Bob Dylan: The Great American Songbook
Shadows in the Night, pubblicato nel febbraio 2015 e oggi giunto al decimo anniversario, inaugura questa fase con una scelta che appare subito controintuitiva. Dylan incide esclusivamente brani associati al repertorio di Frank Sinatra, ma lo fa evitando qualsiasi riferimento esplicito alla tradizione orchestrale che aveva reso celebri quelle canzoni. L’album si concentra su composizioni di Jerome Kern, Harold Arlen, Irving Berlin, Cole Porter, Johnny Mercer, Cy Coleman, mostrando una predilezione per il periodo compreso tra gli anni Trenta e Cinquanta, il cuore pulsante del Great American Songbook. Tuttavia, l’elemento davvero distintivo non è la selezione dei brani, ma il modo in cui vengono svuotati di ogni retorica sentimentale.
Gli arrangiamenti, curati dalla band storica che accompagna Dylan dal periodo di Tempest, sono essenziali, spesso ridotti a pochi strumenti: pedal steel, chitarre elettriche suonate con estrema discrezione, contrabbasso, batteria appena accennata. Donnie Herron gioca un ruolo centrale con steel guitar e violino, mentre Tony Garnier e George Receli costruiscono una sezione ritmica che non accompagna, ma respira. Non c’è mai l’impressione di un tempo imposto: le canzoni sembrano galleggiare, sospese. Brani come “I’m a Fool to Want You”, “Why Try to Change Me Now” o “Autumn Leaves” vengono privati di ogni slancio melodrammatico e riportati a una dimensione intima, quasi confessionale. Dylan canta spesso sottovoce, con una dizione spezzata, lasciando che le frasi si sfilaccino, che le parole perdano peso semantico per acquisire peso esistenziale.
In questa prima tappa del progetto, Dylan sembra interessato soprattutto a esplorare il tema della perdita, non come evento narrativo, ma come condizione permanente. Le canzoni non raccontano storie compiute, ma stati d’animo sedimentati. La voce, ormai profondamente segnata, diventa uno strumento di verità: non cerca bellezza, ma precisione emotiva. È qui che il confronto con Sinatra, pur inevitabile, risulta secondario. Sinatra incarnava l’idea di controllo, di padronanza assoluta del fraseggio; Dylan, al contrario, lavora sull’instabilità, sull’erosione del canto. Dove Sinatra costruiva una maschera interpretativa, Dylan la dissolve.
Con Fallen Angels, pubblicato nel maggio 2016, Dylan amplia il raggio d’azione mantenendo però la stessa estetica di fondo. Il repertorio include nuovamente standard noti, tra cui “Young at Heart”, “All the Way”, “Polka Dots and Moonbeams”, ma il clima generale si fa leggermente più luminoso, almeno in superficie. Se Shadows in the Night era dominato da un senso di chiusura notturna, Fallen Angels introduce una dimensione più aperta, talvolta persino ironica, pur restando fedele a un approccio sottrattivo.
Dal punto di vista musicale, il disco consolida l’identità sonora del progetto. Gli arrangiamenti restano minimalisti, ma più elastici. La band suona con una naturalezza quasi jazzistica, pur senza mai sconfinare in veri e propri stilemi jazz. È una musica che sembra sempre sul punto di crollare, e proprio per questo mantiene una tensione costante. In “Melancholy Mood” o “Skylark”, Dylan lavora sul contrasto tra testi intrisi di romanticismo e una resa vocale che ne evidenzia la fragilità intrinseca. La giovinezza evocata nei testi non viene celebrata, ma osservata da una distanza incolmabile.
È significativo che Fallen Angels esca nello stesso anno in cui Dylan riceve il Premio Nobel per la Letteratura. L’annuncio arriva nell’ottobre 2016, tra questo album e Triplicate, e contribuisce a ridefinire retroattivamente il senso dell’intero progetto. Mentre il mondo celebra Dylan come poeta e autore, lui insiste nel non scrivere nuove canzoni, dedicandosi invece a interpretare materiali altrui. Questa scelta, lungi dall’essere una fuga, appare come un gesto profondamente coerente: Dylan ribadisce che la canzone americana è un organismo collettivo, che la letteratura non nasce solo dall’atto individuale della scrittura, ma anche dalla trasmissione, dalla reinterpretazione, dalla memoria condivisa.
Triplicate, pubblicato nel marzo 2017, rappresenta il culmine e la conclusione di questa fase. Con i suoi tre dischi e trenta brani, l’album assume un carattere enciclopedico, pur mantenendo una sorprendente coerenza interna. Dylan organizza il materiale secondo un criterio tematico piuttosto che cronologico: il primo disco è dominato da canzoni di amore e desiderio, il secondo da riflessioni più oscure e notturne, il terzo da un senso di commiato e distacco. È come se Triplicate funzionasse da summa emotiva del Great American Songbook, filtrata attraverso una sensibilità contemporanea e disincantata.
Qui Dylan sembra prendersi ancora più tempo. I tempi si allungano, le pause diventano parte integrante della struttura, la voce si muove con una libertà quasi parlata. Brani come “As Time Goes By”, “Stormy Weather”, “Sentimental Journey” o “That Old Black Magic” vengono svuotati di ogni patina nostalgica e restituiti come meditazioni sul tempo che passa. Il titolo stesso, Triplicate, suggerisce un gioco di riflessi: non copie, ma variazioni, come se ogni canzone fosse una stratificazione di interpretazioni precedenti, tutte presenti e nessuna definitiva.
Dal punto di vista storiografico, questi tre dischi obbligano a ripensare il rapporto tra Dylan e la tradizione americana. Dylan non si pone come erede diretto di Sinatra, né come suo antagonista. Sinatra è piuttosto un punto di passaggio storico, una figura che ha contribuito a canonizzare quel repertorio, fissandone alcune versioni come definitive. Dylan, invece, lavora in senso opposto: de-canonizza. Restituisce alle canzoni la loro instabilità originaria, ricordando che molte di esse nascevano come materiali flessibili, adattabili, pensati per essere reinventati.
È importante sottolineare come Dylan eviti deliberatamente qualsiasi virtuosismo vocale. La sua interpretazione non cerca mai di “fare bella figura”. Al contrario, espone limiti, incertezze, crepe. In questo senso, la sua operazione è profondamente politica, anche se non ideologica. In un’epoca dominata dalla nostalgia spettacolarizzata, Dylan rifiuta il comfort della rievocazione rassicurante. Le sue versioni non consolano, ma interrogano. Non riportano a un passato idealizzato, ma mettono in scena il presente di un interprete che guarda indietro sapendo di non poter tornare.
Il contesto storico in cui questi dischi vengono pubblicati è altrettanto rilevante. Tra il 2015 e il 2017, gli Stati Uniti attraversano una fase di profonda polarizzazione culturale e politica. In questo scenario, Dylan sceglie di tornare alle fondamenta della canzone americana, non per celebrarne una presunta grandezza immutabile, ma per mostrarne la complessità, le ambiguità, le zone d’ombra. Il Great American Songbook diventa così uno spazio di riflessione sul mito americano stesso: un mito fatto di sogni, illusioni, cadute e disillusioni.
Dopo Triplicate, Dylan tornerà a scrivere materiale originale, culminando in Rough and Rowdy Ways (2020), un disco che sarebbe impensabile senza questa immersione totale nella tradizione. La fase del Songbook funziona dunque come una camera di decompressione creativa, un periodo di ascolto profondo prima di una nuova presa di parola. Dylan sembra aver avuto bisogno di attraversare la voce degli altri per ritrovare la propria, accettandone definitivamente i limiti e trasformandoli in forza espressiva.
Shadows in the Night, Fallen Angels e Triplicate non sono un capriccio tardivo né un esercizio di stile. Sono un progetto coerente, meditato, che affronta la canzone americana come forma storica e come esperienza esistenziale. Dylan non rende omaggio a un’America idealizzata, ma a una tradizione musicale che ha saputo dare forma a emozioni universali, proprio perché nata da un intreccio di voci, autori, interpreti e contesti. In questi dischi, Dylan non si limita a cantare il passato: lo interroga, lo scava, lo espone al tempo. E nel farlo, dimostra ancora una volta che la sua idea di grandezza non passa dalla celebrazione, ma dalla capacità di restare in ascolto.
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