Analizzando la trilogia cristiana di Bob Dylan


Bob Dylan Gospel Years: i semi di una svolta spirituale

Quando si affronta la cosiddetta “trilogia religiosa” di Bob Dylan, ossia Slow Train Coming (1979), Saved (1980) e Shot of Love (1981), è impossibile comprenderne la portata senza riconoscere ciò che l’ha preceduta. Molti commentatori liquidano quel triennio come un’improvvisa conversione, un episodio isolato nella discografia del cantautore, ma la verità è più sfumata e, per certi versi, più intrigante. Gli indizi, i tremolii di inquietudine e le prime incrinature spirituali erano già percepibili in Street-Legal, il disco del 1978 che, pur non appartenendo formalmente alla fase cristiana, ne costituisce un fondamentale antefatto emotivo.

In Street-Legal Dylan appare logorato, teso, quasi sfiancato da una vita privata in frantumi e da un rapporto con la fama che non trova più un equilibrio. La sua voce, graffiata e insieme grandiosa, si adagia su arrangiamenti pieni, su una produzione talvolta caotica ma mai priva di intensità. Lì non emerge ancora il linguaggio esplicitamente biblico dei tre album successivi, tuttavia si avverte che l’autore sta interrogando se stesso, scavando per trovare una direzione oltre la crisi. Brani come “Changing of the Guards” o “Where Are You Tonight?” rivelano una tensione sotterranea verso un ordine superiore, una necessità di conversione intesa non solo in senso religioso, ma come gesto umano di sopravvivenza. In quel disco l’artista, pur inconsapevolmente, stava preparando il terreno per la trasformazione più radicale della sua carriera.

Slow Train Coming verso un' inattesa rivelazione

Quando Slow Train Coming uscì nell’agosto del 1979, il pubblico rimase spiazzato. Dylan, l’icona del controculturale, il poeta del disincanto e delle ambiguità, si presentava con una sicurezza dogmatica inedita. Ma ridurre Slow Train Coming a un semplice album “religioso” significherebbe mancare la sua grandiosità. È un’opera che fonde profondità biblica, rigore etico, groove rock e soul con una lucidità che pochi avevano previsto.

La produzione di Jerry Wexler e la presenza di Mark Knopfler alla chitarra contribuirono a un suono elegante, caldo, affilato. Eppure ciò che rende l’album unico è la forza espressiva del canto di Dylan: una voce tesa, squillante, in alcuni momenti quasi profetica. Brani come “Gotta Serve Somebody” o “When He Returns” mostrano una combinazione irripetibile di slancio spirituale e tensione morale, come se l’artista fosse diventato il tramite di una rivelazione inattesa e urgente. Non c’è ironia, non c’è gioco, non c’è travestimento: è Dylan allo scoperto, vulnerabile e insieme determinato.

Le critiche dell’epoca furono spesso feroci, accusandolo di predicare più che cantare. Ma con il senno di poi, Slow Train Coming si rivela un’opera coraggiosissima. È un album in cui un artista all’apice del proprio prestigio decide di mettere in discussione tutto ciò che il pubblico pensa di sapere su di lui. Nessun compromesso, nessuna carezza. Solo la fede come ultima forma di verità possibile.

Saved e Shot of Love: estremismo, grazia e contraddizione

Saved (1980) è probabilmente il capitolo più divisivo della trilogia. Rispetto all’eleganza di Slow Train Coming, qui Dylan sceglie una strada più cruda, più vicina al gospel puro, con una sincerità che può risultare spiazzante. È un disco attraversato da un fervore che confina con l’urgenza missionaria, una raccolta incendiaria di brani in cui la banda affonda nel ritmo, nei cori, nelle armonie spirituali come in una chiesa che vibra dalla prima all’ultima nota.

Se da un lato ciò rende Saved un lavoro di trascinante potenza emotiva, dall’altro ne limita la lettura secondo chi cerca la sua proverbiale ambiguità poetica. Ma è proprio questa assenza di ambiguità a renderlo audace: Dylan smette di parlare per metafore e sceglie la proclamazione. Un atto che, nel suo contesto culturale, è tra i più radicali immaginabili.

Con Shot of Love (1981), terzo capitolo della trilogia, l’artista abbandona almeno in parte il linguaggio categorico degli anni precedenti per riaccogliere dentro di sé tensioni e contrasti. È un album imperfetto, caotico, attraversato da energia rock e momenti di straordinaria ispirazione. Brani come “Every Grain of Sand” sono tra le vette assolute della sua discografia: una meditazione sulla fragilità umana e sulla presenza del divino che evita ogni dogma, tornando a una spiritualità poetica, più simile a quella del Dylan degli anni Sessanta. Il disco è un ponte tra due epoche: chiude il periodo di fuoco della conversione e prepara il ritorno a un'espressione più laica, ma senza rinnegare quanto vissuto.

In questo senso Shot of Love è l’album che riconsegna all’artista la sua complessità, dopo la stagione del fervore. È il capitolo in cui la fede non è più proclamata: è confessata.

Trouble No More: l'archivio rivelatore

La pubblicazione di The Bootleg Series Vol. 13: Trouble No More 1979–1981 nel novembre 2017 ha definitivamente ridisegnato la percezione della trilogia religiosa. Questo monumentale cofanetto contiene concerti, prove, versioni alternative e una serie di performance dal vivo che mostrano un Dylan completamente posseduto dal materiale che sta cantando. È forse la testimonianza più chiara di quanto quegli anni non fossero affatto una parentesi né un capriccio spirituale.

Nei concerti del periodo, raccolti con meticolosa cura in Trouble No More, Dylan appare scatenato, quasi trasfigurato. La band è una macchina da guerra, con una sezione corale di livello eccezionale e un suono che miscela rock, gospel e soul con una coesione che negli album ufficiali emerge solo in parte. Ciò che sorprende davvero è la qualità delle canzoni escluse dai dischi principali: brani come “Ain’t No Man Righteous” o “Blessed Is the Name” avrebbero reso più forte qualunque album se fossero stati inclusi.

Il cofanetto, arricchito da un filmato in stile documentario che cattura lo spirito del periodo, mostra un artista che ha trovato nella scena dal vivo la forma più compiuta della sua illuminazione. Qui Dylan non appare come un predicatore: è un performer consumato, energico, instancabile. Il pubblico dell’epoca era diviso, ma le registrazioni mostrano che la sua convinzione era autentica, radicata e tutt’altro che teatrale.

Trouble No More è dunque più di un archivio: è un’appendice rivelatrice che permette finalmente di giudicare la trilogia per ciò che era davvero, liberandola dai pregiudizi e restituendole la grandezza artistica che merita.

L’audacia di un artista che rifiuta di ripetersi

La trilogia religiosa resta oggi uno dei momenti più controversi e, al tempo stesso, più affascinanti della lunga carriera di Bob Dylan. Criticata, fraintesa, ridicolizzata per anni, è stata poi rivalutata come una delle sue stagioni più sincere e più estreme. L’audacia di Dylan non consiste solo nell’aver parlato apertamente di fede, ma nell’averlo fatto nel modo meno accomodante possibile, scegliendo la via della radicalità in un momento storico in cui sarebbe stato molto più semplice replicare il proprio successo con formule collaudate.

Ciò che colpisce, oggi più che mai, è che quell’audacia ha spalancato all’artista nuove strade creative. Slow Train Coming ha rinnovato la sua energia interpretativa. Saved ha rivelato una passione vocalica senza precedenti. Shot of Love ha segnato il ritorno alla complessità poetica. E Trouble No More ha definitivamente confermato che quella trasformazione non fu un incidente di percorso, ma un capitolo necessario, vissuto con dedizione totale.

La trilogia religiosa è, insomma, un frammento di identità che non somiglia a nessun altro musicista del Novecento. È Dylan che decide di non essere più Bob Dylan per qualche anno, scegliendo il rischio più grande che un artista possa permettersi: essere se stesso senza mediazioni.

Una parentesi che resta, come tutto ciò che brucia davvero

E alla fine, tornando su questa trilogia che continua a dividere perfino i dylaniani più incalliti, quello che rimane non è la teologia, non è la predica, non è il dogma. Rimane l’uomo. Rimane la voce di un artista che ha provato a resistere al proprio stesso mito lanciandosi in un territorio dove nessuno lo voleva seguire, e dove forse nemmeno lui pensava di arrivare. Riascoltandola oggi, questa fase cristiana non suona più come un’eresia dentro la sua discografia: suona come uno di quei passaggi obbligati, duri e necessari, che tutti attraversiamo quando la vita decide di ricordarci che non siamo invincibili. Dylan ci è passato facendosi male, scontrandosi col pubblico, con la critica, con l’idea stessa di Bob Dylan. Ma lo ha fatto con una purezza che oggi appare quasi commovente. E allora viene da pensare che sì, forse aveva ragione lui: ci sono treni lenti che arrivano una sola volta, e se non li prendi rischi di restare per sempre sospeso tra ciò che eri e ciò che non sarai mai più. Questa trilogia è uno di quei treni. E Dylan, con la sua solita follia visionaria, ci è salito senza voltarsi indietro.

Testo a cura di Dario Greco


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