mercoledì 28 dicembre 2022

Down in the Groove (1988)


Ugliest Bob in the World

Scrive Joel Selvin, critico musicale del San Francisco Chronicle: “Bob Dylan ha fatto parecchi cattivi dischi. Ora i cattivi dischi sono il frutto del tentativo di realizzare buoni album. Bob Seger e Tom Petty probabilmente non hanno mai fatto dischi cattivi. Ma non hanno realizzato neanche un grandissimo album nella loro longeva attività discografica. Hanno prodotto invece buoni, ottimi dischi. Sul fatto che Knocked Out Loaded possa essere considerato il suo peggior album, ci sarebbe parecchio da discutere. Possiamo però pacificamente riconoscere che si tratti di uno dei sui peggiori 10 lavori in studio. Magari non è il peggiore in assoluto, ma di certo sta a fondo classifica.”

Ho scelto di iniziare questo commento retrospettivo dedicato a Down in the Groove, facendo un piccolo passo indietro. Premetto che questo non sarà un pezzo semplice da scrivere e di conseguenza neppure da leggere e da fruire, specialmente da dispositivo mobile. Il punto è che trovo davvero troppo semplice e riduttivo bollare questi dischi (che sono giustamente considerati minori) come se fossero cose di poco conto, nella carriera di un artista importante, unico e geniale come Bob Dylan. Specialmente perché questo specifico disco, pubblicato il 30 maggio 1988, segna in un certo senso la conclusione degli “anni ottanta” per il suo autore. Anni ottanta, tra virgolette, perché a questa definizione attribuiamo la fase più oscura, sottostimata e gestita male, dal cantautore statunitense. Eppure il 1988 per chi conoscerà un minimo la vicenda umana e la carriera professionale di Dylan, mostra una svolta fondamentale, in termini retrospettivi. Il motivo è piuttosto evidente. Appena 8 giorni dopo la pubblicazione di Down in the Groove, (disco di cui parlerò più avanti) il suo autore decide di partire per un nuovo tour. 

E il tour è quello che oggi conosciamo come NET: Never Ending Tour.

Secondo alcune tesi, questa tournée durerà 135 date, ma per molti non è ancora terminata. A causa del Covid-19, Dylan è stato fermo ai box 2 anni, ma appena ha avuto la possibilità, è tornato in giro, con un tour mondiale che avrà termine (si ipotizza) nel 2024. Scaramanzia e cabala a parte, da quel 1988, Dylan è tornato a interpretare il ruolo di assoluto protagonista nei live acts. Piaccia o meno, questa è la data a cui fare riferimento. Questo è il disco che segna una nuova tappa, fondamentale. Sotto un certo punto di vista la carriera dell’artista deve molto a quello che comprensibilmente è considerato il suo lavoro peggiore. Non sono qui per interpretare l’avvocato del diavolo, dato che nemmeno mi piace questo album, ma gli andrebbe riconosciuta una qualità intrinseca, che forse nemmeno i lavori più incensati della critica possiedono. Rolling Stone, così tanto per cambiare, nel 2007 attribuisce a Down in the Groove la scomoda etichetta di peggior disco di Dylan. Come afferma Alan Light, critico newyorkese, se sei un vero appassionato o uno studioso della carriera di Dylan, questo è il lavoro più ingannevole, ragione per cui è comprensibile trovare i brutti dischi tanto interessanti. Perché ci raccontano qualcosa in più della storia. E dopo aver esaminato quello che viene prima, dopo e durante (in questo caso) anche un album difettoso è ancora importante.

Diciamo che con Dylan è possibile frammentare e unire il corpus discografico, ma resta il fatto che è il totale, la somma delle differenti parti, che diventa interessante rispetto alla specificità dei singoli dischi. Abbiamo già raccontato di quel magnifico e proverbiale colpo di coda che è stato Oh, Mercy, disco prodotto e firmato da Daniel Lanois nel 1989, ma troviamo che in questa occasione sia più interessante e divertente vedere in che modo i cattivi dischi sono cattivi, che cosa hanno rappresentato all’epoca, come vanno giudicati e catalogati adesso. Oltretutto per chi non lo conoscesse, stiamo parlando di un disco che dura appena 30-32 minuti. Che Dylan negli anni ottanta fosse artisticamente apatico è questione di opinioni, ma il fatto che avesse rallentato nel ritmo compositivo è invece un dato di fatto.

Down in the Groove certifica questo aspetto, visto che troviamo nella raccolta di brani solo quattro canzoni autografe, di cui due sono scritte a quattro mani con Robert Hunter. Il paroliere dei Grateful Dead tornerà più avanti a comporre assieme a Dylan Together Through Life, album del 2009. Non solo: uno dei quattro brani autografi è un outtake risalente a Infidels, disco del 1983. Si tratta di Death is not the end, brano che verrà riproposto più avanti da Nick Cave, il quale darà alla canzone una seconda vita e una certa dignità artistica che forse nella versione originale non possiede.

Forse non bisognerebbe limitarsi ad analizzare unicamente i brani autografi, dove comunque troviamo "Silvio", canzone che mette in evidenza un Dylan performer divertito e divertente, che ribadisce una delle sue qualità a molti forse un po' nascosta. Quella rara capacità di essere autore divertente e interprete spigliato e agile. Già l’agilità considerata unicamente come qualità e virtù, aspetto secondario e poco valutato per un autore che in passato aveva composto brani epici e monumentali come Desolation Row, Lily, Rosemary and the Jack of Hearts o Sad Eyed Lady of the Lowlands. Ho scelto proprio queste tre canzoni, tra le tante, perché sommando la durata si arriva a trentuno minuti. La stessa durata di questo trascurabile Down in the Groove. Album che contiene appunto quattro brani autografi, tra cui la terribile Ugliest Girl in the World, senza dubbio la peggiore canzone scritta dal cantautore.

Scrive Calvino nelle sue Lezioni americane: "La rapidità dello stile e del pensiero vuol dire soprattutto agilità, mobilità, disinvoltura, tutte qualità che si accordano con una scrittura pronta alle divagazioni, a saltare da un argomento ad un altro, a perdere il filo cento volte e ritrovarlo dopo cento giravolte." Dylan, autore di canzoni conosce bene il significato di rapidità e disinvoltura. Sono queste le ragioni per cui la sua penna è sempre occupata, il suo piede sempre svelto, parafrasando Forever Young. "Silvio" ci mostra che il Dylan autore e quello performer godono di buona salute, in questo 1988. Ed è pur vero come il disco mostri un cantautore in evidente difficoltà compositiva. Era dal lontano 1970, anno in cui pubblica Self Portrait, che Dylan non pubblica un disco infarcito di cover, brani tradizionali o composizioni di altri autori. Eppure qualcosa si smuove. Perché sotto il nome di Traveling Wilburys, pubblica assieme a George Harrison, Tom Petty, Roy Orbison e Jeff Lynne, uno dei suoi più grandi successi commerciali del periodo. Un altro colpo di coda, nel quale spiccano brani come Tweeter and the Monkey Man, Congratulations e Dirty World. Così quella che potrebbe risultare l’ennesima parentesi, di fatto getterà le basi per un nuovo, ennesimo ritorno, in grande stile. Archiviati questi goffi tentativi di collaborazioni con Grateful Dead, Tom Petty, Stones e addirittura con membri dei Sex Pistols, (nel brano Sally Sue Brown, figura nei crediti il chitarrista Steve Jones) Dylan torna ancora una volta a casa.

Attingendo dalla migliore vena compositiva, darà alle stampe un disco maturo, triste e concentrato come Oh, Mercy. Perché la festa degli anni ottanta volge al termine. Inizia una nuova decade dove il Political World avrà ancora bisogno dei versi di Bob Dylan. Come diceva (più o meno) Franco Battiato nella canzone: Mister Tamburino, non ho voglia di scherzare, rimettiamoci la maglia, i muri stanno per crollare!


Dario Greco



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