venerdì 27 dicembre 2024

Another Side of Bob Dylan


Another Side of Bob Dylan (1964)

In posa militare, puntavo la mano verso quei cani bastardi che insegnavano, senza preoccuparmi del fatto che sarei diventato il mio nemico nel momento stesso in cui avrei cominciato a pontificare. La mia esistenza guidata da battelli in confusione ammutinati da poppa a prua. Ah, ma ero molto più vecchio allora, sono molto più giovane adesso.

 (Bob Dylan) 

Non ci voleva poi così tanto a capire che l'artista che pubblicò il suo terzo album autografo (quarto in totale) era già una persona differente rispetto a quella che aveva composto un anno primo il suo disco più impegnato e politico. Forse il titolo non è il modo migliore per marcare la distanza e il cambio di passo, ma Another Side of Bob Dylan è senza dubbio la più convincente fotografia di un autore all'epoca 23enne che stava tentando di affrancarsi dall'immagine che gli volevano costruire attorno. Oggi basta fare qualche ricerca in rete per trovare una miriade di articoli, alcuni molto esaustivi, che tracciano la distanza tra il disco precedente e tutto ciò che sarebbe arrivato, da adesso in poi. Con le dovute differenze Another Side of Bob Dylan è molto più connesso e collegato alla trilogia elettrica e non ai due album autografi che lo avevano preceduto. In particolare troviamo testi e canzoni che hanno davvero molto poco a che vedere con il folk revival di cui Dylan aveva condivido idee, grammatica fondamentale e un certo radicalismo anni trenta. La netta distanza tra il brano che chiudeva The Times They Are A-Changin' e questo nuovo lavoro, appare evidente già dalle prime note e dal tono che accompagnano l'opening di All I Really Want to Do. Bisogna essere ciechi e soprattutto sordi, per non capire che è in atto un cambiamento epocale per l'autore di Blowin' in the Wind. Sia chiaro: Dylan non rinnega e non tradisce niente e nessuno. È solo andato oltre; ha gettato il cuore oltre l'ostacolo e ha vinto la sua battaglia personale. Qui infatti il giovane cantautore diventa un vero artista, affrancandosi dai movimenti e dal genere folk. Lo aveva detto a caratteri cubitali ed è bene riaffermarlo qui, in chiave retrospettiva.

"Qui dentro non ci sono brani che puntano il dito. Quei dischi li ho pubblicati e li difendo, ma in parte erano fatti per essere ascoltati, perché segnavano a dito tutto ciò che non va. Non voglio più scrivere per la gente, né fare discorsi. D'ora in poi voglio solo scrivere dal profondo di me stesso."

Un manifesto programmatico difficile da fraintendere. È vero che Bob Dylan tornerà su queste parole e saltuariamente sarà ancora quella "voce di protesta" che scrive "per la gente", ma è innegabile come con la trilogia composta da Bringing it all back home, Highway 61 Revisited e soprattutto con il capitolo finale, Blonde on Blonde, darà un taglio netto alle sue pagine passate. My Back Pages, appunto. Queste undici tracce possono disorientare, stordire e far gridare al traditore, ma sono il punto di vista di un giovane autore nel fiore degli anni. Non più quello stile narrativo con cui si era imposto, ma pura poesia astratta, dove trovano posto stati mentali impressionistici come il seguente:

“Attraverso il folle e mistico martellare dell'incessante grandine picchiettante. Il cielo faceva esplodere i suoi poemi in nuda meraviglia che il tintinnare delle campane della chiesa soffiava lontano nella brezza, lasciando solo campane di fulmini e il loro tuono che colpiva per i cuori nobili, colpiva per il mite, colpiva per i guardiani e i protettori della mente e dietro al pittore indomito prima che venisse la sua ora e osservammo i lampeggianti rintocchi di libertà.”

Riascoltare oggi e perdonare qualche sbavatura e alcuni passaggi che girano forse a vuoto, significa dare una dimensione del lavoro di un musicista che in appena cinque anni contribuiva a rendere più netto il cambiamento con tutto quello che l'America, la popular song e la musica poteva rappresentare. Diverse forze stavano ridisegnando lo stile di Dylan. 

Un autore sensibile che dirà al suo biografo Anthony Scaduto: “Sapevo che i Beatles puntavano nella direzione in cui la musica sarebbe andata. Non volevo snobbare gli altri, ma per me loro erano la cosa.” Non è semplice scrivere e commentare un lavoro che ha fatto la storia della canzone d'autore e che forse per Dylan è stato il passo più audace della sua carriera. Qui infatti non avviene ancora la svolta elettrica, ma il modo di suonare e di interpretare i propri brani è nettamente diverso, più pop, più orientato verso un modo nuovo di fare dischi. Le canzoni a modo loro, siano esse i grandi capolavori o episodi minori e forse trascurabili, svolgono il loro ruolo. Incredibile, ma vero Another Side of Bob Dylan venne registrato in un’unica sessione. C’è un aspetto che bisogna sottolineare, la voglia di divertirsi e di divertire di queste canzoni. Eppure dietro certi bozzetti frivoli, l’autore infila scene e immagini da Apocalisse, ed è questa la sua abilità, la grande cifra stilistica di un giovane e audace troubadour. Come sottolineano Ric Ocasek e Ike Reilly Dylan esegue tutte le canzoni accompagnandosi solo con la chitarra acustica. E in questa occasione si tratta di arrangiamenti in grado di supportare seriamente melodia, testi ed esibizione. Si è detto poche volte che è un chitarrista acustico formidabile, ma in questa occasione è importante ribadire il concetto. 

Perché c'è un vero calderone di idee, immagini e suggestioni in titoli come Spanish Harlem Incident, Ballad in Plain D o Motorpsycho Nitemare, sono episodi unici nel canzoniere dylaniano, figlie di quei turbolenti e suggestivi anni sessanta. Proprio in Motorpsycho Nitemare Dylan trae ispirazione dall'universo cinematografico di due registi come Federico Fellini e soprattutto Alfred Hitchcock ribaltando i principi cardine di Psycho.

La canzone è infatti una parodia ispirata alle barzellette di commessi viaggiatori, dove il protagonista si presenta in una fattoria in cerca di un posto dove passare la notte, solo per essere attirato dalle tentazioni della figlia del contadino. Dylan sposa le trame di base del film e scherza per creare un racconto umoristico con un accenno politico. Oggi forse alcune cose potrebbero apparire un po' naif e acerbe, ma furono da apripista per quello che sarebbe arrivato dal disco successivo a seguire. Fatto non trascurabile il brano Mr. Tambourine Man, non presente nella versione finale del lavoro, venne composta ed eseguita in una prima versione proprio per Another Side of Bob Dylan.

La critica lungimirante

David Horowitz definì le canzoni un fallimento assoluto di gusto e di consapevolezza autocritica. Dylan ammise nel 1978 che il titolo dell'album non era di suo gradimento. "Ho pensato che fosse troppo banale", ha detto, "mi ha creato un po' di problemi un titolo come questo".

Domanda da sempliciotto di periferia: "Era così difficile capire l'ironia di Dylan nel '64?"

Dici di cercare qualcuno che non sia mai debole ma sempre forte, per proteggerti e difenderti quando hai ragione o quando hai torto. Qualcuno che ti apra una a una tutte le porte, ma non sono io, babe.

Dario Greco Writer

mercoledì 18 dicembre 2024

Il potere della parola: Bob Dylan a ruota libera

The Freewheelin’ Bob Dylan (1963)

 

La cosa più scioccante di questo disco è che si possono prendere anche i brani minori e scriverne per ore e ore. Non c'è bisogno di azzannare e di aggredire alla giugulare un'opera così bella, iconica e capace di resistere e sopravvivere al lento scorrere del tempo. Già, il tempo! “My only friend, the end” dirà qualche anno dopo uno sciamanico Jim Morrison. Bisogna riavvolgere il nastro e ripartire da questa copertina iconica, una delle più importanti e suggestive di una decade tanto importante come i sessanta. Uno scatto che è tutto un dettaglio, un simbolo. Scende in strada Bob Dylan, con il tutto il suo entusiasmo e non è da solo. Nel disco, tra i solchi di questo esordio, come autore, è quasi sempre solo lui, con la sua incredibile penna, con le sue parole, taglienti come forbici, in una notte buia come la pece. Ci sono dischi che hanno un biglietto da visita migliore rispetto a The Freewheelin' Bob Dylan?

A ben vedere questo è uno dei sei dischi chitarra e voce, tanti ne realizzerà nel corso della sua lunga carriera discografica. I primi quattro vengono realizzati durante gli anni sessanta, mentre per i due successivi bisognerà attendere ben trent'anni. Mi riferisco a Good As I Been To You del 1992 e a World Gone Wrong del 1993.

Il disco parte agile e fiero sulle note di chitarra di Blowin' in the Wind. Due minuti e quarantotto secondo per consegnare la sua voce alla gloria e alla storia di una decade, di un ideale, fallace, ma non per questo meno significativo ed evocativo. Del resto nelle prime tre tracce non c'è segnale alcuno di reso, di sconfitta. La seconda canzone è probabilmente tra le migliori composizioni di sempre del suo autore.  Si tratta di Girl from the North Country. Non siete convinti? Basta ascoltare una delle innumerevoli cover realizzate di questo classico immortale. Mentre lo fate ragionate su questo: l'autore e l'interprete principale lo scrisse quando aveva appena 21 anni. Così, tanto per dire. Dopo la rilettura del classico folk Nottamun Town, a cui Dylan cambia il testo per farlo diventare Masters of War, si passa a due brani meno noti, ma non per questo privi di valore e di significato come Down the Highway e Bob Dylan's Blues.

Nel primo Dylan cita proprio l'Italia, nel verso "My baby took my heart from me/ She packed it all up in a suitcase/ Lord, she took it away to Italy, Italy" che naturalmente è dedicato e ispirato alla sua relazione con Suze Rotolo, la stessa ragazza che lo abbraccia nello scatto di copertina realizzato da Don Hunstein.

Bob Dylan's Blues è un concentrato di acume, umorismo e sfrontatezza, qualità che Dylan sfoggia con quel tipico orgoglio che è usuale durante la giovinezza. Gioventù che però scompare rapidamente per fare spazio al sermone di uno dei suoi primi capolavori a livello testuale: A Hard Rain's a-Gonna Fall. Un capolavoro senza macchia che ancora oggi ci fa pensare: - Ma da dove diavolo l'ha tirata fuori?!? Non a caso al pari di altri classici, Hard Rain diventa un punto saldo del suo repertorio dal vivo, capace di attraversare il tempo come un fendente in una notte senza stelle.

Il lato B dell'album si apre con un altro capolavoro, sia per il testo che per la musica e la melodia. Don't Think Twice, It's All Right. il titolo cita forse Elvis Presley e sarà da ispirazione al Re, che lo inciderà qualche tempo dopo. Da segnalare la bella versione country di Waylon Jennings, interprete che assieme a Johnny Cash contribuirà a sdoganare negli ambienti dei puristi del genere il talento puro del menestrello di Duluth. La melodia incantevole di Dont' Think Twice apre alla seconda facciata di questo disco che consegna il suo autore alla storia della musica popolare del Novecento. Non serve infatti affermare che anche fosse terminata qui la carriera di Dylan, se ne parlerebbe ancora oggi e in senso principalmente positivo e nostalgico.

Il resto dei brani a parte la cover di Corinna, Corinna, presenta altre composizioni significative come I Shall Be Free, che è una rilettura di Lead Belly, così come Talkin' World War III Blues, che deve molto allo stile del suo mentore dell'epoca, Woody Guthrie. Resta da dire di Oxford Town e di Honey, Just Allow Me One More Chance. La prima è un'altra canzone intelligente, ironica e di taglio decisamente satirico, come era solito fare in questa fase della sua carriera. C'è un aspetto che viene spesso poco considerato quando si parla del Dylan autore: la sua capacità di tracciare bozzetti ironici e satirici. Eppure è una delle cose che dovrebbero colpire di primo acchito l'ascoltatore. "Io e la mia ragazza, il figlio della mia ragazza siamo stati accolti con i gas lacrimogeni. Non ho capito nemmeno che ci siamo andati a fare, ce ne torniamo da dove siamo venuti." Honey, Just Allow Me One More Chance è invece un tour de force vocale e performativo di un giovane cantautore che avrebbe poi creato un marchio di fabbrica e contribuito a rinnovare la tradizione del blues con le sue liriche al vetriolo e con una penna che sgorga talento, sfacciataggine e coraggio da ogni poro. The Freewheelin' Bob Dylan venne pubblicato il 27 maggio del 1963. La produzione del disco è di John Hammond e Tom Wilson. È giustamente considerato tra i vertici assoluti dell’autore e della musica popolare del Novecento. Ha contribuito a delineare un nuovo modo di scrivere e produrre canzoni d’autore, che vanno oltre il singolo genere di riferimento. Dylan probabilmente non aveva ancora la License to kill, ma di certo con la sua chitarra è stato in grado di battere i fascisti, conquistando i cuori di chi sapeva ancora sognare.

Folgorante e innovativo. La luce di questo lavoro, che per certi versi rappresenta il vero esordio del Bob Dylan autore, non cesserà mai di brillare.

Dario Greco


- Le keywords dell'album - 

sabato 14 dicembre 2024

Bringing It All Back Home (1965)

Bringing It All Back Home (1965)

Bob Dylan nel 1965 sente che è giunto il momento di compiere uno strappo necessario con il mondo del folk, ambiente che lo aveva eletto giustamente Principe, per il livello di popolarità, destrezza e qualità artistiche mostrate in pochi anni di attività musicale professionale. Ma Dylan non era solo questo, come stavano per apprendere in moltissimi. È facile oggi giudicare un disco che all'epoca fu un vero spartiacque, capace di commuovere, scuotere, creare hype, polemica, mettere tutti d'accordo e scalare le classifiche di vendita come mai era riuscito a ottenere con i lavori precedenti. Chi non c'era non può capire, si dice. Possiamo quindi immaginare cosa è stato poggiare sul piatto del proprio giradischi il lato A di questo imperdibile capolavoro. Ed è proprio nel lato A che il Dylan autore ed esecutore riserva le sorprese più imprevedibili. Pronti via e si parte con il teso blues rock di Subterranean Homesick Blues. Un testo inarrivabile, anche per lo stesso autore, ma una musica nuova, fresca, violenta che non vuole fare sconti e offrire rifugio dalla tempesta.

Ma facciamo un passo indietro. L'anno prima Bob Dylan aveva dato alle stampe il suo quarto lavoro, Another Side of Bob Dylan, dove per la prima volta si poteva sentire una ricerca da parte dell'autore di intercettare umori e stili musicali più al passo coi tempi, rispetto alle produzioni precedenti. Qui bisogna però aprire il Vaso di Pandora e mettere le cose in chiaro. Bob Dylan non è mai stato un interprete puramente folk. Perfino nei due dischi che andrà a incidere negli anni novanta, che non contengono nessun brano autografo il suo stile personale, finirà per emergere e per mostrare la propria rilettura di classici del folk, del blues e della musica popolare scozzese, irlandese e statunitense. Ci sono quindi dei falsi miti e degli errori di valutazione che prima o poi la critica militante dovrà assumersi l'onere di correggere.

Da questo momento in poi però anche per chi si ostina a trovare e a vedere i semi della tradizione del folklore nelle liriche e nelle tessiture sonore degli album del Nostro, dovrà ammettere che qualcosa è cambiato. Perché lo scarto in avanti di brani come Subterranean Homesick Blues, Maggie's Farm, Outlaw Blues, On the Road Again e Bob Dylan's 115th Dream è fin trovo evidente e programmatico, anche per i molti critici e cultori del genere folk che certamente avevano mostrato problemi di acufene e bisogno imminente di un bravo otorinolaringoiatria.

Le session si tennero tra il 13 e il 15 gennaio del 1965 nei Columbia Studio A e B. Questo è l’ultimo disco interamente prodotto da Tom Wilson, il quale guida una squadra dove spiccano le note di un nucleo eterogeneo e compatto di musicisti.

Li citiamo tutti qui di seguito:

Steve Boone – bass guitar - Al Gorgoni – guitar - Bobby Gregg – drums - 

Paul Griffin – piano, keyboards - John P. Hammond – guitar - Bruce Langhorne – guitar - 

Bill Lee – bass guitar on "It's All Over Now, Baby Blue" - Joseph Macho, Jr. – bass guitar - 

Frank Owens – piano - Kenny Rankin – guitar -  John Sebastian – bass guitar

 Bill Lee è il padre del futuro cineasta Spike Lee e suona il suo basso su uno dei pezzi che sono rimasti di più di questo album: It's All Over Now, Baby Blue. Perché se è vero che i pezzi con un vestito sonoro che possono spiazzare maggiormente, non bisogna certo trascurare altri e alti episodi come Mr. Tambourine Man, Gates of Eden, It's Alright Ma (I'm Only Bleeding) Love Minus Zero/No limit e She Belongs to Me. Come facilmente intuibile in questo disco non c'è posto né spazio per brani riempitivi. Ogni singola nota e verso ha motivo di esistere. Bisogna dire qualcosa anche del lavoro di artwork della copertina realizzata da Daniel Kramer, che per certi versi apre la stagione della psichedelia e della sperimentazione. Il disco musicalmente è un pugno assestato alla musica pop, con il vigore di un 24enne che sapeva bene da dove veniva, ma soprattutto dove voleva arrivare. Anthony De Curtis ha scritto: "Nel giro di 14 mesi abbiamo Another Side of Bob Dylan, Bringing it all back home e Highway 61 Revisited. Un livello ancora oggi semplicemente sorprendente, come del resto l'evoluzione da un album all'altro è straordinaria."

Di questo disco è importante dire che ha rappresentato una svolta per la carriera del suo autore, visto che contiene il primo singolo a entrare nella top 40. E se è vero che il rauco rock elettrico di Dylan causò sgomento tra i vecchi fan del folk, è necessario stabilire come questo lavoro gli procurerà più seguaci di quanti ne perderà lungo la strada. Da un punto di vista programmatico questo album apre la porta a quello che sarà il Leitmotiv della carriera di Bob Dylan: spiazzare il suo pubblico. Dargli sempre qualcosa di diverso, di inatteso, capace di creare vertigine, sgomento e shock. Bringing it all back home venne pubblicato il 22 marzo 1965. Alla luce dell'ultimo disco di brani autografi, Rough and Rowdy Ways, 39esimo lavoro in studio del 2020, possiamo affermare che ancora oggi a quasi 80 anni di vita e 59 di carriera discografica, Dylan continua a stupire, sorprendere e dividere il pubblico e la critica. Non sarà il più grande cantante della storia forse, ma la sua stella è certamente quella più sfavillante e duratura di tutti i tempi. 

Dario Greco Writer

venerdì 13 dicembre 2024

Bob Dylan: l'eponimo che segna il debutto del menestrello

 



Bob Dylan (album eponimo del 1962)

Nessuno, forse nemmeno il grande talent scout John Hammond poteva prevedere quello che sarebbe accaduto, in chiave retrospettiva dopo quel 1962. 

Eppure è proprio da questa data, 19 marzo 1962 che bisogna iniziare, se si vuole ripercorrere in maniera coerente e completa la vicenda artistica di Bob Dylan. Dai primi timidi tentativi di scrittura, che sono appunto contenuti in questo esordio. I brani autografi sono due: Talkin' New York e soprattutto Song to Woody, dedicata proprio al suo mito, Woody Guthrie, la principale fonte di ispirazione per questo acerbo cantautore. Eppure nel disco si sente anche altro, inclusi brani che faranno da lì a breve la fortuna dei loro esecutori. Pensiamo ad esempio a un pezzo come House of the Risin' Sun, che di lì a breve avrebbe fatto la fortuna di Eric Burdon e dei suoi Animals. Ci sono poi altre canzoni che meritano una citazione e una analisi più approfondita, come ad esempio Baby Let Me Follow You Down, brano tradizionale, come lo era anche House of Risin' Sun, arrangiato da Eric Von Schmidt, che resterà però appiccicato a Dylan per lunghissimo tempo.

Che dire di You're No Good? Brano che di fatto rappresenta il primo vero approccio che si possa fare in maniera filologica con la musica di Bob Dylan. Il pezzo che apre il disco è una composizione di Jesse Fuller e mostra tutte le fragilità e le speranze di questo giovane chitarrista e interprete che aveva fatto tanta strada per arrivare in quel di New York per coronare il suo sogno di musicista. Certe volte la vita è davvero strana, come racconterà molto tempo dopo nel suo mirabile memoriale, Chronicles - Volume Uno.

Dylan arriva a New York City in un freddo mattino d'inverno del 1961, per farsi strada tra le amicizie e i salotti radical-chic del Café Wha, del Gerde's Folk City e del Gaslight.

Bastano dunque due sessioni di registrazioni che daranno vita a 36 minuti e 54 secondi di musica, per questo importante esordio per la musica d'autore nordamericana. Eppure in quel 1962 tutto questo sarà riservato davvero a pochissimi fruitori. Il disco infatti, pur avvalendosi di una etichetta importante come la Columbia non venderà moltissimo prima del 1964, quando però il fenomeno Dylan sarà già esploso a livello mediatico specialmente negli Stati Uniti. Arriverà alla 13esima posizione nel Regno Unito, tre anni dopo la sua pubblicazione. Nemmeno la critica musicale gli riserva un trattamento di favore, ma non sarà l'unica volta in cui un nuovo disco di Bob Dylan verrà rivalutato a distanza di tempo. Del resto questa è la condizione che un musicista imperfetto e personale deve imparare a gestire. Bob Dylan non ha mai convinto tutto il pubblico e la critica, non è un cantante perfetto, né un chitarrista eccezionale, ma sopperisce con la personalità, il gusto e il carisma innato, queste carenze congenite.

Il suo disco d'esordio, ascoltato oggi, costituisce un modello di paragone importante, rispetto a quello che avrebbe realizzato nel tempo, alla sua maturità artistica, vocale e musicale. Eppure è davvero incredibile non soffermarsi sui tratti distintivi e sulle qualità di questo esordio. Non sappiamo bene se il merito sia da spartire con chi gli aveva insegnato gli arrangiamenti di certi brani, fatto sta che oggi tutti quei nomi sono solo ricordi sbiaditi, mentre la stella di Dylan splende nel firmamento in maniera sempre più potente e brillante, segno che il tempo è galantuomo con gli uomini di ingegno, di talento e di passione. E Bob Dylan possedeva e possiede tutte queste qualità, se ci consentite di esprimere un giudizio. 


Dario Twist of fate

Illustrazione originale di Elena Artese

mercoledì 11 dicembre 2024

Dylan and I (Un'altra curva nella memoria)

DYLAN & I (TIME PASSES SLOWLY)

Approfitto di questo momento di pace apparente, quiete prima della tempesta, per vuotare il sacco. In maniera definitiva. Non è stato facile, almeno per chi vi scrive, diventare un appassionato di musica. Sarà che non ero nato nel posto giusto, forse avrò sbagliato a scegliere famiglia. Oppure ho frequentato persone che non mi facevano sentire parte di qualcosa, parlo in termini esclusivamente musicali, sia chiaro. Fatto sta che prima dei 16-17 anni, che poi coincide con le premature cotte, sbandate per ragazze irraggiungibili, inarrivabili, non era ancora scattata la scintilla tra me e la musica. Ascoltavo canzoni, quello sicuramente, ma non pensavo di essere portato per diventare un vero e grande appassionato. Preferito i libri, preferivo i film, la scrittura, la contemplazione. A pensarci bene in effetti, ancora oggi preferisco scrivere, leggere, guardare film. Ma non è questo il punto. Il punto è che in una zona segreta e oscura, scattò qualcosa dentro me. Un qualcosa di selvaggio e arcaico, di sacro e profano. Un movimento, un suono, un'idea. L'idea che ci sono canzoni che possono contribuire a rendere la tua vita meno faticosa, meno brutta, meno priva di significato, forse. Lo chiamavamo rock, ma non sapevamo bene che cosa fosse di preciso. Era il 1996 quando ascoltai per la prima volta con cognizione una musicassetta di Sting, un disco dei R.E.M. e qualcos'altro degli U2, Red Hot Chili Peppers. Molto buoni, ma forse c'era dell'altro per me. Arrivai perciò a Eric Clapton, a Neil Young e di conseguenza anche a Bruce Springsteen, agli Stones. Mancava ancora qualcosa. Un ulteriore tassello, quello che oggi viene definito un upgrade: il salto di qualità. Per me è stato ascoltare Biograph, Greatest Hits vol. 3, Blood on the Tracks, Like a Rolling Stone e Blonde on Blonde. Sissignora, sto parlando di lui! Del mio primo, indimenticabile, ascolto delle canzoni di Bob Dylan. Ricordo ancora la prima cassettina. All Along the Watchtower, Forever Young, Mr. Tambourine Man, Blowin' in the Wind, Knockin' on Heaven’s Door e qualche altro brano. Sono state sufficienti poche canzoni, ed è stato sufficiente leggere altri titoli. You're a Big Girl Now. Non conoscevo bene l'inglese, ma fin lì ci arrivavo, inoltre conoscendo un po' Fabrizio De André sapevo che Avventura a Durango fosse una cover di un brano di Dylan. E mi piaceva.

Me lo feci bastare per un pezzo. Poi, facendo un salto in avanti, ricordo di aver ascoltato uno dei volumi di Biograph, credo fosse il terzo. Altro scarto e conseguente esplosione cambriana. Come un trip del Grande Lebowski, che appena un anno dopo avrei visto al cinema, ascoltando per la prima volta un altro pezzo forte come The Man In Me. I vinili prestati dal papà di un amico, ed ecco anche Infidels, Nashville Skyline, Another Side of Bob Dylan. Non tutti mi presero, come invece fece la colonna sonora di Pat Garrett & Billy The Kid, come il primo clamoroso ascolto di Ballad of a Thin Man. Come Highway 61 Revisited. Poi venne il giorno di Blood on the Tracks, e più o meno nello stesso periodo, di Time Out of Mind, di "Love and Theft", dell'Unplugged. Avrò fumato non sono quanta marjuana ascoltando questi dischi, ok, erano in formato CD, ma mi piace comunque chiamarli DISCHI. Perché Dylan è uno che suona, produce e pubblica ancora oggi dischi. Ricordo un viaggio a Roma con l'ascolto prolungato, sostenuto di Before the Flood. Avrò consumato quel nastro a furia di ascoltarlo. E mi piaceva. E mi piacevo. Scrivevo e leggevo, ascoltando Bob Dylan, adesso! 

Sono trascorsi non meno di 25 anni da quando mi sono appassionato a questo genere di canzoni. Andando avanti ho scoperto Lou Reed e mi sono innamorato del sound di The Band. Ho ascoltato ancora e meglio Neil Young, ho scoperto Tom Waits, ma questo prima di diventare un fan totale, sfegatato di Van Morrison. Ecco forse quello è stato il mio ultimo salto nel vuoto, ma è decisamente un'altra storia. Una storia fantastica. Come quella dei primi ascolti di ogni disco di Bob Dylan. Inclusi quelli del periodo Sinatra, incluso Modern Times, l'estate del primo live di Dylan a Cosenza. Altra storia, altro biglietto, stesso regalo. I due concerti del 2007 di Torino e Milan, poi il lungo viaggio in Irlanda, con Bob Dylan, Springsteen e Van Morrison portati nel cuore. E la rivalutazione di Mark Knopfler solista. E ancora Bob Dylan, sempre Dylan. Poi Malta, poi ancora Cosenza, il sentimento ritrovato e infine perduto, il giro del Partyzan, dove quasi nessuno ascoltava Dylan e poi Tempest, un periodo piuttosto duro, difficile, travagliato, marcato. Ma ancora Bob Dylan, sempre Dylan. Non era finita, non è certo finita qui 'sta storia. Solamente un piccolo ricordo, un'altra curva nella memoria. Un po' come avere 17-18-28-38 anni. Come averne quasi 46. Come aver superato un'altra crisi esistenziale ed emotiva. Come ascoltare un 45 giri di Bob Dylan, naturalmente. Questo e molto altro ancora è Dylan per me. Questo e molto altro esprime il concetto di Dylan & I.

"È passato così tanto tempo da quando una sconosciuta ha dormito nel mio letto. Guarda come dorme dolcemente, quanto devono essere belli i suoi sogni. In un'altra vita deve aver posseduto il mondo, o essere stata fedelmente sposata a qualche virtuoso re che scriveva salmi al chiaro di luna."

Dario Greco


- SITUAZIONISMO DYLANIANO - 

DYLAN & I (TIME PASSES SLOWLY)

domenica 27 ottobre 2024

Infidels - Nessuno canta come Dylan

Nessuno canta il blues come Dylan 

All'inizio degli anni Ottanta, Dylan si ritrova per la prima volta nella posizione di non essere né un prodotto commerciale alla moda né un artista di tendenza secondo la critica. Le mode dominanti dei tardi Settanta e dei primi Ottanta erano il punk, la new wave, il funk e la disco, generi dai quali Dylan era molto lontano, nonostante le sue contaminazioni in chiave di soul music, proprio di quest'epoca. Il suo ultimo successo commerciale risaliva al 1979, quando Slow Train Coming fu un grande successo, portandogli in dote il suo primo Grammy per merito del singolo Gotta Serve Somebody. Nonostante le tematiche religiose e una musica notevolmente in debito nei confronti del gospel, Dylan aveva chiuso in attivo un decennio caratterizzato da alcuni alti, ma parecchi bassi. Non ci fu mai un annuncio ufficiale o qualcosa di simile, ma Infidels segnò il ritorno per Bob Dylan alla musica laica o quantomeno a materiale privo di riferimenti cristiani espliciti. Va detto che i richiami religiosi non sono mai mancati nei suoi lavori, infatti sarebbero continuati anche in futuro. Comunque questa è un'altra storia, questo è Hemingway!

Infidels è il 22esimo album in studio di Bob Dylan. Viene rilasciato il 27 ottobre 1983 per conto di Columbia Records. Lo avevano preceduto tre lavori definiti dalla critica album "cristiano-evangelici" come Slow Train Coming, Saved e Shot of Love, anche se a onor del vero solo il secondo era stato un disco propriamente estremista nei toni e nelle liriche, dato che già Shot of Love in diversi episodi se ne discosta, musicalmente e a livello testuale. Infidels, tranne per qualche brano poi scartato in fase di editing e di missaggio, rappresenta il ritorno alla cosiddetta musica secolare. È un buon successo, a discapito di critiche circa la scaletta definitiva che lo andrà a comporre. Innegabile lo sforzo di essere attuale e contemporaneo. A tal proposito l'eminente Paul Zollo dirà nel tempo: "Infidels non ha perso nulla del suo potere, a differenza di tanti album del passato. Forse ha il suono migliore tra i suoi lavori in studio. Il suo genio è profondamente rispecchiato in ciascuno dei brani. Esclusioni a parte, resta uno dei suoi migliori dischi.

Sotto il punto di vista musicale il disco è saldamente nelle mani di Mark Knopfler, nella doppia veste di chitarra solista e di produttore. Fonti molto vicine all’artista dicono che in lizza per questo disco ci fossero David Bowie e Frank Zappa. Venne scelto invece il chitarrista di Glasgow, probabilmente più in linea con il feeling delle canzoni e che già aveva collaborato con Dylan in studio nel 1979. Lo affianca una band di livello eccellente, dove spicca la chitarra dell'ex Stones Mick Taylor, mentre la sezione ritmica è composta da Sly Dunbar e Robbie Shakespeare. Alle tastiere, Alan Clark. 

Infidels è la chiara istantanea di un autore che si esprime con consapevolezza ai massimi livelli, sotto ogni punto di vista: performativo, musicale e testuale. Un performer al massimo, consapevole di avere le carte in regole per tornare. C'è chi sostiene che questo poteva essere il miglior disco dai tempi di Blood on the Tracks se non addirittura superiore. E invece... è un dannato capolavoro!  Basti pensare al fatto che questo lavoro ha ispirato artisti del calibro di Caetano Veloso, Tom Petty, Jimmy LaFave, Built to Spill e Craig Finn i quali nel corso degli anni gli renderanno omaggio riprendendo alcuni dei pezzi migliori di questo lavoro.

Pochi dischi del Dylan post anni sessanta possono contare sulla solidità e la compattezza di questo album. Otto brani, quattro per ogni facciata con pezzi di valore assoluto come Jokerman, Sweetheart Like You, License to Kill e I and I, che da soli valgono già il disco. Ai quattro gioielli vanno poi aggiunti i seguenti brani: Dont' Fall Apart on me Tonight, Union Sundown, Man of Peace e Neighborhood Bully. La critica (per una volta benevola verso questo lavoro) resterà un po' spiazzata facendo spallucce quando Dylan utilizza l'arma dell'ironia venendo il più delle volte frainteso e scambiato per un lamentoso reazionario. Riascoltando oggi alcune canzoni verrebbe da dire che l’autore abbia un atteggiamento da boomer, quando afferma:

Le mie scarpe vengono da Singapore, le mie tovaglie dalla Malesia, la mia cintura con la fibbia dall'Amazzonia. Questa camicia che indosso viene dalle Filippine e la macchina che sto guidando è una Chevrolet fabbricata in Argentina. Questo abito di seta è di Hong Kong, il collare del cane è dell'India e il vaso di fiori è del Pakistan. Tutti i mobili recitano "Made in Brazil". 

Eppure un artista sul viale del tramonto non avrebbe dato alle stampe un disco così compatto, lucido e coerente. E poi, sorpresa delle sorprese, il meglio che aveva scritto (e registrato) non è neppure presente sul disco. Ci sono infatti almeno tre brani che avrebbero reso l'album se possibile più valido e di maggior peso specifico. Blind Willie Mc Tell, Death is Not The End, Lord Protect My Child, Foot of Pride, Someone's Got A Hold Of My Heart, Clean Cut Kid, Tell Me avrebbero costituito l'ossatura per un ottimo doppio album. Un ritorno? Forse, anche se per alcuni fan toccherà attendere ancora qualche anno. E' difficile giudicare in termini negativi un disco che lavora per sottrazione e che rinuncia a pezzi pregiati in nome di compattezza e coerenza in virtù del messaggio che vorrebbe lanciare. Dylan qui è uscito dall'ubriacatura religiosa e ritorna con la voce più credibile, quella del suo glorioso passato. Non più la voce di una generazione, visto che sono cambiate molte cose, ma un lucido visionario, che ha letteralmente superato le fiamme dell'inferno per tornare dai peccatori a raccontare una poco lieta novella. Peccatori? Meglio dire infedeli.

Considerazioni personali su Infidels (e sul brano Blind Willie Mc Tell)

Quanta potenza e quanta rinuncia c'è in questo disco, in questa prova in studio. Non è facile scrivere e argomentare su quello che poteva essere, ma non è stato. Eppure noi qui sappiamo come andranno le cose. Basta avere la volontà di riavvolgere il nastro. Basta acquistare un biglietto e se sei fortunato il tuo numero uscirà. È stato così per noi, è stato un gioco dove non c'erano vincitori e sconfitti, perché questo treno non porta più prostitute e biscazzieri, perché nessuno ha più occhi per vedere e sogni da infilare sotto cuscini improvvisati. C'è un pianoforte e una chitarra che suonano magnificamente e c'è una voce che si staglia. Non sembra bella, ma è urgente e sincera. È la voce di Bob Dylan. Il canto di un menestrello in preda ai deliri di un blues ancestrale e solitario. Infidels è il disco che poteva essere e non è stato. Blind Willie Mc Tell è una riflessione sulla fine dei tempi. Eppure Infidels resta ancora oggi un'idea di viaggio sonoro preciso, puntuale, consapevole che ci consegna una delle migliori canzoni dai tempi di Mr. Tambourine Man, quella splendida, ipnotica, meravigliosa, Jokerman. Una sorta di nuovo alter ego, dove l’autore e il performer trovano adesione e immedesimazione totale, quasi mimetica. Nessuno ora canta il blues come Bob Dylan. Nemmeno Dylan stesso!

Dario Twist of Fate

sabato 26 ottobre 2024

World Gone Wrong & Good as I been to You


Good as I been to You - World Gone Wrong (1992-1993)

Per analizzare in modo strutturato gli album folk e tradizionali pubblicati da Bob Dylan durante i primi anni novanta bisogna fare  prima qualche passo indietro. Per una maggiore comprensione della sua vicenda artistica, della scena musicale turbolenta e fertile, di quel decennio appena iniziato, ma che già aveva mostrato vento di cambiamento. In effetti c'era stato più di uno squillo da parte delle nuove leve musicali e di una generazione che si sarebbe presa con autorevolezza le luci della ribalta. 

Bisogna partire proprio da quel programma televisivo di enorme successo e impatto che fu appunto l'Unplugged, ma anche lo stesso palinsesto di MTV potrebbe aiutarci a compiere una ricognizione efficace e polifonica. Dire che Bob Dylan alla soglia del nuovo millennio era un artista senza più molto da dire è un luogo comune da sfatare con ogni mezzo, legale e illegale. Stiamo parlando di un autore e di un interprete che aveva influenzato almeno una generazione di autori ora maturi e imposti sul mercato discografico, i cui prodotti di grandissima qualità erano destinati a durare nel tempo. Si pensi ad esempio a gente come Tom Petty, che raccolse proprio a cavallo tra gli anni ottanta e i novanta il testimone, così come lo stesso Bruce Springsteen, Tom Waits, ma anche gli Pearl Jam e in special modo Eddie Vedder, proprio come Bono Vox degli U2. Gli U2 nel 1988 resero omaggio alla musica statunitense che li aveva ispirati, nella loro lunga cavalcata verso il successo planetario. Senza soffermarsi troppo sul singolo artista, band o chitarrista, il lascito di Dylan era evidente e influente. Basti citare un singolo successo dei Guns ‘N’ Roses come la rilettura di Knockin' on Heaven's Door, brano che porta la formazione capitanata da Slash e da Axl Rose ai vertici delle classifiche e dei gradimenti di un pubblico stratificato ed eterogeneo.

Eppure Bob Dylan non veniva certo da un decennio facile e ricco di successi e gratificazioni discografiche. È vero che aveva prodotto e pubblicato durante gli anni ottanta due dei suoi album migliori e di maggior successo come Infidels del 1983 prodotto da Mark Knopfler dei Dire Straits (altra band profondamente ispirata e in debito nei confronti di His Bobness) e soprattutto il più recente successo di Oh, Mercy prodotto stavolta dal mago del suono (U2, Robbie Robertson, Peter Gabriel) Daniel Lanois. Il polistrumentista canadese aveva infatti stravolto e modernizzato gli arrangiamenti delle canzoni di Dylan, aiutandolo e dirigendolo verso una nuova visione di consapevolezza e di brillantezza essenziale del sound. Dylan negli anni ottanta sembrava sempre più perso e arroccato sulle proprie convinzioni. A detta della critica non era altro che un ferro vecchio del rock e del folk. Nessuno acquistava e ascoltava più la sua musica, in un decennio dove il concetto fatalista dell'usa e getta aveva preso il sopravvento. Del resto fu un decennio per niente facile per le vecchie glorie della musica d'autore, come possiamo vedere dando uno sguardo ad artisti come lo stesso Neil Young, Van Morrison e altri. In particolare però Dylan era colpevole di un delitto capitale: aveva pubblicato almeno due album nella seconda metà degli anni ottanta che la critica e il pubblico aveva salutato come i suoi peggiori lavori dai tempi di Self Portrait. Come sempre la storia e il tempo sono galantuomini, ma anche tra il suo zoccolo duro di sostenitori questi dischi non erano affatto piaciuti.

La resurrezione però ancora una volta è dietro l'angolo. Proprio nell'anno peggiore, quello in cui diede alla stampe il fiacco Down in the Groove, dove anche i critici e il pubblico più affezionato salva forse 2-3 canzoni, come la pimpante e allegra "Silvio", Dylan torna alla luce e lo fa con quello che gli riesce meglio da quando si è imposto nei circuiti folk newyorkesi dei primi anni sessanta: torna a esibirsi dal vivo con una certa continuità e autorevolezza. Non che prima fosse fermo, anzi, era reduce da almeno due tour con band che rispondono ai nomi di Tom Petty and the Heartbreakers e dei Grateful Dead di Jerry Garcia. Circola in questo periodo un bel live su Youtube di un Dylan in spolvero che divide il palco con Garcia & Co. Oh, Mercy e in parte Under the Red Sky, il sequel del 1990, bilanciano quindi gli insuccessi di Knocked Out Loaded e di Down in the Groove, ma c'è un problema. E non è affatto un dettaglio da poco. A Dylan, autore tra i più imponenti degli ultimi 25-30 anni mancano ora le canzoni, o meglio i pezzi giusti per restare a galla, vendere qualche disco e continuare a esibirsi in concerti e festival.

A questo punto l'idea appare chiara. Un ritorno alle origini di menestrello e di folksinger. Del resto non era forse lui il Wonder Boy degli anni sessanta, il principe della scena newyorkese che si impose al pubblico e convinse il grande talent scout John Hammond a metterlo sotto contratto con la Columbia Records? Era lui e ogni tanto forse gli piace ricordarselo. Con questi due album che non contengono nessun brano autografo, ma che si avvalgono di nuovi e squillanti arrangiamenti, Bob Dylan torna alle atmosfere pacate e acustiche dei suoi esordi. I dischi forse non sono dei capolavori, ma basta ascoltare anche solo i brani scartati, gli outtakes che verranno pubblicate nel tempo per stabilire le giuste gerarchie su chi sia ancora una volta il principe e il maggior interprete della scena folk e tradizionale Made in Usa. Basta ascoltare il brano Mary and the Soldier contenuta nel Bootleg Series Vol. 8 - Tell Tale Signs per capire chi resta uno degli interpreti più efficaci in termini di Contemporary folk music. Oppure per chi non concepisce e non digerisce i dischi dedicati al Great American Songbook, consiglierei di recuperare la sua versione di You Belong to me, la classica ballata romantica, portata al successo da Ella Fitzgerald, Patti Page e Dean Martin. Il brano eseguito da Bob Dylan e presente nella colonna sonora del film di Oliver Stone è una outtakes di Good as I Beene to You del 1992. Oggi, a distanza di quasi 30 anni, possiamo facilmente affermare come World Gone Wrong e appunto il sopra citato Good as I Beene to You siano qualcosa in più che esercizi di stile o dischi di livello accettabile. Sono una testimonianza di un artista che decide quale strada seguire, contro i propri interessi commerciali, contro quello che le radio e il sistema discografico imponeva. C'è chi in quegli anni si era permesso il lusso di "consigliare" a Dylan di ritirarsi. Bene, a distanza di 29 anni Dylan continua a fare la sua musica per il suo pubblico, senza compromessi e senza bisogno di chiedere permesso e scusa a nessuno.

A questo punto vi pongo la domanda che Soffia nel Web: chi era il vero artista grunge negli anni ‘90?


Dario Twist of Fate


domenica 22 settembre 2024

Bob Dylan/ The Band - Before the Flood

Dylan torna in tour per restarci (On the Road Again)


Troppo presto parlare di Neverending Tour, ma il Dylan della seconda parte degli anni Settanta, mostra subito alcune delle sue carte migliori, con una lunga serie di concerti. Si parte forte con i sodali The Band e le cose si fanno subito serie, soprattutto si nota la distanza rispetto al tour di otto anni prima, sempre con la medesima formazione. A dire il vero questa volta partecipa anche Levon Helm, che nel 1966 era stato sostituito prima da Bobby Gregg, poi da Mickey Jones. La differenza più sostanziale è però un'altra. Stavolta The Band non partecipa alla tournée come semplice gruppo di musicisti d'accompagnamento del solista. Questa volta The Band dividono a tutti gli effetti il cartellone con Dylan, eseguendo un loro set, dove suonano i loro grandi successi. 

Il concerto infatti inizia con Dylan & The Band, prosegue poi con i canadesi senza Dylan, poi tocca a quest'ultimo fare un set da solo con chitarra e voce, poi torna The Band per concludere con Dylan e il gruppo che eseguono insieme pezzi del calibro di All Along The Watchtower, Highway 61 Revisited e Like a Rolling Stone. Viene pubblicato un disco doppio a testimonianza di queste esibizioni, con il titolo Before the Flood. I dischi includono esecuzioni realizzate a New York e a Los Angeles tra il 30 gennaio e il 14 febbraio. Durante questo tour Robbie Robertson, come ricordato nel suo memoriale Testimony soffrirà di un forte attacco di panico e avrà un po' di problemi a gestire la seconda trance del tour. Naturalmente nelle esibizioni non c'è alcuna traccia di tutto questo. Il gruppo gira senza intoppo, anzi forse si avverte, rispetto alle esecuzioni del 1966 una sorta di distacco e freddezza, quasi come se venisse azionato il pilota automatico. Probabilmente all'epoca questo disco deluse le elevate aspettative da parte della critica e del pubblico, ma a distanza di quasi 50 anni è una delle documentazioni più fedeli e attendibili della potenza di fuoco di Bob Dylan and The Band in concerto.

Non si tratta di esprimere punti di vista, ma bensì di certificare la qualità di questa formazione in versione live. Un reperto storico unico, che a distanza di anni suona ancora come una vera e propria macchina da guerra. Il merito è di un Dylan la cui resa vocale è tagliere, dura e potente nonché di una band che sapeva suonare ogni tipo di musica possibile. 

Duttile nell'accompagnamento del menestrello, ma in questa occasione con un proprio repertorio degno di nota e di attenzione. Un disco, Before The Flood, da rivalutare e ascoltare, con il punto di vista dello scenario attuale, dove i grandi vecchi del rock suonano ancora dal vivo, ma senza avere più questo tipo di resa ed elasticità. Nonostante ciò, il live non è considerato dai più come la migliore registrazione dal vivo del repertorio di Dylan. Chi vi scrive è d'accordo in parte con questo punto di vista. Detto questo si tratta di un live da recuperare e riascoltare con la giusta attenzione.


Il ritorno di Bob Dylan sulla strada (Pt. 1)

domenica 7 luglio 2024

Down in the Groove: commenti impopolari dylaniani

 


Commenti impopolari Dylaniani - Down in the Groove (1988)

Scrive Joel Selvin, critico musicale del San Francisco Chronicle: “Bob Dylan ha fatto parecchi cattivi dischi. Ora i cattivi dischi sono il frutto del tentativo di realizzare buoni album. Bob Seger e Tom Petty probabilmente non hanno mai fatto dischi cattivi. Ma non hanno realizzato neanche un grandissimo album nella loro longeva attività discografica. Hanno prodotto invece buoni, ottimi dischi. Sul fatto che Knocked Out Loaded possa essere considerato il suo peggior album, ci sarebbe parecchio da discutere. Possiamo però pacificamente riconoscere che si tratti di uno dei sui peggiori 10 lavori in studio. Magari non è il peggiore in assoluto, ma di certo sta a fondo classifica.”

Ho scelto di iniziare questo commento impopolare dedicato a Down in the Groove, facendo un piccolo passo indietro. Personalmente trovo davvero troppo semplice e riduttivo bollare questi dischi (che sono giustamente considerati minori) come se fossero cose di poco conto, nella carriera di un artista importante, unico e geniale come Bob Dylan. Specialmente perché questo specifico disco, pubblicato il 30 maggio 1988, segna in un certo senso la conclusione degli “anni ottanta” per il suo autore. Anni ottanta, tra virgolette, perché a questa definizione attribuiamo la fase più oscura, sottostimata e gestita male, dal cantautore statunitense. Eppure il 1988 per chi conoscerà un minimo la vicenda umana e la carriera professionale di Dylan, mostra una svolta fondamentale, in termini retrospettivi. Il motivo è piuttosto evidente. Appena 8 giorni dopo la pubblicazione di Down in the Groove, (disco di cui parlerò più avanti) il suo autore decide di partire per un nuovo tour. 

Questo è il disco che segna una nuova tappa, fondamentale. Sotto un certo punto di vista la carriera dell’artista deve molto a quello che comprensibilmente è considerato il suo lavoro peggiore. Non sono qui per interpretare l’avvocato del diavolo, dato che nemmeno mi piace questo album, ma gli andrebbe riconosciuta una qualità intrinseca, che forse nemmeno i lavori più incensati della critica possiedono. Rolling Stone, così tanto per cambiare, nel 2007 attribuisce a Down in the Groove la scomoda etichetta di peggior disco di Dylan. Come afferma Alan Light, critico newyorkese, se sei un vero appassionato o uno studioso della carriera di Dylan, questo è il lavoro più ingannevole, ragione per cui è comprensibile trovare i brutti dischi tanto interessanti. Perché ci raccontano qualcosa in più della storia. E dopo aver esaminato quello che viene prima, dopo e durante (in questo caso) anche un album difettoso è ancora importante.

Diciamo che con Dylan è possibile frammentare e unire il corpus discografico, ma resta il fatto che è il totale, la somma delle differenti parti, che diventa interessante rispetto alla specificità dei singoli dischi. Abbiamo già raccontato di quel magnifico e proverbiale colpo di coda che è stato Oh, Mercy, disco prodotto e firmato da Daniel Lanois nel 1989, ma troviamo che in questa occasione sia più interessante e divertente vedere in che modo i cattivi dischi sono cattivi, che cosa hanno rappresentato all’epoca, come vanno giudicati e catalogati adesso. Oltretutto per chi non lo conoscesse, stiamo parlando di un disco che dura appena 30-32 minuti. Che Dylan negli anni ottanta fosse artisticamente apatico è questione di opinioni, ma il fatto che avesse rallentato nel ritmo compositivo è invece un dato di fatto.

Down in the Groove certifica questo aspetto, visto che troviamo nella raccolta di brani solo quattro canzoni autografe, di cui due sono scritte a quattro mani con Robert Hunter. Il paroliere dei Grateful Dead tornerà più avanti a comporre assieme a Dylan Together Through Life, album del 2009. Non solo: uno dei quattro brani autografi è un outtake risalente a Infidels, disco del 1983. Si tratta di Death is not the end, brano che verrà riproposto più avanti da Nick Cave, il quale darà alla canzone una seconda vita e una certa dignità artistica che forse nella versione originale non possiede.

Forse non bisognerebbe limitarsi ad analizzare unicamente i brani autografi, dove comunque troviamo "Silvio", canzone che mette in evidenza un Dylan performer divertito e divertente, che ribadisce una delle sue qualità a molti forse un po' nascosta. Quella rara capacità di essere autore divertente e interprete spigliato e agile. Già l’agilità considerata unicamente come qualità e virtù, aspetto secondario e poco valutato per un autore che in passato aveva composto brani epici e monumentali come Desolation Row, Lily, Rosemary and the Jack of Hearts o Sad Eyed Lady of the Lowlands. Ho scelto proprio queste tre canzoni, tra le tante, perché sommando la durata si arriva a trentuno minuti. La stessa durata di questo trascurabile Down in the Groove. Album che contiene appunto quattro brani autografi, tra cui la terribile Ugliest Girl in the World, senza dubbio la peggiore canzone scritta dal cantautore.

Scrive Calvino nelle sue Lezioni americane: "La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura, tutte qualità che si accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento ad un altro, a perdere il filo cento volte e ritrovarlo dopo cento giravolte." Dylan, autore di canzoni conosce bene il significato di rapidità e disinvoltura. Sono queste le ragioni per cui la sua penna è sempre occupata, il suo piede sempre svelto, parafrasando Forever Young. "Silvio" ci mostra che il Dylan autore e quello performer godono di buona salute, in questo 1988. Ed è pur vero come il disco mostri un cantautore in evidente difficoltà compositiva. Era dal lontano 1970, anno in cui pubblica Self Portrait, che Dylan non pubblica un disco infarcito di cover, brani tradizionali o composizioni di altri autori. Eppure qualcosa si smuove. Perché sotto il nome di Traveling Wilburys, pubblica assieme a George Harrison, Tom Petty, Roy Orbison e Jeff Lynne, uno dei suoi più grandi successi commerciali del periodo. Un altro colpo di coda, nel quale spiccano brani come Tweeter and the Monkey Man, Congratulations e Dirty World. Così quella che potrebbe risultare l’ennesima parentesi, di fatto getterà le basi per un nuovo, ennesimo ritorno, in grande stile. Archiviati questi goffi tentativi di collaborazioni con Grateful Dead, Tom Petty, Stones e addirittura con membri dei Sex Pistols, (nel brano Sally Sue Brown, figura nei crediti il chitarrista Steve Jones) Dylan torna ancora una volta a casa.

Attingendo dalla migliore vena compositiva, darà alle stampe un disco maturo, triste e concentrato come Oh, Mercy. Perché la festa degli anni ottanta volge al termine. Inizia una nuova decade dove il Political World avrà ancora bisogno dei versi di Bob Dylan.

In soldoni

La rinascita artistica di Dylan passa attraverso dischi di transizione come Down in the Groove, Under the Red Sky e Knocked Out Loaded. Chi non lo comprende, e si aggrappa a Oh Mercy, Time Out of Mind o a Infidels stesso, può anche smettere di sforzarsi di capire, analizzare e definirsi dylaniano, perché alla fine della fiera non lo è fino in fondo. Sarà anche un motto situazionista, ma ne sono fortemente persuaso oggi come oggi.


SITUAZIONISMO DYLANIANO

mercoledì 3 luglio 2024

Empire Burlesque: commenti impopolari dylaniani


Qualcuno pensa che Empire Burlesque sia il disco l'album più sottovalutato di Dylan, io non so se questo è vero, ma di certo è uno dei più fraintesi, al pari di cose come Self Portrait, Street-Legal e Saved. Per ritrovare un disco contestato, a questi livelli, bisognerà attendere l'epoca di "Love and Theft". Diciamo che dal dopo Blood on the Tracks e Desire, dischi dove Dylan è riuscito a intercettare nuovamente i favori della critica, qualcosa è andato per il verso sbagliato. Infatti sia la critica che certo pubblico, non ha reagito in maniera positiva alla cosiddetta svolta "black" che il Nostro introduce con il sound sporco, torrenziale di certi passaggi contenuti in Street-Legal e in misura maggiore con il trittico gospel di Slow Train Coming, Saved e Shot of Love. Il furore gospel si attenua, fino a placarsi quasi, con Infidels, dove però Dylan recupera il suono e la sezione ritmica giamaicana, forse anche del suo veleggiare per il mare dei Caraibi. C'è ancora qualcosa di gospel e di black nella scrittura di questo Empire Burlesque. 

Un disco che si apre con passo audace, sbarazzino con l'apparentemente frivola Tight Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love), uno dei capitoli più riusciti di questo disco pubblicato nel 1985. Sono trascorsi oggi quasi 40 anni, tempo sufficiente a fornirci una chiave di lettura consona al fine di collocare il disco dove realmente merita. Si tratta appunto di un momento chiave per la carriera di Dylan. 

È vero che l'album non ha ottenuto il successo sperato e desiderato, ma in termini retrospettivi, ci mostra un artista vivo, consapevole e capace del suo potenziale, molto più che come avverrà con dischi più celebrati, incensati dalla critica, a partire dai due prodotti da Daniel Lanois. Sulla qualità delle canzoni, nessun critico oggi può dirsi convinto che si tratti di materiale scadente, il problema semmai sta nel suono, negli arrangiamenti, che tutti o quasi etichettano come "anni ottanta", "alla moda", come se Dylan stesse inseguendo il successo di colleghi più giovani e più al passo, capaci di scalare le classifiche di vendita. 

A questo malinteso contribuisce l'apparizione al singolo spot We Are the World. Francamente trovo che quello sia stato uno degli scivoloni più clamorosi di Dylan, al pari della partecipazione al concerto di Bologna per Giovanni Paolo II. 

Tuttavia ascoltando oggi il disco del 1985, senza grandi aspettative, ci ritroviamo davanti a un lavoro coeso, con tante idee e capace di spaziare in modo insolito per quanto riguarda suono, arrangiamento e produzione. Forse è proprio questo il limite dell'album. 

Suona poco spontaneo e troppo costruito, rispetto agli standard di Dylan e di certo non gode del momento migliore, in termini di scrittura da parte del Nostro. Eppure ci sono squarci di luce, momenti in cui la creatività e l'intuito dominano e prendono il sopravvento rispetto al controllo e alla disciplina. Ne vengono fuori episodi come il già citato Tight Connection to My Heart (Has Anybody Seen My Love), Emotionally Yours, la solitaria e conclusiva Dark Eyes, la nostalgica e bellissima I'll Remember You, l'apocalittica e ispirata When the Night Comes Falling from the Sky, brano che richiama al contempo All Along the Watchtower e la fase gospel di Saved e Slow Train. Il sound del sintetizzatore è a tratti contraddittorio, ma rende la canzone una miscela sfuggente e intrigante. I testi sono potenti, ispirati, nonostante la critica dell'epoca abbia sostenuto il contrario. 

“Something’s burning, baby” ha un sound cupo, maestoso, da marcia funebre, che mostra un Dylan davvero insolito. Una canzone eccezionale. E poi c’è l’ultima contraddizione dell’album: “Dark Eyes”, completamente acustica, un vero capolavoro. Un brano ipnotico, trascinante e pungente in cui Dylan suona accordi dissonanti, calanti e ci regala un’interpretazione degna del miglior Bob Dylan di sempre. 

Non diremo che si tratta di un capolavoro o qualcosa del genere, ma quantomeno Empire Burlesque, 23esimo disco in studio è tra i dischi maggiormente fraintesi e meno analizzati del prodigioso catalogo dell'artista statunitense.


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COMMENTI DYLANIANI IMPOPOLARI |



lunedì 24 giugno 2024

The Basement Tapes (1975)

 

The Basement Tapes and The Bootleg Series Vol. 11 (1975)  

"L'idea era di registrare dei demo per altri artisti. Non sono mai stati concepiti per essere pubblicati, per diventare un disco, per essere presentati al pubblico." Fortunatamente Robbie Robertson ci conferma ciò che appare evidente dopo l'ascolto di questo doppio disco pubblicato per la prima volta il 26 giugno 1975. Otto dei 24 brani sono eseguiti da The Band, senza Dylan, ma bisogna tenere un altro numero ben più imponente e voluminoso, per questa raccolta che conta 139 tracce complessive. Le registrazioni risalgono però al periodo che va da giugno 1967 al 1968. Successivamente verranno eseguite delle sovraincisioni durante il 1975. La gestazione di questo disco non è quindi molto omogeneo, così come la scaletta. Le composizioni sono di Dylan, Robbie Robertson, Richard Manuel e Rick Danko, alcune delle quali scritte in collaborazione a quattro mani. Il materiale include almeno 4-5 brani che entreranno di diritto nella storia della musica popolare, ma la cosa più importante, in termini di documento storico è come avvengono le sessions e le prove. Resta da dire che non si può parlare di un vero lavoro in studio, ma che sarebbe riduttivo dire che si tratti di semplici provini, visto anche il valore e l'intensità con cui vengono eseguite. Purtroppo le registrazioni e l'acustica della cantina renderanno il suono decisamente lo-fi, ma se il disco viene ascoltato oggi il problema non sussiste, dato che spesso la musica viene spesso prodotta in modo simile, anche se la tecnologia ha fatto passi in avanti, naturalmente.  

Escludendo il primo triennio (1962-1964) più qualche occasionale ripensamento, Bob Dylan ha scritto, inciso e pubblicato dischi supportato da una band elettrica o comunque elettro-acustica. Nonostante abbia pubblicato solo 6 album su 39 con questo tipo di line-up per moltissimi lui sarà sempre una voce folk, un menestrello armato di chitarra acustica e armonica pronto a regalare note emozioni e nuove canzoni al mondo. Questa premessa obbligatoria ci conduce nella cantina più famosa degli anni sessanta. Perlomeno per un certo tipo di pubblico affascinato dal fenomeno crescente del folk rock. Di quel genere musicale che oggi abbiamo imparato a chiamare Americana. The Basement Tapes sono una mappa alternativa, cartina tornasole di un gruppo che stava muovendo i primi passi e di un autore già celebre e incensato alla ricerca di ispirazione di un nuovo sound del groove con cui prima o poi sarebbe tornato a far parlare di sé. Ufficialmente queste registrazioni risalgono al periodo 1966-1967 ma il disco venne rilasciato dalla Columbia Records solo durante l'estate del 1975. Bob Dylan all'epoca era già tornato sia in studio che dal vivo, prima con i The Band e successivamente con un altro nucleo di musicista che lo avrebbero accompagnato in studio e nelle esibizioni live di quel carrozzone noto come Rolling Thunder Revue. Le canzoni e le registrazioni, eccettuate alcune sovraincisioni che fecero più danno che altro, risalgono quindi a circa 8 anni prima. E questo non è certo un elemento trascurabile per un artista sfuggente e mutevole come il Nostro.

La qualità è rozza, cruda, l'approccio diretto, spontaneo e inconsapevolmente lo-fi. In maniera libera e informale prende vita un ritratto totale della cultura americana, attingendo da ogni vena pulsante della storia della musica degli States. Qui respiriamo l'aria di pianure sterminate, dei deserti e sentiamo gli odori della terra, dei fiumi, percependo infinite sfumature cromatiche di questo luogo infinito. I testi si ispirano gioco-forza a quell'America rurale, entrando nelle viscere di personaggi che sono al contempo santi e peccatori, prostitute e vergini, amanti del vizio alla ricerca della salvezza dell'anima. Il fatto che Bob Dylan e The Band si siano chiuso a fare questa musica arcana e blasfema mentre il mondo sta andando a ferro e fuoco, è un dettaglio da non trascurare. In effetti ascoltando bene tra le tracce, qualcosa si avverte anche. Tears of Rage, You Aint' Goin' Nowhere, This Wheel's on Fire e I Shall Be Realesed (che tuttavia non sarà inclusa nel doppio album, ma pubblicata separatamente prima da The Band e poi dallo stesso Dylan.) sono figlie illegittime di questi tempi turbolenti e solo per alcuni mitizzati e ancora oggi celebrati come una stagione irripetibile. Nota a parte per il brano I’m Not There, pubblicato ufficialmente solo nel 2007 come colonna sonora dell’omonimo film ispirato alle molte vite di Dylan e diretto dal talentuoso e visionario regista statunitense Todd Haynes (ma della pellicola e della colonna sonora vi parlerò in maniera estesa in un post a parte, più in là nel tempo).

Non tutto il lavoro verrà però svolto invano, visto che The Byrds, Peter, Paul and Mary e soprattutto il britannico Manfred Mann sapranno valorizzare questo materiale. Personalmente ho sempre apprezzato molto un brano come Goin' to Apaculpo o lo stesso Million Dollar Bash, mentre il valore di Quinn the Eskimo (Mighty Quinn) è certificato dal primo posto di questo singolo nelle classifiche UK, nella versione di Manfred Mann.

Che dite, ne valeva la pena raccogliersi in uno scantinato con un gruppo di amici cane sdraiato sul pavimento a fare da groupie casuale?

A rendere giustizia a queste take ci penserà il tempo e la storia, visto che nel 2014 viene pubblicata la compilation di registrazioni edite, inedite, nastri demo e versioni alternative che troverete su The Bootleg Series Vol. 11: The Basement Tapes Complete. Se posso suggerirvi, vi consiglierei di recuperare direttamente questa versione delle incisioni, se non siete dei completisti anche in versione RAW a due compact disc. Trentotto tracce che fanno da mappa riduttiva rispetto alla versione completa da 139 tracce e 6 cd.

Dario Twist of Fate

domenica 23 giugno 2024

Saved (1980)

Secondo capitolo gospel di Bob Dylan

 

Nessuno può salvare Dylan da sé stesso, nemmeno Dylan stesso. Il problema è che il cantautore americano non ha nessuna intenzione di fare sconti a nessuno, quando entra in studio per registrare il suo ventesimo disco. SAVED è per molti versi il sequel di Slow Train Coming che lo aveva preceduto meno di un anno prima. Eppure nonostante la produzione di Barry Beckett e Jerry Wexler e le registrazioni realizzate nuovamente al Muscle Shoals Sound Studio, le differenze sono nette fin dalla prima traccia. Al disco collaborano Tim Drummond, Jim Keltner e Fred Tackett, motivo per cui il disco ha gran bel tiro, che gli permette di esplorare, se possibile in maniera più radicale e profonda, l'ossessione dylaniana per il gospel. Nella migliore delle ipotesi si tratta di un solido e nervoso blues rock, con alcuni degli episodi musicalmente più vibranti di tutto il repertorio. Il problema, se si problema si può parlare, è derivato da una certa allegoria e da testi che sono inequivocabilmente in debito verso il Nuovo Testamento. Bob Dylan è entrato in una fase della sua carriera in cui ha smesso di chiedersi cosa possa volere il pubblico. Pensa a sé stesso e tira dritto. Col senno di poi questo è uno di quei dischi che poteva restare nel cassetto. 

Eppure ci sono aspetti che lo rendono unico, meritevole di fare da contraltare alla sua produzione in studio più celebrata e iconica. Del resto appena dopo Desire il Nostro aveva iniziato a produrre lavori che la critica faticava a comprendere e a mettere a fuoco con analisi obiettive ed equilibrate. Sono passati appena cinque anni dal suo ultimo vero capolavoro: quel Blood on the Tracks concepito come un'autentica opera d'arte. Un lavoro coeso, vibrante e toccante, come pochi. Saved in effetti pare sia stato realizzato da un artista totalmente differente. Qui ci troviamo di fronte a un musicista che scrive in modo nuovo, diverso. Quello del 1975 usava metafore e linguaggio da poeta stilnovista ispirato da Shakespeare e da altri campioni della letteratura mondiale come il russo Cechov; l’autore di Saved parla una lingua più piana, forse più banale, almeno rispetto allo standard e al metro precedente. Eppure oggi a distanza di 40 anni abbiamo imparato ad ascoltare i suoi diversi stili, che includono tanto le fisime quanto le rivelazioni, ma per il mondo che viaggiava sui meridiani e le prospettive del 1980 deve essere stato uno shock ascoltare questo disco da invasato. 

Un fanatico religioso, dirà la critica, nonostante fosse poco chiaro se Dylan stesse facendo sul serio o no. Di certo stava facendo sul serio con i suoi spettacoli dal vivo, visto che raramente ha suonato dal vivo con questa intensità, con il furore e il fuoco sacro del rock che divampava. Attraverso le testimonianze live ufficiali oggi possiamo collocare questo Saved in una cornice molto più precisa e consona. Abbiamo visto dove ha portato il viaggio degli anni ottanta, il cammino senza tregua (il Never Ending Tour) degli anni Novanta, dove Dylan sembrava davvero un salmone infaticabile, capace com' era di andare contro ogni stile, formula e soluzione che in quel momento sembrava essere paradigma e prerogativa di successo. Dylan ha fatto grande musica in ogni decade. Questo oggi è un fatto con cui certa critica e certi giornalisti hanno imparato a fare i conti. Perché cadono i miti, cadono i poster della nostra gioventù, ma il buon vecchio Bob resta saldamente in sella. 

Forse era lui quello che stava cercando salvezza. È rimasto aggrappato al suo credo, cambiando naturalmente, ma con una chitarra a tracolla e un’armonica ferita. Con una penna a volte gentile, a volte di fuoco e di furore. Oggi possiamo sorridere per tutte le recensioni che avevano dato per finito e condannato all’oblio un autore che non aveva ancora compiuto 40 anni. Certo, bisogna dire che all’epoca un musicista a quell’età era considerato sul viale del tramonto, per quanto concerne la musica popolare. Dylan però ha saputo tenere botta, prima di tutto alle sue convinzioni, poi al pubblico e alla critica. Dalla sua ha avuto uno zoccolo duro di seguaci che ha sempre sostenuto l’artista, fregandosene perfino dei dischi brutti, inutili o banali che avrebbe prodotto durante una fase della sua carriera musicale. 

Tuttavia Saved non rientra in questa categoria: qui ci sono grandi canzoni, ottime idee musicali e una band che suona come se avesse alle spalle il baratro della dannazione eterna. Una canzone su tutte? "What Can I Do for You?", naturalmente, dove l'assolo finale di armonica è redenzione pura.

Oggi un disco del genere verrebbe accolto come un capolavoro, di certo nessuno si sarebbe scandalizzato per le idee estreme del cantante, men che meno per chi è in sella da più di 30-40-50 anni. C’è gente che cambia atteggiamento, stile musicale, ideologia e religione. Oggi un disco come Saved potrebbe perfino passare inosservato, ammesso che ci siano artisti pronti a rischiare e a produrre musica come questa. Ok, Nick Cave e pochi altri. Così mentre i miti mutano pelle per sopravvivere a loro stessi, Dylan è ancora su quel palco diretto verso un altro show. Avrà tradito il pubblico e di sicuro ha più volte silenziato le critiche e la stampa, ma questo non ha alcuna importanza. Quello che conta adesso come allora è la musica. Saved sotto questo punto di vista raggiunge il suo obiettivo, vincendo a mani basse la sfida e la posta in gioco. 

Dario Greco