venerdì 5 febbraio 2010
Recensioni dylaniane - Together Through Life
Bob Dylan è tornato ancora una volta, al suo meglio, come non faceva ormai da dodici anni. Questo nuovo lavoro è infatti la migliore produzione dylaniana dai tempi di Time out of mind (e Oh Mercy) “Forgetful Heart” è quello che si dice un brano epocale, uno dei migliori ruggiti del decennio da parte del cantautore statunitense. Un brano che convince sin dalla prima nota e dal primo verso, chi meglio di Dylan potrebbe cantare di questo Cuore smemorato, nessuno saprebbe essere così convincente oggi, tranne forse il miglior Tom Waits.
Dylan ha scoperto il gusto dell’auto citazione, e Forgtful Heart richiama con vigore alle passate incisioni di Time out of mind, Oh mercy e Modern Times. E lo fa con maggiore intensità e con un dono di sintesi espressiva e lirica che forse era mancata in Modern Times, prendiamo ad esempio il brano Ain ’t Talkin’ e sovrapponiamolo a questa Forgtful Heart: nove minuti contro i quasi quattro di Forgetful. Il banjo appalachiano di Herron, la fisarmonica zydeco di Hidalgo e la chitarra a saturazione valvolare di Campbell creano un connubio di nervi, sangue e sabbia, in bilico fra aria e fuoco. Prodotto da un quasi settantenne con mano grintosa e professionale, manco ne potesse dipendere il proprio sostentamento.
Solo “If you ever go to Houston” (che ricorda Midnight Special) annoia a tratti, coi suoi abbondanti cinque minuti, il resto è un capolavoro di sintesi, superiore a Love and Theft e paragonabile al solo Oh Mercy, per quanto riguarda la produzione negli ultimi vent’anni del Nostro. In questo disco si sentono echi da Desire, Pat Garrett & Billy The Kid, Time out of Mind…
La fisarmonica di Hidalgo e la chitarra di Campbell colorano panorami di sole e terra, come non si sentiva da tempo… C’è energia che non ti aspetti su All Good e Beyond Here lies Nothin’, e c’è grande vigore sonoro anche nella ballata di I Feel a change comin’on, ancora un’auto citazione proveniente forse dai mitici Basement tapes o da Planet Waves…
E' molto bello che Dylan riscopra con grande passione l’amore di questo strumento così legato alla tradizione della musica latina… i Calexico, che tanto bene avevano suonato le canzoni d Dylan sulla colonna sonora di I’ m not there, a pensarci
bene sembrava quasi una imbeccata al maestro quella ad opera di Todd Haynes & Company (non a caso nella colonna sonora c’era anche David Hidalgo coi suoi Los Lobos in una saporita riproposta zydeco di Billy #1, e gia presente anche in Masked and Anonymous) E’ musica di confine, fra il Messico e la redenzione… E non a caso si è parlato per questo disco della vicinanza fra Dylan e Willy DeVille… E ancora una volta ci troviamo do fronte a questa figura della porta: aperta, chiusa o immaginaria…
Uno dei momenti più convincenti del disco è It’s all good, dove energia, ironia e rinuncia confluiscono nel grande fiume dell’ispirazione dylaniana, mentre intorno
a lui i palazzi crollano e il pianto delle vedove si mescola al sangue degli orfani… Le svisate di basso in stile The Band ci accompagnano in uno dei brani più significativi dell’opera, quella I Feel a change comin’on, che ci fa ben sperare in un possibile seguito di questo lavoro.Ed un brano che speriamo di ascoltare presto anche in versione live…
Cambiano le cose, cambiano i suoni e tutto sembra diverso. Però poi un voce, familiare, comprensibile arriva nelle nostre case, macchine, Ipod e tutto il resto...
E’ il nuovo disco di Bob Dylan, e soprattutto e' la voce autentica dell'America che fu... La voce di una rara e devastata umanità che sembra vacillare, ma non cede di un millimetro... perché quella voce non può cantare la resa, e neppure il crepuscolo degli Eroi... e' la voce della Gente, e' la voce di una generazione che ancora non cede il passo alla sconfitta...
Come ha detto RJ Eskow “Oggi Dylan non fa musica, lui è la musica!” Come dice Roy Menarini a proposito di Gran Torino, c’è un filo sottile che unisce la letteratura di Cormac McCarthy, il cinema di Clint Eastwood e i dischi di Dylan, sono questi autori gli ultimi bardi della “mitografia” di una Nazione… I dischi della Sun Records e della Chess, Elvis e Muddy Waters, Memphis e Chicago, Otis Rush e All your love, Willie Dixon e I Just Want To Make Love To You, Sam Cooke e A change is gonna come; insomma sembra davvero che ci sia il sangue del Paese nella sua voce! Dylan canta con la consapevolezza del sopravvissuto, al proprio mito, all’America dei Faulkner e dei Twain, di Melville e di Masters, è lui probabilmente l’ultimo discendente di una stirpe ormai estinta di cantastorie...
David Hidalgo suona frasi di fisarmonica a mezza strada fra i trilli d’organo di Al Kooper e la senile e sontuosa mano di Auggie Meyers… ma non è solo la fisarmonica l’arma vincente di questo disco, le chitarre trattenute e distorte ad opera di Mike Campbell, sono cuciture di cuoio essenziali nel loro ricamo avvolgente…
La seconda metà del disco si avvicina lentamente a pagine passate più elettriche e aggressive: c’è una maggiore presenza della chitarra elettrica e alla fisarmonica si sostituisce lentamente un violino country (in “This dream of you”) che non può che richiamare alla mente l’intensissimo e danzante “Desire” del ’76 (e in particolare Romance in Durango) ma anche le ballate meticcie del compianto Willy De Ville.
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