Infidels: Dylan e il ritorno al mondo
Bob Dylan e il ritorno al mondo: analisi critica di Infidels
Quando Infidels esce nel novembre del 1983, Bob Dylan sta uscendo dalla sua trilogia cristiana: dopo Slow Train Coming, Saved e Shot of Love, la sua produzione aveva assunto toni apertamente dottrinali, profetici, a tratti apocalittici. Infidels rappresenta, in questo senso, una svolta: non un abbandono della spiritualità, ma un ritorno al mondo, alla storia, alla complessità politica del presente, filtrata attraverso una scrittura allegorica e simbolica molto più ambigua rispetto agli anni immediatamente precedenti. È un disco di transizione, ma anche uno dei più incisivi della sua fase anni Ottanta.
Fondamentale nella costruzione dell’album è la presenza di Mark Knopfler, che produce e suona la chitarra con un’eleganza tersa, cristallina, riflesso dell’estetica sonora dei Dire Straits ma calibrata sulle esigenze di Dylan. Accanto a lui c’è una sezione ritmica straordinaria: Sly Dunbar alla batteria e Robbie Shakespeare al basso, il celebre duo giamaicano Sly & Robbie, capace di creare pulsazioni morbide, elastiche, che introducono nella musica di Dylan una modernità ritmica inedita. Le tastiere di Alan Clark (Dire Straits) e di Benmont Tench (Heartbreakers) aggiungono profondità, mentre Mick Taylor, ex Rolling Stones, offre linee chitarristiche dal gusto blues-rock più sporco e nervoso.
L’incontro fra queste anime – rock, reggae, blues, folk, pop – genera un suono che non assomiglia a nessun altro disco del periodo.
Jokerman inquietudine biblica e modernità frammentata
Jokerman apre l’album con un enigma in forma di canto leggero. Il groove di Sly & Robbie, flessibile e ipnotico, dà al brano un respiro quasi caraibico, mentre la chitarra di Knopfler disegna arabeschi fluidi che rendono il clima sospeso, visionario. Il testo è uno dei più intricati degli anni Ottanta: il “Jokerman” è figura ambigua, a metà fra profeta, trickster, messia mancato e intellettuale postmoderno. Dylan gioca su un immaginario biblico che si intreccia con la geopolitica contemporanea: dall’antica sapienza (“You’re a man of the mountains”) ai simboli della tentazione, dall’ironia sulle ideologie fino allo sguardo disincantato su un’umanità confusa.
La forza del brano sta nella sua ambivalenza: non esiste una chiave univoca. I riferimenti religiosi non sono più catechetici ma archetipici; la critica politica è accennata, non proclamata; il mondo appare come un teatro di illusioni dove l’unico personaggio in grado di attraversarlo è proprio questo Jokerman, figura poetica indecifrabile, emblema perfetto della fase dylaniana.
Sweetheart Like You la tentazione, il potere, l’ambiguità del desiderio
In Sweetheart Like You, Dylan torna a un linguaggio più diretto, ma non meno sfaccettato. Musicalmente è un soul-pop molto raffinato: la chitarra di Knopfler cesella arpeggi e bending di una purezza quasi liquida, mentre Alan Clark dà colore con tastiere vellutate che collocano il brano in un crocevia fra ballata romantica e riflessione sociale.
Il testo si gioca su una duplicità sottile: sembra un dialogo intimo con una donna, ma in realtà è una riflessione sul potere, sulla seduzione dell’ideologia e sulla corruzione morale. La famosa strofa “A man’s gotta be careful in this kind of place” suggerisce un ambiente minaccioso, forse politico, forse religioso, forse urbano. Dylan osserva la frattura tra apparenza e verità, tra desiderio e pericolo.
La spiritualità è ancora presente, ma filtrata: non è più il centro ma un metro di misura morale.
License to Kill critica all’umanità tecnologica
License to Kill è uno dei brani più politicamente espliciti del disco. Qui la critica di Dylan è diretta: l’uomo moderno, arrogante e autodistruttivo, ha perso contatto con la natura e con il sacro. La melodia è limpida, costruita su un folk-rock classico ma impreziosito da tocchi di Benmont Tench al pianoforte. Mick Taylor aggiunge una chitarra dal fraseggio blues che esalta la drammaticità del testo.
Il verso “Now he worships at an altar of a stagnant pool” è emblematico: Dylan denuncia la stagnazione culturale, l’idolatria del progresso fine a sé stesso, la perdita di una bussola morale. Il brano nasce nel pieno degli anni Ottanta, segnati dalla Guerra Fredda, dal riarmo nucleare, dal trionfo del neoliberismo e da un’industrializzazione incontrollata: un contesto nel quale la canzone risuona come un ammonimento profetico ma lucidamente terreno.
I and I mistica rastafariana e identità spezzata
Con I and I, Dylan entra nel territorio del reggae spirituale, grazie alla pulsazione irresistibile di Robbie Shakespeare e alla batteria elastica di Sly Dunbar. L’atmosfera è notturna, misteriosa, vagamente sacrale. Il titolo richiama la teologia rastafariana, dove l’“I and I” esprime l’unità dell’individuo con Dio e con la comunità spirituale.
Dylan però non adotta questa visione in maniera dogmatica: la trasforma in un dialogo interiore, un confronto con le proprie ombre. “Someone else is speakin’ with my mouth, but I’m listening only to my heart” è uno dei versi più intimisti della sua carriera. La canzone è un viaggio identitario, pieno di fratture, in cui il protagonista sembra diviso fra il ruolo pubblico e l’io privato, fra fede e dubbio, fra destino e responsabilità.
Musicalmente è una delle prove più originali dell’album: il reggae filtrato dalla sensibilità folk-blues americana crea un ponte culturale raro e sorprendente.
Don’t Fall Apart on Me Tonight preghiera laica nel cuore degli anni Ottanta
La chiusura del disco, Don’t Fall Apart on Me Tonight, è una ballata intensa che richiama certe atmosfere classiche dylaniane ma con una produzione morbida, quasi AOR, che però non ne smorza la forza emotiva. Benmont Tench, con un pianoforte delicato ma incisivo, dà al brano una dimensione elegiaca, mentre Knopfler lo avvolge con una chitarra che sembra respirare.
Il testo è una supplica, un tentativo di trattenere ciò che si sta perdendo. Può essere una relazione sentimentale, un’amicizia, ma anche una metafora della fede o del mondo stesso che sembra sfaldarsi. Dylan è vulnerabile, meno enigmatico del solito: la voce ruvida, spezzata, dice molto più delle parole.
Le sessions di Infidels sono famose per ciò che non è finito nel disco. Alcuni brani esclusi sono considerati tra le migliori incisioni di Dylan degli anni Ottanta:
Blind Willie McTell
Capolavoro assoluto. Una storia del blues, del Sud degli Stati Uniti, della schiavitù, del dolore che attraversa la cultura americana. Piano, chitarra slide e una voce monumentale: Dylan canta come un testimone della storia. “Nobody can sing the blues like Blind Willie McTell” non è solo un omaggio, ma una presa di coscienza: il blues è la matrice dell’intera cultura popolare americana.
Foot of Pride
Un sermone feroce, elettrico, pieno di immagini bibliche e invettive sociali. È la versione più dura del Dylan predicatore, ma filtrata da una raffinatezza lessicale impressionante. Ritmo incalzante, voce tagliente, testo di una complessità quasi profetica.
Someone’s Got a Hold of My Heart
È il prototipo della futura Tight Connection to My Heart, ma molto più spontanea, sensuale, viva. Una pop song ricca di sfumature e di malinconia, con un Dylan sorprendentemente espressivo.
Lord Protect My Child
Una delle canzoni più tenere e sincere mai scritte da Dylan. Una preghiera per il proprio figlio, spirituale ma non dogmatica. Pianoforte caldo, voce fragile: un’intimità rara.
La scelta di escludere questi brani è spesso considerata controversa: molti critici ritengono che un album contenente Blind Willie McTell e Foot of Pride avrebbe avuto il peso di un classico indiscutibile. Tuttavia Infidels è oggi apprezzato proprio per la sua ambiguità, per la sua natura di opera in transizione, per il contrasto tra ciò che è stato pubblicato e ciò che è rimasto ai margini.
Infidels è un disco liminale: segna il ritorno al mondo dopo la religiosità esplicita, ma non perde la profondità spirituale. Introduce elementi reggae, rock-blues e pop moderno senza tradire la scrittura poetica. Mostra un Dylan che osserva la politica mondiale con sguardo scettico, che mette in discussione l’umanità tecnologica, che indaga la fragilità dell’individuo.
È anche un album di suono: Knopfler, Sly & Robbie, Mick Taylor, Clark e Tench costruiscono paesaggi musicali che amplificano la complessità dei testi, rendendo Infidels una delle prove più suggestive dell’epoca.
Le outtakes aggiungono una dimensione parallela, quasi un “Infidels nero”, più profondo e più radicale.
Nel suo insieme, il disco rappresenta una delle più importanti metamorfosi della carriera di Bob Dylan: non un ritorno al passato, ma un ingresso inquieto e affilato nel decennio più contraddittorio della modernità. Uno dei lavori più enigmatici, stratificati e culturalmente densi della sua discografia.
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