A proposito di Shot of Love


Analisi testuale, musicale e contestuale del brano Shot of Love

“Shot of Love”, brano che dà il titolo al ventunesimo album di Bob Dylan pubblicato nel 1981, rappresenta uno dei momenti più intensi e nervosi della sua produzione nei primi anni Ottanta. È il capitolo conclusivo della cosiddetta trilogia cristiana, ma è soprattutto un disco di transizione, un’opera che segna il passaggio dal fervore evangelico più ortodosso di Slow Train Coming (1979) e Saved (1980) verso un linguaggio più ambiguo, più terreno, più contaminato dalla carne e dalle sue contraddizioni. In questo quadro, la title-track è sia una dichiarazione di poetica sia una sorta di autoritratto spirituale.

Sul piano testuale, “Shot of Love” è una preghiera che diventa blues, un’invocazione che si trasforma in rock febbrile. Dylan parte da un’idea semplice e potente: il mondo offre ogni possibile “cura” chimica o anestetica — parish, turpentine, codeine, whiskey — ma nessuna di queste risponde al bisogno autentico, che è interiore, morale e soprattutto emotivo. Il “colpo d’amore” non è romanticismo, ma redenzione: una rigenerazione che non ha nulla a che vedere con l’abuso di sostanze e con i surrogati che la modernità propone. Il brano, infatti, costeggia continuamente la linea di confine tra spiritualità e disperazione, mettendo in scena un io narrante insofferente, perseguitato, minacciato da nemici concreti e simbolici. Nella strofa più dura — “You’ve only murdered my father, raped his wife, tattooed my babies with a poison pen” — Dylan si affida a un linguaggio biblico e apocalittico, ma lo trasporta in un contesto urbano, quasi noir, dove l’invettiva contro il male si fa fisica, diretta, violentemente terrena.

Musicalmente “Shot of Love” prende le distanze dal gospel puro dei due dischi precedenti e abbraccia una forma più rock, più elettrica, più asciutta. È un ritorno alla chitarra distorta, all’organo che serpeggia come nervo scoperto, a una sezione ritmica serrata che non lascia respiro. Questa scelta non è casuale: Dylan non vuole più predicare dall’altare, ma gridare in mezzo al caos. Il brano è prodotto da Bumps Blackwell, storico collaboratore di Little Richard, e si sente: c’è un’energia primordiale, una ruvidità da rock’n’roll anni Cinquanta che si sposa con un nervosismo tipicamente dylaniano. È un gospel senza chiesa, un sermone sporco di polvere.

Per capire “Shot of Love” bisogna però inserirlo nel contesto dell’intero album e della fase biografica dell’autore. Il disco, pubblicato il 12 agosto 1981, è considerato l’ultimo episodio della trilogia cristiana, ma i suoi arrangiamenti guardano molto più al rock che al gospel. All’epoca dell’uscita fu accolto in modo contrastante: Paul Nelson su Rolling Stone criticò aspramente l’opera, salvando soltanto “Every Grain of Sand”, mentre in Gran Bretagna raggiunse il numero 6 in classifica e vendette oltre 60.000 copie. Negli Stati Uniti la performance fu più modesta, segno che la fase religiosa di Dylan aveva ormai stancato una parte del pubblico. Eppure Bono degli U2 ha definito Shot of Love uno dei suoi dischi preferiti, soprattutto per la forza vocale di Dylan.

Le sessioni di registrazione furono complesse, frammentate, spesso frustranti. Dylan provò diversi produttori e diversi studi, passando da Santa Monica a Los Angeles senza trovare il suono desiderato. Brani come “Caribbean Wind” e “Angelina” furono tentati ripetutamente, ma il risultato non lo soddisfece. Solo l’incontro con Chuck Plotkin — che aveva lavorato con Springsteen — portò a una certa stabilità, anche se i due entrarono spesso in conflitto durante il missaggio. Paradossalmente, molte delle versioni pubblicate sul disco non sono mix definitivi, ma monitor mixes, cioè tracce provvisorie che Dylan ritenne più autentiche e meno levigate.

Il contesto sociale dei primi anni Ottanta è fondamentale: l’America post-Vietnam, post-Watergate, ora segnata dall’ascesa di Reagan, è una società che ha perso fiducia, che vive un ritorno massiccio alla religione ma anche una disillusione etica diffusa. Dylan è pienamente dentro questa frattura: da un lato conserva l’impulso evangelico, dall’altro sente di nuovo l’irrequietezza del rocker insofferente verso le istituzioni, la politica, le ideologie e le soluzioni facili. “Shot of Love” è un brano di crisi spirituale, non di certezza: la fede non è più un rifugio, ma un’ossessione tormentata.

Il disco, del resto, rappresenta la fusione imperfetta ma affascinante tra il Dylan predicatore e il Dylan visionario. Accanto alla rabbia della title-track troviamo brani di realismo emotivo come “Heart of Mine”, invettive religiose come “Property of Jesus”, omaggi strani e intensi come “Lenny Bruce”, meditazioni estive (“In the Summertime”), parabole morali (“Watered-Down Love”) e blues apocalittici (“Dead Man, Dead Man”, “Trouble”). E poi, come sigillo finale, “Every Grain of Sand”, una delle sue composizioni più pure, un salmo laico sulla fragilità umana, spesso paragonato per universalità a “Blowin’ in the Wind”. 

Every Grain of Sand rappresenta uno dei vertici assoluti della fase spirituale di Dylan, e segna già un movimento oltre la rigidità dottrinale dei primi due dischi della trilogia cristiana. Qui la religiosità non è più proclamata, né lanciata come ammonimento profetico, ma interiorizzata, scavata, resa contemplativa. Il riferimento più evidente, e volutamente dichiarato, è alla poetica visionaria di William Blake, in particolare ai celebri versi di Auguries of Innocence (“To see a World in a Grain of Sand / And a Heaven in a Wild Flower”). Dylan riprende questa intuizione mistica – la totalità racchiusa nel frammento, il divino che pulsa nella materia più minuta – e la trasforma in una confessione autobiografica, fragile e luminosa allo stesso tempo.

Nel brano la natura assume un valore sacramentale: il volo del ghiaccio nell’aria, il battito delle ali degli insetti, le tracce lasciate da Dio in ogni granello di sabbia diventano rivelazioni, indizi di un ordine superiore che l’io lirico tenta di decifrare mentre affronta la consapevolezza del peccato, della colpa e del proprio smarrimento morale. È un Dylan vulnerabile, quasi penitente, che non punta più il dito ma osserva sé stesso con uno sguardo più morbido, fallibile, umano. La melodia minimalista, sostenuta appena dal pianoforte e da un’armonica che ritorna al suo soffio più intimo, amplifica questa dimensione contemplativa.

Detto ciò, “Shot of Love” resta il cuore pulsante del disco: un pezzo che tiene insieme desiderio di redenzione, rabbia, paranoia, fragilità e un bisogno insopprimibile di autenticità. È il suono di un uomo che ha attraversato l’estasi e ora ritorna tra gli uomini, con la voce spezzata ma ancora assetata di verità. Se Slow Train Coming aveva introdotto il viaggio spirituale, Shot of Love mostra il momento in cui il viandante si ferma, guarda il cielo, e grida non più per convertire gli altri, ma per salvarsi da solo.

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