: la vendetta. L’autore dopo essere uscito e aver effettuato un percorso si ritrova in un mistico giardino. Sta parlando forse del suo Getsemani. Il brano resta irrisolto musicalmente e il testo si conclude con questi versi: Non parlo, soltanto cammino, su per la strada, dietro la curva. Brucia il cuore, ancora si strugge, nell'ultima retrovia alla fine del mondo. 

Morale della favola

Nel 2006 Bob Dylan partecipò a un concorso per sosia di Charlie Chaplin a Montecarlo e arrivò terzo, ex aequo con Arsenio Lupin.

Questo post è dedicato alla memoria dello scrittore Larry McMurtry.

 

Dario Greco Web Writer

venerdì 20 agosto 2021

Slow Train Coming irrompe sulla scena Gospel (1979)

Il mio nemico indossa un’aureola di decenza

Bob Dylan è sempre stato un genio nel sottoporci il suo apparato immaginifico e nel farci provare certi sentimenti mostrandoci delle immagini ben precise. Così abbiamo questa idea del lento treno che sta arrivando, come metafora ideale volta a introdurre un nuovo tema, che sarebbe diventato il leitmotiv della fase Gospel durata due anni e mezzo lungo i quali Dylan darà alle stampe tre nuovi album con composizioni inedite. Visto oggi, attraverso un punto di vista retrospettivo, tutto ci appare differente, più semplice da recepire e da commentare. A quel tempo invece era più una cosa tipo: “Bene, ci siamo giocati Dylan. Lui farà questi album cristiani per sempre.” Abbiamo visto invece da vicino gli effetti sui fan dei cinque dischi dedicati al Great American Songbook (periodo Sinatra) e di come anche questa fase sia stata accolta con fastidio da parte di alcuni fandom del cosiddetto zoccolo duro. Il punto della questione è che il nostro autore, raramente è venuto incontro ai bisogni e ai desideri del pubblico. Tuttavia, se oggi il 79enne musicista del Minnesota ha tracciato un solco indelebile nella canzone nordamericana del secondo Novecento, le cose stavano diversamente in quell’estate del 1979. Bisogna capire il contesto in cui un disco come Slow Train Coming vide la luce. Registrato ai Muscle Shoals Sound Studio di Sheffield, Alabama e prodotto da Jerry Wexler e Barry Beckett questo disco si segnala come uno dei migliori lavori, a livello tecnico ma pubblicati da Dylan. Il merito è in larga parte della produzione e dei musicisti che prendono parte alle sessions di Slow Train Coming. Lo stesso Beckett suona tastiere e percussioni, mentre le coriste sono Regina Havis, Helena Spring e Carolyn Dennis. Al basso troviamo il sempre valido Tim Drummond, la batteria è suonata di Pick Withers dei Dire Straits. Anche Mark Knopfler, con la sua chitarra contribuisce a delineare il sound di questo disco, con un Dylan che sa bene cosa vuole: un suono potente e robusto che vira decisamente sul funky. Non è un caso se Jann Wenner definì il lavoro come uno dei dischi migliori che il suo autore abbia mai realizzato. "Col tempo è possibile che arrivi a essere considerato il suo lavoro migliore". Queste dichiarazioni probabilmente nel 1979 potevano risultare pretenziose e un po' esagerate. Tuttavia se andiamo a ripercorrere la discografia di Dylan anni sessanta e settanta, in termini retrospettivi, non è facile trovare un disco registrato e suonato meglio rispetto a questo. L’apporto di ogni singolo musicista lo fa suonare davvero potente, più incisivo rispetto alla media. Pur muovendosi nei confini del genere gospel, il disco fa il suo dovere per i suoi 46 minuti e 19 secondi. Le critiche sono più che positive, nella maggior parte dei casi, in virtù di brani destinati a durare nel tempo. Titoli come Gotta Serve Somebody, I Believe in You o Slow Train, così come la seconda facciata dell’LP: tesa, vibrante e coerente.

“Cambierò il mio modo di pensare, mi darò un diverso codice di comportamento. Cambierò il mio modo di pensare, mi darò un diverso codice di comportamento. Devo partire col piede giusto e smettere di essere influenzato dagli imbecilli.”

Quando nel 1979 Dylan diede alle stampe il suo 19esimo album in studio, probabilmente non credeva potesse creare così tanto scompiglio tra il pubblico e a livello di critica. La svolta Gospel del Nostro era avvenuta già con l'album precedente, Street Legal (1978), un lavoro accolto in modo piuttosto ostile, soprattutto in America a livello critico, con il puntuale Greil Marcus a cui si aggiunge Dave Marsh, il quale affermava di non aver capito lo scopo di questo lavoro. Una critica che soprattutto in Europa suona indecifrabile visto il valore dei brani e del risultato d'insieme per un disco che il pubblico ha apprezzato fin da subito. Nel Regno Unito arrivò celermente al secondo posto per la classifica di vendite. In sede retrospettiva c’è da capire perché Dylan sia stato così spesso frainteso. Probabilmente ha avuto un ruolo il suo eclettismo, musicale e testuale, aspetto che molte volte ha spiazzato critica e pubblico. Nel 1979 l'autore aveva alle spalle già 17 anni di carriera, dove pesavano in maniera determinante le produzioni realizzate negli anni sessanta a cui bisognava aggiungere due successi come Blood on the Tracks e Desire. Lavori che erano stati accolti molto bene dalla critica che li aveva salutati come un tanto atteso ritorno sulle scene, senza perdere credibilità e con pezzi pregiati che andavano ad arricchire in maniera sostanziale il suo repertorio. Brani come Senior o altre cose contenute in Street Legal facevano presagire gospel, inni e canti di chiesa, bianchi e neri sono centrali già nel disco che aveva preceduto Slow Train Coming. Changing of the Guards ha qualcosa di spirituale, oltre ai toni apocalittici, sembra quasi una marcia di tipo laico ma che richiama appunto al gospel e agli inni sacri, seppur in modo personale, come era solito fare l'autore durante i suoi lavori passati.

Sant’Antonio predicava ai pesci per confondere le acque, mentre Dylan registrava il suo primo album Gospel per ritrovare sé stesso, dopo un decennio piuttosto complicato, ma non privo di guizzo, estro e inventiva. Ascoltare Slow Train Coming dopo Trouble No More - The Bootleg Series 13 aiuta molto in termini di rivalutazione critica retrospettiva. La qualità delle canzoni, sotto il profilo sonoro è sempre stato uno dei punti di forza di questo lavoro. La produzione e il sound ancora oggi sono dominanti e danno la dimensione della potenza di fuoco che Dylan e il suo ensemble erano capaci di produrre. Ma è arrivato il tempo di rendere giustizia anche per quel che riguarda l’ideologia e il lavoro di tipo testuale. Fatta salva qualche eccezione, dove il nostro artista pare in debito di ispirazione, i testi sono di buonissima levatura. Difficile trovare difetti in brani come Do Right To Me Baby, Precious Angel, Gotta Serve Somebody e soprattutto Slow Train e Gonna Change My Way Of Thinking. Purtroppo la critica militante anni settanta di rende per l’ennesima volta colpevole del peccato originale: dire a Dylan cosa deve fare, cosa deve suonare e che cosa dovrebbe scrivere. Puttanate del tipico puritanesimo di matrice anglosassone. Ancora una volta Greil Marcus non perde occasione per mostrare la propria miopia quando si tratta di scagliare la prima pietra che rotola nei confronti del suo amato-odiato Dylan. Il problema è che sono critiche che accusano l’autore di non essere ironico, di prendere troppo sul serio il tema evangelico, di furore messianico. Nella critica scagliano saette e giudizi, senza ascoltare il proprio cuore e senza avere un punto equidistante che si richiede a chi si occupa di critica musicale. Come al solito, il tempo darà ragione all’artista, ma non è certo una novità. Diciamo pure che già a partire dal lavoro che lo aveva preceduto, la critica Usa perderà di vista Dylan, per poi ritrovarlo solo nel 1983, quando darà alle stampe Infidels. Ed è un peccato perché questa fase gospel merita una adeguata rivalutazione in sede critica. Ci siamo anche un po’ stancati di leggere nel 2021 certe critiche prive di senso estetico e figlie di preconcetti su cosa sia gospel e cosa possa essere accettato da un artista che in quasi sessant’anni di carriera discografica ha toccato con mano sensibile ogni genere, arrangiamento e stile appartenente alla tradizione della canzone nordamericana. Risulta poi incomprensibile non accorgersi dei legami tra questo lavoro e alcuni illustri predecessori come John Wesley Harding e The Times They Are a-Changin’. Probabilmente i crediti illimitati in sede critica si erano esauriti, visto che oggi possiamo con facilità e coerenza collocare Slow Train Coming tra i tasselli a tema religioso e spirituale di un autore che non ha mai nascosto il proprio punto di vista sul mondo, a volte inattuale e scomodo, a volte solo in anticipo sui tempi. Questo album dice è in arrivo un cambiamento per l’umanità. Un messaggio coerente per un autore che aveva scritto i tempi stanno cambiando.

Slow Train Coming è senza dubbio uno dei dischi che ha risentito di un giudizio poco obiettivo e centrato della produzione dylaniana. A nostro parare è musicalmente tra i migliori 10 album mai realizzati dal Nostro. Vecchio Testamento permettendo!

Questo lento treno è destinato alla Gloria!

 

Dario Twist of Fate  

giovedì 22 luglio 2021

Considerazioni su Shadow Kingdom Pt. 2


 ...il problema è che bisognerebbe tornare a insegnare educazione musicale, in modo adeguato. Ma forse non basterebbe lo stesso. Vedo dai commenti sui social un deficit di comprensione del testo, pur trattandosi di materiale audiovisivo. 

Che cos'è la comprensione di un testo? "Capire un testo non significa trovare il significato di una frase e legarlo a quello della frase successiva; infatti, un lettore può capire un brano a livello superficiale ma non afferrare il senso di ciò che legge. La comprensione del testo scritto è, quindi, un processo attivo e costruttivo finalizzato a cogliere il significato del testo, dove per significato si intende una rappresentazione mentale coerente del contenuto del brano. La costruzione della rappresentazione mentale deriva dall’integrazione delle informazioni linguistiche e concettuali nuove contenute nel testo con le conoscenze pre-esistenti del lettore. Il meccanismo che si innesca per costruire tale rappresentazione prevede l’attivazione delle informazioni rilevanti e la soppressione di quelle irrilevanti."

Lo speciale televisivo realizzato da Bob Dylan, Shadow Kingdom, andato in onda in esclusiva attraverso Veeps, è stato accolto piuttosto bene da un pubblico affezionato. Tuttavia è stato evidente come molti utenti non ne abbiano colto il senso. Non era uno spettacolo dal vivo, né tantomeno un concerto. Si è trattato di una rappresentazione a metà tra il teatro, la videoarte e il cinema. I brani infatti erano stati pre-registrati e mandati in sincrono con una performance di tipo mimico piuttosto dissonante. 

L'effetto sulle prime battute è stato quello di confondere, stordire, creare emozioni, come solo un grande performer sarebbe capace e consapevole. A parte le preferenze sul personaggio Dylan, si è trattato di un evento unico, nuovo e con una qualità a mio parere importante e univoca: essere assolutamente fuori dal tempo e da ogni spazio. Non è un caso se molti stanno accostando il lavoro all'opera di David Lynch o agli speciali realizzati per la tv da Elvis Presley e Roy Orbison. Proprio lo speciale in bianco e nero realizzato nel 1988 sembra essere elemento di paragone con questo Shadow Kingdom. 

Colpisce e non poco l'abilità di Dylan di rielaborare, arrangiare e riscrivere il materiale giovanile degli anni sessanta e  primi settanta.

Con la sola eccezione di un brano composto e pubblicato nel 1989, peraltro in maniera impeccabile, questo prodotto va inserito nella categoria del reworking. Un aspetto che in quasi 59 anni di attività musicale, Dylan non aveva mai esplorato, salvo rarissime eccezioni (Nashville Skyline, A Hard Rain's a-Gonna Fall versione 2008). 

Accompagnato da una nuova line-up, Dylan esegue canzoni celebri, ma non i suoi cavalli di battaglia più conosciuti e lo fa cambiando registro rispetto alle esibizioni live a cui ci aveva abituato durante gli ultimi 25 anni. Il risultato è incredibile. Potrebbe aprire a una nuova fase della sua produzione discografica e artistica. Si spera, almeno. 


"May your hands always be busy, May your feet always be swift, May you have a strong foundation When the winds of changes shift. May your heart always be joyful. May your song always be sung."

martedì 20 luglio 2021

Springtime In New York: The Bootleg Series Vol. 16

 Bob Dylan - Springtime In New York The Bootleg Series Vol. 16


Come giustamente dicevo giorni fa su Maggie's Farm...
Sulla questione che il prossimo Bootleg Series sarà dedicato ai primi anni ottanta ci sono pochi dubbi.
Non tanto per i rumors, ma per l'anticipazione rilasciata da Uncut, rivista autorevole e molto vicina oltre che a Dylan, anche a Columbia/Sony. Quello che suona strano è che sarà un quintuplo e non mi convince del tutto la data di uscita, visto che gli ultimi Bootleg Series erano stati pubblicati durante il periodo di novembre, come logica strenna natalizia (da regalo per super fans dylaniani)

Argomento: Notizia "fake" sull'uscita del volume antologico "The Bootleg Series 16"

Sulla nuova uscita Bootleg Series il mio pensiero è il seguente: un conto sono i "rumors", un altro le notizie "fake". Ora, i "rumors" indicano una pubblicazione sul materiale anni ottanta. Sarebbero
infatti trapelate informazioni più dettagliate sulla prossima imminente uscita. Sul fatto che Dylan in autunno abbia spesso pubblicato negli anni passati un nuovo capitolo delle Bootleg Series non ci sono troppi dubbi, escludendo l'anno scorso, dove comunque venne pubblicato in versione digitale un "Best of Bootleg Series". Durante gli ultimi anni Uncut ha pubblicato alcuni brani inediti come anteprima alle uscite dei Bootleg Series. Anche la scorsa primavera è accaduta questa cosa: https://www.uncut.co.uk/features/blogs/introducing-uncuts-amazing-bob-dylan-covers-cd-130057/

Ecco perché con gli elementi finora emersi, parlare di "fake" mi sembra una esagerazione/illazione. Diciamo invece che gli utenti, inclusi alcuni forum e siti si sono portati avanti rispetto alla stampa mainstream che in pratica da anni si limita a fare da cassa di risonanza all'ufficio stampa di Columbia/Sony. Caro Tambourine, stiamo attraversando un'epoca strana a livello mediatico e di informazioni, se ci fai caso nessuno anticipa più niente da un po', specialmente a livello di musica, arte e spettacolo, non ci sono più le anteprime di un tempo. Direi che qui siamo di fronte alla dicotomia: siamo uomini o addetti ufficio stampa? Arrivati a questo punto bisogna compiere una scelta, a mio parere. Un po' stile Totò (Siamo uomini o caporali). Ricordo come durante la pubblicazione del secondo singolo che anticipava Rough and Rowdy Ways, lo scorso anno, si sia creato questo simpatico siparietto tra la stampa che commentava "queste strane pubblicazioni di brani sparsi e singoli" VS la comunità
di utenti che già stava ipotizzando le tematiche del nuovo album di Dylan. In quel caso gli utenti ebbero ragione. A tal proposito, ho ritrovato questo mio breve post a commento del brano I contain multitudes, datato 18 aprile 2020:


Dario Twist of Rumors


domenica 9 maggio 2021

Blonde on Blonde

Quel sottile, selvaggio suono mercuriale

Blonde on Blonde, è il settimo disco realizzato in studio da Bob Dylan la cui durata corrisponde a 72 minuti e 57 secondi. Buona parte dell’accompagnamento (e del vestito sonoro) di Blonde on Blonde venne garantito da musicisti di Nashville specializzati in sessioni di registrazione come Charlie McCoy e la futura star Joe South. Va detto che molti di loro non erano abituati a lavorare con musicisti di ambito rock, ma presero confidenza con questi pezzi complessi in modo piuttosto rapido, garantendo la giusta atmosfera, anche quando un brano come “Sad Eyed Lady” continuava ad andare, senza indicazioni sul momento in cui sarebbe finita. I musicisti di Nashville hanno dato ai testi di Dylan, tipicamente ambigui, il supporto più rilassato e solidamente musicale che abbiano mai avuto. Un mix notevole di liriche, che si muove tra la descrizione realistica e quella iper-realistica.

Bob Dylan dichiarò: “Il momento in cui sono arrivato più vicino al sound che sento nella mia mente è stato proprio durante le sessions di Blonde on Blonde. Si tratta di quel suono sottile, da spirito selvaggio. È metallico, oro brillante, qualsiasi cosa evochi.” Riuscite a trovare una definizione migliore di questa per descrivere questo capolavoro?

Che vada in malora il concetto di concept album: questo doppio album è una delle migliori raccolte di canzoni killer mai ascoltate per chi ha orecchie da intendere. Non ve lo dico io, è un dato oggettivo e insindacabile. Semmai il problema è diametralmente opposto: proprio come concept omogeneo il disco "fallisce". Si fa per dire, naturalmente. Il tema è l'amore anzi il canto anfetaminico di un giovane uomo alla ricerca di un posto nel mondo. Un tema che ancora oggi a distanza di quasi sessant’anni suona dannatamente attuale. C'è il disagio, il malessere del viaggio, spirituale e non. C'è il blues e c'è la ricerca interiore, c'è la beat generation e il suprematismo. C'è la grandezza e la spavalderia dell'essere giovani. Sentimento che Dylan ha continuato a coltivare e che ancora oggi si ostina a preservare. Un mio amico di pennino mi dice spesso che per restare un grande artista bisogna osare e se necessario andare a pisciare nei bassifondi dell'anima che ci inghiotte e che ghermisce questa sempiterna notte. Per comprendere dove termina il caos e inizia lo stato dell'arte bisogna però ascoltare gli outtakes contenuti in The Bootleg Series 12 The Cutting Edge. Serve audacia e virtù, serve quella passione che nel cuore della notte ti fa scrivere, comporre e suonare brani come Visions of Johanna, canzoni come Just Like a Woman. Delle prime sessions di New York verrà mantenuta nell’editing finale la registrazione del solo brano One of Us Must Know, dove va evidenziato l’ottimo lavoro della sezione ritmica a opera di Rick Danko e Bobby Gregg, del pianoforte di Paul Griffin e dell’organo Hammond di Al Kooper.

Dylan canta della dolce Marie, ma anche di Johanna e Louise e dedica il gran finale alla sua amata Sara Lownds, che diventa qui Sad Eyed of Lowlands. Sul fatto che il disco trabocchi di romanticismo e surrealismo, ci sono pochi dubbi. Canzoni d’amore che in modo differente sono la cifra stilistica di pezzi come Just like a Woman, I Want You, One of Us Must Know, 4th Time Around e Leopard-Skin Pill-Box Hat.

Hitchcock su Visions of Johanna

Per il poeta Andrew Motion Visions of Johanna è il miglior testo di canzone mai scritto, prova evidente del brillante uso del linguaggio da parte del suo autore; il pensiero del cantautore Robyn Hitchcock combacia alla perfezione con le dichiarazioni del Motion: “Visions of Johanna per me è la matrice. È da lì che provengo come autore di canzoni. Questo brano definisce le potenzialità di una canzone, il motivo per cui vale la pena cercare di scriverne. Bob Dylan con questo disco mi fece capire che questo era il lavoro che intendevo fare nella vita. Quando sarò grande voglio che il mio impiego sia scrivere pezzi come Visions of Johanna. Canzoni che nello spazio della stessa frase ti facciano ridere e piangere, in pratica”.

Basterebbe scrivere un brano come Visions of Johanna, ispirato allo stile di T.S. Eliot e forse in debito verso il Jack Kerouac, per dare peso e senso a una carriera da cantautore. Il tutto avviene dopo aver già dato alle stampe brani come Mr. Tambourine Man e Desolation Row, dopo aver creato quell’instabile suono al mercurio su figure retoriche audaci ed efficaci, metafore surrealiste e immagini folli e distorte, che solo in apparenza sono figlie dello sballo e del delirio. Cosa c'è di meglio che lasciarsi andare alla fantasia, all'immaginazione e al sentimento, quando hai poco più di 20-30 o anche 50 anni. Bob Dylan è un tipetto impertinente che ti dice cosa pensare, ma che non ha bisogno del tuo giudizio e del tuo supporto, è spavaldo e coraggioso e sa che non ci sono prigionieri da fare quando si è in missione per conto dell'arte, perché questo lavoro è arte impressa su bobina, non ci sono canzoni, non ci sono versi, arrangiamenti e accordi o tonalità. Basterebbe perdersi nei blues ancestrali raffinati e melliflui dell'organo di Al Kooper, delle soffiate urgenti di Dylan in una dolce e accogliente armonica e poi la crema dei musicisti di Nashville, che non sono ancora stati contaminati con il rock urbano e che per questo motivo contribuiscono a dare vita al capolavoro che sarà Blonde on Blonde.

Un vero capolavoro non ti conquista al primo ascolto e nemmeno al decimo. Un vero capolavoro si impone al 37esimo ascolto. Così è stato per me: in una notte di tempesta, dove tuoni e fulmini dominavano la notte irlandese e il cd volteggiava nel mio impianto di pochi euro, dopo una capatina a quel Virgin Store di Cork. Dio benedica quella commessa lenta che non aveva fretta di chiudere. E Dio benedica Dylan e la sua gioiosa macchina da guerra che non fa prigionieri né ti chiede un riscatto. La redenzione è nelle orecchie di chi vuole intendere e ha intenzione di portarsi avanti con l'ascolto. Dylan non ti invita a uscire con lui e non è nemmeno un buon amico, ma del resto i grandi artisti, i veri Maestri hanno bisogno di questo? Loro ti possono conquistare con uno sguardo, con un riff di Hammond o con una parola sussurrata in un brano, che sembra non avere mai fine.

Se vi sembrano lunghe le strofe di Visions of Johanna, allora non siete ancora giunti alla fine del secondo disco. Queste sono le quattro facciate con cui il rock accede ai piani alti dell'Accademia delle Belle Arti. Non fila tutto liscio, c’è qualche passo falso e un paio di momenti di esitazione. È un'opera capace di guidarvi nel viaggio al termine della notte. “È un biglietto di sola andata per la terra promessa” per dirla alla Bruce Springsteen. Ci sono brani dove il piano di Hargus "Pig" Robbins guida le danze come se fossimo a un galà in cui la bella dama attende che qualcuno la inviti al valzer finale; in altre circostanze l'organo di Al Kooper suona letteralmente la carica mentre la sezione ritmica è elastica, pronta, ma allo stesso tempo rilassata. Il suo autore dovrà sfogarsi per bene, prima di cedere il passo alla resa e alla rassegnazione di quella imperiosa ballata agrodolce che è Sad Eyed Lady of The Lowlands.

In un album, anzi due, dove il tempo è tutto o quasi, ci si abbandona ora a una suite che dura oltre dieci minuti. Il testo ci porta in luoghi che non sapevamo ancora di conoscere. Sarà il brano definitivo presente sul disco con cui Dylan verrà ricordato? Difficile dirlo visto che il Nostro continua a produrre musica e testi di livello formidabile. Da dove vengono queste canzoni? Dove ci conducono? Sono davvero la nuova Guida Michelin per la Gloria? Sono realmente il meglio che un musicista, poeta e menestrello possano concepire? Dylan non si definisce cantautore, ma non è nemmeno un musicista o un bluesman in senso classico. Eppure la musica suona secondo quella scuola e filosofia di pensiero. C'è chi parla di terzo capitolo di una ipotetica trilogia elettrica, ma a noi piace pensare che questo sia solo l'inizio di un viaggio che non è ancora terminato. Il momento iniziatico del Neverending Tour. Musica senza barriere e senza confini. Cavalcate elettriche, surrealismo e rock and roll. Musica maiuscola, comunque vogliate etichettarla. Ve ne servirà di nastro adesivo qui per mettere tutto assieme. Per incollare e appiccicare tutti i versi, le metafore, le immagini che questo disco può e deve rilasciare, nella migliore delle ipotesi. Non è Hendrix, non sono i Beatles (anche se alcune cose li ricordano), è libertà espressiva, di quelle che non senti più così spesso: perché nessuno dedicherebbe lo stesso sforzo, tutta la propria ispirazione per un semplice disco, anzi due.

La linea comica di Blonde on Blonde 

Una delle note dolenti della poetica e della forza dei testi di Dylan è rappresentata proprio dal suo sottile, fine, senso dell’umorismo e dal bisogno di non prendersi sul serio. Soprattutto negli album anni sessanta questo è uno dei tratti distintivi. Nonostante ciò quasi nessuno sembra accorgersene. Eppure in un lavoro come Blonde on Blonde, se si vuole davvero fare un’analisi testuale credibile diventa un tratto saliente, quasi fondamentale.  

Just like a woman, Rainy Day Women, Visions of Johanna, Stuck inside of Mobile e su tutte Leopard-Skin Pill-Box Hat, sono brani caratterizzati da un umorismo evidente. Questo non vuol dire che Dylan non fosse in grado di essere serio, ma parliamo di un giovane autore 25enne che sta ancora cercando il suo posto nel mondo musicale e nel tessuto sociale in cui vive. A volte un giovane vuole solo scherzare, spassarsela e giocare con gli amici. Leopard-Skin Pill-Box Hat è senza alcun dubbio un attacco verso un certo modello di donne, di classe sociale e di atteggiamento. Parliamo infatti di un autore molto vicino alla beat generation, con un modo di fare bohemièn, che attacca senza mezze misure uno dei simboli di una certa classe sociale, gente seriosa e pretenziosa. Per farci capire, il cappello a cui fa riferimento veniva indossato da personalità del calibro di Jackie Kennedy. Di contro però Dylan riesce a fare ironia e umorismo anche sulla sua stessa categoria, con atteggiamenti sfacciati, ma che non suonano mai del tutto gratuiti, amari o disperati. Un autore al comando, capace questa volta di puntare il dito contro tutto e tutti, anche contro sé stesso, se il caso dovesse richiederlo. È come una ruota sul punto di staccarsi dal carro, una matrice che in tanti hanno cercato di ricreare, il brano festaiolo che metti la domenica mattina per dare un tocco di umorismo a un giorno senza senso o senza sole. Con un numero di hit piuttosto cospicuo, ci sono brani che tendono a essere dimenticati. Tra questi però non può certo ritrovarsi, per il valore strettamente musicale, un pezzo come Stuck Inside of Mobile.

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giovedì 6 maggio 2021

Fallen Angels (2016)

Fallen Angels (2016)


Fallen Angels, secondo capitolo dell'omaggio di Bob Dylan al Great American Songbook è una sorprendente raccolta di classici della canzone americana popolare che ricalca a grandi linee il manifesto programmatico a cui avevamo assistito due anni prima, con il predecessore Shadows in the Night. Trentasettesimo lavoro in studio, registrato con la stessa band che lo accompagna dal vivo, più l'aggiunta del chitarrista Dean Parks, per irrobustire la line-up, propone una selezione di dodici brani, undici dei quali erano stati in precedenza registrati e pubblicati da Frank Sinatra. L'eccezione è rappresentata da uno dei brani più coinvolgenti di questo disco: la traccia numero cinque, Skylark. Questo brano è una composizione a firma di Johnny Mercer e Hoagy Carmichael, del 1941.

Carmichael deve la propria fama a brani come "Stardust", "Georgia on My Mind", "The Nearness of You", "Heart and Soul" e “Baltimore Oriole”, brani scritti principalmente durante gli anni quaranta. Dello stesso co-autore di Skylark è anche il brano That Old Black Magic, firmato da Harold Arlen e Johnny Mercer. Per sfatare il luogo comune secondo cui Fallen Angels non rappresenterebbe una importante produzione all'interno della discografia di Bob Dylan, vorrei citare la recensione di Mat Snow, il quale sulle colonne di Mojo sostiene come Dylan in queste registrazioni ci consegni una specie di memoriale sentimentale, le quali apparentemente non hanno niente in comune con le sue canzoni elettrizzanti e moderne ma ben radicate in alcune composizione come Moonlight, Spirit on the Water, Soon After Midnight o Life is Hard.

Sembra scontato, eppure questo disco si fa notare per la bellezza e la limpidezza degli arrangiamenti, per la qualità della produzione e per la voce sempre più presente e dinamica, visto il materiale che va a trattare.

Andy Gill su The Independent ha scritto, "il tocco sobrio e la pastosa chitarra pedal-steel di Donnie Herron impongono uno stato d'animo country morbido ma colloquiale dietro l'elegante e stanco canto di Dylan".  Allo stesso modo, Jim Farber di Entertainment Weekly ha scritto: "Dylan si posa su queste parole con ironica delicatezza. La sua voce può essere roca e danneggiata da decenni di esibizioni, ma c'è bellezza nel suo carattere. Offrendo una interpretazione compassata di queste canzoni d’amore perduto e di passione ardente la malinconia dell'esperienza ". Helen Brown nella sua recensione (dopo avergli assegnato cinque stelle) per The Daily Telegraph ha elogiato le capacità vocali di Dylan nell'album, affermando: "Anche se alcune persone hanno sempre sostenuto che Dylan 'non sa cantare', la verità è che, come Sinatra, ha sempre avuto un talento straordinario per trasmettere un testo. Qui lo vediamo muoversi con disinvoltura sui versi di Johnny Mercer".

Per farla breve Fallen Angels è come una lezione di storia rilassata con tanti colpi di scena enigmatici che sovverte gli archetipi del romanticismo, dell’eroismo e delle connessioni interpersonali per rivelare qualcosa di più sinistro sulle intenzioni umane, il tutto racchiuso in una bellissima musicalità di primissimo ordine.

Non è così scontato per Bob Dylan realizzare suonare e cantare un lavoro così coeso, sobrio, concentrato e dinamico. Una sfida vinta a mani basse, con un repertorio solo apparentemente e superficialmente distante dalle sue corde. Sicuramente più significativo di tanti album pubblicati dai suoi colleghi maggiormente dotati come Willie Nelson, Rod Stewart, lo stesso Van Morrison o Linda Ronstadt.

Da veri appassionati del genere non possiamo non citare almeno i titoli di brani come "Polka Dots and Moonbeams", "All the Way", "All or Nothing at All", "That Old Black Magic" e la conclusiva ed eterna "Come Rain or Come Shine". Prodotto da Bob Dylan con lo pseudonimo di Jack Frost, questo disco è stato realizzato tra il 2015 e il 2016 nei Capitol Studios di Los Angeles ed è stato pubblicato per Columbia Records il 20 maggio 2016. 

Il pregiudizio verso questa operazione Sinatra lo delegittima rendendolo un disco difficile da scovare per chi non rientri nella categoria dell'appassionato del genere e del completista. Da rivalutare e riascoltare. Non a caso la rivista musicale Mojo lo inserisce tra i migliori 50 dischi del 2016, dove occupa la posizione numero 20. Giudizio che ci sentiamo di condividere e sposare in toto.

Dario Twist of Fate

mercoledì 28 aprile 2021

D'amori smemorati, di killer e di pistole

Together Through Life (2009)


“Queste canzoni sono più fotografie istantanee che composizioni, ma potrebbe anche essere che alla fine, tutte assieme, facciano un’unica grande fotografia. E potrebbe anche non essere un lavoro artistico, ma qualcosa più funzionale, come la foto del passaporto di qualcuno che è sempre in viaggio per il prossimo concerto.”

Together Through Life è il 33° album in studio del cantautore Bob Dylan, pubblicato il 28 aprile 2009 dalla Columbia Records. La pubblicazione dell'album, che ha raggiunto il numero 1 in più paesi, è stata inaspettata e ha sorpreso i fan. Dylan ha scritto la maggior parte delle canzoni con Robert Hunter e ha registrato con musicisti come Mike Campbell degli Heartbreakers e David Hidalgo dei Los Lobos. La genesi dell'album è stata una richiesta del regista Olivier Dahan di contribuire con una canzone al film a My Own Love Song. Su Robert Hunter disse: "Hunter è un vecchio amico, potremmo probabilmente scrivere un centinaio di canzoni insieme se pensassimo che fosse importante o ci fossero le giuste ragioni ... Lui sa usare le parole e anche io. Scriviamo entrambi un tipo di canzone diverso da quello che oggi viene considerato come scrivere canzoni." L'unico altro autore con cui Dylan abbia mai collaborato a tal punto è Jacques Levy, con il quale ha scritto la maggior parte delle canzoni di Desire (1976). Le voci sull'album, riportate dalla rivista Rolling Stone, sono state una sorpresa, senza alcun comunicato stampa ufficiale fino al 16 marzo 2009, meno di due mesi prima della data di uscita dell'album. In una conversazione con il giornalista musicale Bill Flanagan, pubblicata sul sito ufficiale di Bob Dylan, Flanagan ha suggerito una somiglianza del nuovo disco con il suono di Chess Records e Sun Records, che Dylan ha riconosciuto come un effetto del "modo in cui venivano suonati gli strumenti". Ha detto che la genesi del disco è stata quando il regista francese Olivier Dahan gli ha chiesto di fornire una canzone per il suo road movie, My Own Love Song, che è diventato "Life is Hard".

Per Danny Eccleston Together Through Life è un album tutto giocato sui ganci, fin dalla prima traccia iniziale. Il merito del suo autore è quello di rifiutarsi di mollare la presa lasciando andare le canzoni. È buio intenso ma confortante, con un suono grande e duro, che rimbomba leggermente come una band durante un soundcheck in un teatro vuoto, ma in fondo c'è un ritornello inquietante. Perché soprattutto questo è un disco sull'amore, sull' assenza e sul ricordo. Come un killer smemorato e romantico, perso in un blues fatto con una chitarra e una fisarmonica, a metà strada tra Durango e il Texas. A dare valore e intensità a questo lavoro ci pensa il sempre puntale chitarrista Mike Campbell, prestato dall'amico Tom Petty and the Heartbreakers, così come la tromba di Donnie Herron e soprattutto la fisarmonica di David Hidalgo dei Los Lobos. Secondo Dylan Campbell suona con Tom da così tanto tempo che sente tutto dal punto di vista di un cantautore e può suonare quasi tutti gli stili".

Da un punto di vista della Cabala questa è la prima volta da Time out of mind che Dylan non chiude il disco con una lunga ballata di durata superiore ai sei minuti. L’ultima volta infatti era stato proprio con Under The Red Sky (1990) e Dylan si era affidato a un brano breve (solo tre minuti e ventuno secondi) per concludere un suo lavoro. Più in generale si noti come l’album viaggi volutamente sottotono e sotto giri, visto che ci sono solo quattro brani che superano i cinque minuti di durata e solo uno che sfiora i sei minuti, This Dream of You (titolo quasi identico al brano di Van Morrison del 1970). Questo disco va considerato per quello che è. Un capitolo minore della sua discografia. Sotto questo punto di vista si tratta di un lavoro più che decoroso e piuttosto godibile e riuscito. Il fatto che da Bob Dylan si pretenda sempre la pubblicazione di canzoni e album memorabili, nonostante ci sia una parte di critica e pubblico pronta sempre a stroncare ogni sua nuova uscita, è motivo di discussione e di chiarimento che prima o poi bisognerà affrontare in separata sede. 

Bob Dylan è tornato ancora una volta, al suo meglio, come non faceva ormai da dieci anni forse. Questo nuovo lavoro è infatti la migliore produzione dylaniana dai tempi di Time Out Of Mind e Oh, MercyForgetful Heart è quello che si dice un brano epico, uno dei migliori ruggiti del decennio da parte del cantautore statunitense. Si tratta di un pezzo in grado di convince sin dalla prima nota e dal primo verso. Chi meglio di Dylan potrebbe cantare di questo "cuore smemorato"? Nessuno saprebbe essere così convincente oggi, tranne forse il miglior Tom Waits. Questa volta Dylan ha scoperto il gusto dell’auto citazione, e Forgetful Heart richiama con vigore alle passate incisioni di Time Out Of MindOh Mercy e Modern Times, ma lo fa con un dono di sintesi espressiva e lirica che forse era mancata in Modern Times, se prendiamo a modello il brano Ain ’t Talkin’ che può benissimo essere sovrapposto a Forgetful Heart. Il banjo appalachiano di Donnie Herron, la fisarmonica zydeco di David Hidalgo e la chitarra a saturazione valvolare di Mike Campbell creano un connubio di nervi, sangue e sabbia, in bilico fra aria e fuoco. Prodotto da un settantenne, ma realizzato con la mano grintosa e professionale, manco ne potesse dipendere il proprio sostentamento. In questo disco possiamo sentire gli echi di Desire, Pat Garrett and Billy The Kid, e Time out of Mind. La fisarmonica di Hidalgo e la chitarra di Campbell colorano panorami di sole e terra, come non si sentivano e vedevano da tempo e c’è quel tipo di energia che non ti aspetteresti su It's All Good e Beyond Here Lies Nothin’, così come c'è vigore sonoro anche in I Feel a Change Comin’On, ancora una citazione proveniente dai Basement Tapes e Planet Waves. Tra fisarmoniche sporche di sangue e di sudore. Di  recente è venuto a mancare uno dei più insoliti e schivi organisti e fisarmonicisti, Danny Federici della E Street Band, ed è molto bello che proprio  Dylan abbia riscoperto con grande passione l’amore verso uno strumento così legato alla tradizione di in un certo folk come quello dei Calexico, che tanto bene avevano suonato le sue canzoni riproposte sulla colonna sonora di I’m Not There, la quale a ben pensarci era una sorta di imbeccata verso il Maestro. In particolare David Hidalgo coi Los Lobos aveva riproposto in versione zydeco Billy #1. Si tratta di musica di confine, tra il Messico e la redenzione, sospesa tra cactus e nuvole. E già si è parlato di una vicinanza fra questo Dylan e Willy DeVille. Ritorna a livello testuale un'immagine che ossessiona e che Dylan ripropone spesso, quella di una porta: aperta, chiusa o solo immaginata. Uno dei momenti più convincenti del disco è It’s all good, dove energia, ironia e rinuncia confluiscono nel grande fiume dell’ispirazione dylaniana, mentre intorno a lui i palazzi crollano e il pianto delle vedove si mescola al sangue degli orfani. Le svisate di basso in stile Rick Danko dei The Band ci accompagnano in uno dei brani più significativi dell’opera, I Feel a change comin’on, un brano che speriamo di ascoltare presto anche in versione live. Cambiano le cose, cambiano i suoni e tutto sembra diverso. Però poi una voce, familiare, comprensibile arriva nelle nostre case, macchine, iPod e tutto il resto. È il nuovo disco di Bob Dylan, e soprattutto è la voce autentica dell'America che fu. La voce di una rara e devastata umanità che sembra vacillare, ma non cede di un millimetro, perché quella voce non può cantare la resa, e neppure il crepuscolo degli Eroi. È la voce della Gente, è la voce di una generazione che ancora non cede il passo alla sconfitta. Come ha detto RJ Eskow “Oggi Dylan non fa musica, lui è la musica!” Come dice Roy Menarini a proposito di Gran Torino, c’è un filo sottile che unisce la letteratura di Cormac McCarthy, il cinema di Clint Eastwood e i dischi di Dylan, sono questi autori gli ultimi bardi della “mitografia” di una Nazione. I dischi della Sun Records e della Chess, Elvis e Muddy Waters, Memphis e Chicago, Otis Rush e All your love, Willie Dixon e I Just Want To Make Love To You, Sam Cooke e A change is gonna come; insomma sembra davvero che ci sia il sangue del Paese nella sua voce! Dylan canta con la consapevolezza del sopravvissuto, al proprio mito, all’America dei Faulkner e dei Twain, di Melville e di Masters, è lui probabilmente l’ultimo discendente di una stirpe ormai estinta di cantastorie. David Hidalgo suona frasi di fisarmonica a mezza strada fra i trilli d’organo di Al Kooper e la senile e sontuosa mano di Auggie Meyers, ma non è solo la fisarmonica l’arma vincente di questo disco, le chitarre trattenute e distorte ad opera di Mike Campbell, sono cuciture di cuoio essenziali nel loro ricamo avvolgente.  La seconda metà del disco si avvicina lentamente a pagine passate più elettriche e aggressive: c’è una maggiore presenza della chitarra elettrica e alla fisarmonica si sostituisce lentamente un violino country (in “This dream of you”) che non può che richiamare alla mente l’intensissimo e danzante “Desire” del ’76 (e in particolare Romance in Durango) ma anche le ballate meticce del compianto Willy De Ville. 

 Dario Greco (scritto nel 2009)


mercoledì 31 marzo 2021

Triplicate (2017)

 

Triplicate (2017) 

Triplicate è il 38esimo lavoro in studio di Bob Dylan e come per i due precedenti non contiene brani autografi, visto che è dedicato ai classici della canzone americana il cui minimo comun denominatore è rappresentato dal fatto che fanno parte del repertorio di Frank Sinatra. Tre dischi ciascuno dei quali segue un suo filo tematico. Il primo disco si intitola 'Til the Sun Goes Down e comprende composizioni che vanno da September Of My Years fino a Once Upon a Time, passando per My One and Only Love, Stormy Weather e I Could Have Told You. Il secondo si chiama Devil Dolls e comprende As Time Goes By, P.S. I Love You, Imagination, The Best Is Yet to Come e Here's That Rainy Day. Chiude la sequenza il terzo volume: Comin' Home Late dove troviamo brani come Sentimental Journey, Stardust e These Foolish Things, tra le composizioni. 

La band che lo accompagna, in grande spolvero, è la solita degli ultimi lavori in studio e live. Tony Garnier al basso, Charlie Sexton alla chitarra, Donnie Herron alla steel guitar, George Receli alla batteria e Dean Parks sempre alla chitarra. Come per i precedenti lavori la produzione è di Dylan stesso sotto lo pseudonimo di Jack Frost. I tre singoli il cui compito è quello di promuovere il triplo disco sono "I Could Have Told You", "My One and Only Love", and "Stardust". A rendere questo disco davvero speciale, più che il materiale inciso ci pensa però il momento storico in cui verrà pubblicato. E infatti il 31 marzo 2017, formalmente seppur si tratti di un disco di standard e cover già molto popolari, la prima uscita discografica post-Nobel per la Letteratura, premio che l’artista statunitense aveva ricevuto il 13 ottobre 2016 “per aver creato nuove espressioni poetiche nella grande tradizione musicale americana.” Potrebbe sembrare solo una casualità, così come lo è la durata dei singoli dischi, 32 minuti cadauno, numero fortunato che simboleggia la luce, tanto per citare la Cabala. Difficile dare un giudizio di merito su questo terzo omaggio alla canzone americana d'altri tempi. Si tratta di una scelta che spiazza non poco, ma che se ascoltata nel giusto contesto ci trasporta in un altro tempo, in un'altra dimensione.

Il manifesto programmatico resta lo stesso dei precedenti Shadows in the Night del 2014 e Fallen Angels del 2016. Dischi suonati molto bene con una band dal vivo in studio, dove Dylan sfoggia una voce davvero calda, avvolgente, ispirata come non mai. Allora dov’è il problema, ammesso che ve ne sia uno? Come sempre la percezione del pubblico. Forse un po' stanco di sentire il loro autore e cantante preferito alle prese con una verde milonga alla ricerca del traditional pop standards di sinatriana memoria. Triplicate forse è un po' eccessivo, se ascoltato nella sua interezza, ma ci piace pensare a come sarebbe stato uno spezzatino dei tre volumi, ridotto a 16-18 tracce totali. Forse il capitolo più ispirato e sentito di questo omaggio all'epoca d'oro della canzone pop anni quaranta e cinquanta. Dylan è senza alcun dubbio alla ricerca del suo tempo perduto, di quella mitica radio ascoltata nelle case d'infanzia nel suo amato Minnesota.

Un lavoro perfettamente in linea con la sua attività parallela di dj radiofonico, visto che in precedenza aveva allietato il pubblico dell'etere con il suo pregevole Theme Time Radio Hour. Non capita tutti i giorni di sentire cantare un premio Nobel per la letteratura, ma è comprensibile che il suo pubblico, lo zoccolo duro scalpiti per ascoltare brani autografi e originali, scritti e arrangiati di proprio pugno. Oggi naturalmente sappiamo che da quel 31 marzo 2017 dovranno trascorrere ancora tre lunghi anni e due mesi. Anche se con Dylan non è mai banale parlare di tempo e di spazio. Abbiamo imparato a conoscerlo bene, il suo essere sempre e per sempre Time out of mind. 

Dario Twist of Fate

venerdì 26 febbraio 2021

Bob Dylan 1970 with George Harrison

Non è ancora detta l'ultima parola su uno dei periodi più controversi della parabola artistica di Bob Dylan. La pubblicazione per il grande pubblico di questa nuova uscita antologica getta luce su un periodo che divide da più di cinquant'anni i suoi estimatori, i detrattori e in certi casi anche i fan più sfegatati. Eppure se ci si abbandona davvero all'ascolto, in senso pieno e profondo, questo "1970" convince tutti a mani basse. Di certo avrà influito essermi trovato ben predisposto e in fase dylaniana e dylanista. Confesso che da un po' di giorni non ascolto altro, a eccezione di artisti comunque limitrofi e paralleli come The Band, Tom Petty, Van Morrison e George Harrison

Proprio l'ex Beatle gentile arricchisce queste registrazioni con alcune performance, forse non proprio memorabili, ma che sono il primo atto formale di quella che poi sarebbe diventato una lunga e proficua amicizia. Bob Dylan e George Harrison incroceranno infatti i flussi (passatemi la citazione di Ghostbusters) e le note delle loro chitarre più avanti, lungo la strada. Le uscite retrospettive di Bob Dylan sono una cosa per veri appassionati e collezionisti completisti. Se come me aspirate a conoscere tutto quello che Dylan ha realizzato in studio di registrazione, questa "50th Anniversary Collection 1970" farà di sicuro al caso vostro, mentre in caso contrario vi consiglio di passare direttamente alla prossima, più importante uscita. Presto o tardi ci sarà altra carne al fuoco, in questo grande falò che accompagna la nostra esistenza del ricco, monumentale canzoniere dylaniano. Ed è interessante come questo sia il materiale che andrà a comporre quello che il critico Greil Marcus commentava con la famosa espressione "What is this shit?" frase ripresa in apertura da Michael Simmons nel suo testo che accompagna le immagini del booklet dai titolo: This is what this shit is.

Ed è anche vero che questi tre dischi erano già più o meno noti, in formato di bootleg, oggi però possiamo ascoltarli e ammirarli in una veste sonora decisamente migliore. Il ché visto che parliamo di un artista eccellente come Bob Dylan fa eccome la differenza!

Evito di fare citazioni ai brani, perché salvo in qualche caso, si tratta di pezzi già noti, incluse le versioni alternative delle canzoni che compongono Self Portrait e New Morning. Eppure basta dare un'occhiata al ricco booklet per renderci conto del valore di queste sessioni e dei musicisti che vi hanno preso parte. Non solo Dylan e George Harrison, dato che gli altri musicisti sono personalità come Al Kooper, David Bromberg, Harvey Brooks, Charlie Daniels e Ron Cornelius. Mi fermo qui perché non stiamo parlando di recensire e giudicare brani o materiale nuovo, ma solo di fare una retrospettiva alternativa di cose che avevamo già ascoltato e apprezzato. Ciò nonostante per chi conosce nel dettaglio la discografia di Bob Dylan, ci saranno belle sorprese! 

Naturalmente serve, tanto per cambiare, trasporto, interesse e passione. Merce rara di questi tempi, in effetti. Time Passes Slowly, direbbe il Buon vecchio Bob!

“Go on, get out! Last words are for fools who haven't said enough!"

(Karl Marx)

mercoledì 3 febbraio 2021

Shadows in the Night

 “Realizzare questo disco è stato un autentico privilegio. Tutti conoscevamo molto bene questi brani. È stato fatto tutto dal vivo, forse in una o due registrazioni. Senza alcuna sovra incisione. Niente cuffie, niente cabina di registrazione per il cantante. Di cover ne sono state fatte abbastanza: seppellite. Quello che io e la mia band stiamo tentando è il procedimento inverso. Disseppellire i pezzi dalla tomba, per riportarli alla luce del giorno. Perché questa band non lavora con il favore delle tenebre, o meglio non sempre!” 

(Bob Dylan on “Shadows in the Night”)

Ora, ammetto di non aver seguito con grande interesse "il periodo Sinatra" di Bob Dylan, tanto che ho acquistato e ascoltato in tempo reale solo l'ultimo dei tre (o cinque) lavori: Triplicate, ma più che altro in seguito all'hype post Nobel. Nel 2014 e successivamente nei primi mesi del 2015, cioè sei anni fa, avevo da poco archiviato una delle mie parentesi musicali più intense, ma rovinose e fallimentari. Mi stavo reiventando, grazie anche al coinvolgimento di un amico, che mi aveva inserito in un discorso di selezione musicale, in giro per Cosenza e Rende. Confesso che questo Shadows in the Night non mi aveva proprio coinvolto e preso subito. Ci sono voluti anni e molti ascolti. Successe di peggio con il secondo, Fallen Angels che per quasi 4 anni non ho nemmeno ascoltato, e oggi mi rendo conto del grave sbaglio, visto che dei tre lavori dedicati al songbook americano noto come "Sinatra Era" resta attualmente il mio preferito.

Eppure, tutto inizia, si fa per dire, il 3 febbraio 2015, quando Dylan ha dato alle stampe questo 36esimo lavoro in studio: Shadows in the Night, composto da dieci tracce e nessun brano autografo, ovviamente, sequel del fortunato Tempest, che fino allo scorso 2020 resterà l'ultimo disco di Bob Dylan con brani autografi. Passata la tempesta Dylan tornerà a dimostrare il proprio valore come autore di brani propri. Qui si cimentava per la prima volta con il repertorio Sinatra, portando all'estremo le proprie idee che già dal 2001, con Love and Theft, aveva iniziato ad esplorare, con brani composti in stile swing, jazzati e altro. Piaccia o meno, la visione musicale e poetica di Dylan si allontana sempre più dallo stile che lo aveva reso celebre e popolare, quello del folk-rock anni 60-70. Per cultori e per veri audiofili appassionati.  

Dario Twist of Greco

mercoledì 27 gennaio 2021

Gli anni ottanta secondo Bob Dylan

 


Il decennio buio della produzione discografica dylaniana (1980-1990)


Tra il 1980 e il 1990 Bob Dylan pubblica 8 nuovi album contenenti nuovo materiale autografo, qualche cover e alcuni brani scritti in collaborazione con altri artisti e autori. Di questi otto dischi possiamo affermare, in maniera obiettiva e speriamo oggettiva che almeno tre sono ottimi album, due dei quali rasentano addirittura lo status di capolavori, almeno secondo il canone del suo autore. Ora, fatta esclusione per Infidels, Oh Mercy e Shot of Love, resterebbe da dire dei rimanenti cinque dischi. Tra questi, forse il solo Empire Burlesque è da considerare un lavoro abbastanza riuscito, seppur non completamente, visto anche l'impegno e la qualità del materiale ivi contenuto. 

I restanti quattro album sono uno dei punti più bassi della produzione dylaniana. 

L'intento di questo breve post è fare nuova luce, a distanza di trenta/quarant'anni sui seguenti dischi: Saved, Knocked Out Loaded, Down in the Groove e Under The Red Sky. 

Questi lavori secondo gli esperti, appassionati, critici e utenti di vario tipo, rappresentano una sorta di "peccato originale" all'interno di una produzione discografica, quasi sempre di alto livello, come quella di Bob Dylan. Vorrei iniziare io, affermando che Under the red sky, pur essendo lontano anni luce da Oh Mercy e da Infidels e senza contare nessun brano del livello di Every Grain of Sand (che si trovava su Shot of love) mi è sempre piaciuto, in particolar modo per come è stato suonato, registrato, composto e infine prodotto e rilasciato. 

Meriterebbe di essere rivalutato, magari accorpandolo ad altri lavori comunque imperfetti, ma di livello più elevato, rispetto a questi citati. 

Voi che cosa ne pensate? Fatemelo sapere qui sotto con un commento. Vi ringrazio per la collaborazione. 

Dario Twist of fate