Bob Dylan: Speciale trilogie (1965-2017)
Dylan attraversa la sua carriera con una successione di trilogie creative, dalla svolta elettrica anni Sessanta, al periodo Gospel, alla maturità di Time Out of Mind, Love and Theft e Modern Times, fino al Great American Songbook. Ogni ciclo rappresenta crisi, reinvenzione e ridefinizione dell’identità artistica, tra innovazione e tradizione. Voce, arrangiamenti e temi lirici diventano strumenti di esplorazione esistenziale, rivelando Dylan come cantautore, interprete e narratore unico della storia musicale americana.
Speciale trilogie (le molte trilogie dylaniane 1965-2017)
Introduzione al saggio critico
Bob Dylan, a dispetto della sua fama di artista solitario e
imprevedibile, offre nel corso della sua carriera un modello sorprendentemente
coerente se osservato attraverso la lente delle trilogie implicite. Non
parliamo di schemi prefissati o di strategie commerciali, bensì di blocchi
creativi, narrativi ed esistenziali che emergono retrospettivamente e
permettono di leggere le mutazioni stilistiche, le crisi e le rinascite di un
artista che, per oltre sei decenni, ha plasmato la storia della canzone
americana. Dalla svolta elettrica negli anni Sessanta fino alla fase del Great
American Songbook negli anni 2000-2010, Dylan costruisce fasi in cui tre
dischi, più o meno coerenti per tempi, linguaggi e temi, delineano un arco narrativo
autonomo all’interno della sua traiettoria complessiva.
Le trilogie consentono di cogliere non solo l’evoluzione
musicale, ma anche le continue interrogazioni dell’autore sul significato della
voce, della memoria, della tradizione e del tempo. Alcune di queste fasi, come
la trilogia Nashville (1969–1973), sono state volutamente sottotono, svagate,
dimesse e persino disimpegnate: Dylan qui sperimenta con country, ballad
tradizionali e voce diversa, operando una sottrazione più che un’aggiunta. Questa
scelta non va letta come resa o minore valore, ma come atto di sperimentazione
interna, un abbassamento del tono che funge da preludio alla successiva
radicalità creativa. La trilogia Nashville, pur essendo casuale e a tratti
dissonante rispetto alle aspettative critiche, viene qui menzionata in apertura
come contesto essenziale, che mette in evidenza la capacità di Dylan di
reinventarsi attraverso strategie sottrattive e dissimulative.
Osservare la carriera dylaniana attraverso le trilogie
permette di leggere la sua opera come successione di crisi, trasformazioni e
ridefinizioni. Ogni blocco di tre dischi non rappresenta semplicemente un
gruppo di album, ma un esperimento di vita e di arte, un laboratorio in cui
l’autore rinegozia la propria identità creativa, il suo rapporto con la
tradizione e il ruolo stesso della canzone nella storia della musica americana.
Questo approccio consente di stabilire continuità tra periodi apparentemente
eterogenei, evidenziando come Dylan alterni fasi di spostamento radicale,
sottrazione, immersione nella tradizione e ritorno a una scrittura originale
che, pur nella maturità e nella vecchiaia, rimane sorprendentemente innovativa
e fertile.
In questa prospettiva, l’analisi delle trilogie implica una
lettura che attraversa sia la dimensione musicale, con attenzione agli
arrangiamenti, alla voce, al timbro e alla costruzione sonora, sia quella
lirica e tematica, osservando i testi come strumenti di riflessione
esistenziale, storica e culturale. Il percorso parte dalla prima grande
trilogia elettrica, passa attraverso le fasi spirituali e di maturità, fino ad
arrivare alla trilogia del Great American Songbook, in cui Dylan, ormai
archivio vivente della tradizione musicale americana, restituisce al presente
l’eredità della canzone popolare attraverso interpretazioni misurate, sottratte
e straordinariamente dense di tempo, memoria e fragilità vocale.
L’approccio a queste trilogie richiede anche un’attenzione
alla ricezione critica, alle aspettative del pubblico e all’influenza del
contesto storico. La trilogia gospel, ad esempio, non va letta soltanto come
tre dischi di fede, ma come frattura esistenziale che provoca reazioni
contrastanti, mentre la trilogia della maturità mostra un Dylan consapevole
della propria vecchiaia e capace di trasformarla in forza poetica.
Analogamente, la trilogia “Sinatra Era” non è un omaggio passivo al passato, ma
un laboratorio di sottrazione e di rielaborazione della tradizione, in cui la
voce diventa archivio del tempo e strumento di memoria attiva.
Considerare la carriera di Dylan attraverso le trilogie
significa passare da un approccio puramente cronologico o discografico a un
modello interpretativo complesso, che valorizza la coerenza interna della sua
opera, la densità tematica e musicale, e la continua capacità dell’artista di
interrogare la propria identità. Ogni trilogia diventa così una lente critica,
capace di restituire al lettore non solo i dischi, ma la profondità delle
scelte artistiche e delle trasformazioni, evidenziando come la storia musicale
di Dylan sia strutturata più per blocchi esistenziali che per linee narrative
tradizionali.
Trilogia elettrica anni Sessanta: dal folk al rock e alla
rottura estetica
La cosiddetta trilogia elettrica di Bob Dylan negli anni
Sessanta rappresenta un punto di svolta non solo nella sua carriera, ma
nell’intero panorama della musica americana. Se guardiamo retrospettivamente,
il passaggio dal folk acustico dei primi dischi, come The Freewheelin’ Bob
Dylan (1963) e The Times They Are a-Changin’ (1964), a un suono elettrico e più
complesso con Bringing It All Back Home (1965), Highway 61 Revisited (1965) e
Blonde on Blonde (1966) segna la nascita di un modello di trilogia “di
rottura”, in cui ciascun disco costituisce un frammento autonomo ma funzionale
a un arco di trasformazione totale. Il primo di questi, Bringing It All Back
Home, introduce la dicotomia tra lato acustico e lato elettrico: il disco si
apre con brani folk intimisti, per poi esplodere in arrangiamenti elettrici,
come in “Subterranean Homesick Blues”, che mescola blues, folk e pop in una
struttura ritmica serrata. Qui Dylan introduce una scrittura più libera,
frammentaria, stratificata, che diventerà emblema della sua rottura estetica.
La produzione, affidata a Tom Wilson, gioca su dinamiche alternate tra
strumenti acustici ed elettrici, batteria incisiva, basso pulsante e armonie
sovrapposte, creando un tessuto sonoro inedito per il canone folk americano.
Con Highway 61 Revisited, Dylan consolida questa
transizione: la voce si fa più abrasiva, il fraseggio più spezzato, le liriche
oscillano tra surrealismo e narrazione simbolica. Brani come “Like a Rolling
Stone” non sono solo inni generazionali, ma esperimenti di forma canzone, in
cui il testo epico si intreccia con arrangiamenti orchestrali essenziali,
armonie di organo e chitarre elettriche che enfatizzano tensione e frattura.
Qui emergono temi di alienazione, crisi d’identità e rottura con la tradizione,
elementi che caratterizzeranno le trilogie successive come modelli di conflitto
e rinnovamento. Dylan utilizza la trilogia elettrica per ridefinire il proprio
ruolo di cantautore, trasformando la sua voce in uno strumento di protesta
estetica oltre che sociale. La ricezione critica iniziale fu controversa,
soprattutto tra i puristi del folk, ma l’impatto sulla cultura popolare e sulla
musica rock fu immediato e profondo.
Blonde on Blonde chiude idealmente questa trilogia
elettrica, completando la sperimentazione sonora iniziata nei due dischi
precedenti. La scelta di registrare a Nashville, con sessioni che coinvolgono
musicisti locali come Charlie McCoy e Kenny Buttrey, conferisce al disco un
timbro più fluido e “americano”, pur conservando la complessità delle
composizioni. Brani come “Visions of Johanna” o “Sad Eyed Lady of the Lowlands”
mostrano Dylan in piena maturità poetica, con una voce ormai capace di modulare
ironia, sarcasmo e introspezione emotiva, accompagnata da arrangiamenti che
fondono strumenti tradizionali e moderni. La trilogia elettrica, nel suo
complesso, non è solo un esperimento musicale, ma un atto di ridefinizione
radicale della figura dell’artista, che imposta un modello di crisi e
innovazione replicabile nelle fasi successive della sua carriera.
Bob Dylan tra maschera, dissimulazione e sottrazione
(1969–1973)
Quando Bob Dylan entra negli anni Settanta, lo fa scegliendo
deliberatamente una strada laterale. Non c’è rottura clamorosa, non c’è gesto
iconoclasta in senso stretto: c’è piuttosto una ritirata controllata, una mossa
obliqua che consiste nel farsi più piccolo, più opaco, meno riconoscibile. Il
periodo che va da Nashville Skyline (1969) a Dylan (1973), passando per Self
Portrait (1970), può essere letto come una trilogia casuale e dimessa, non
pensata come tale ma coerente nel risultato, in cui Dylan pratica una vera e
propria politica della dissimulazione.
Dopo essere stato tutto – profeta, portavoce generazionale,
poeta elettrico, coscienza critica – Dylan sceglie di diventare qualcos’altro:
un cantante country, un interprete svagato, un artista che sembra non voler
dire più nulla di essenziale. È una scelta che spiazza perché non è una crisi ma
un gesto attivo di sottrazione, una forma di libertà esercitata contro la
narrazione che lo vuole sempre centrale, sempre decisivo, sempre “necessario”.
Nashville Skyline è il primo atto di questa strategia. La trasformazione vocale
è il segnale più evidente: la voce ruvida, nasale, carica di attrito degli anni
precedenti lascia spazio a un timbro rotondo, morbido, quasi educato. Non è un
semplice cambio tecnico: è una maschera sonora, una rinuncia esplicita a quella
voce che era diventata, per pubblico e critica, una firma ideologica.
Il country qui non è recupero delle radici né ritorno
all’America profonda. È piuttosto una forma di neutralizzazione, un genere che
consente a Dylan di stare dentro la tradizione senza dominarla. Le canzoni sono
brevi, lineari, spesso sentimentali, prive di ambiguità corrosiva. È un disco
che non sfida nessuno e proprio per questo risulta destabilizzante: Dylan non
combatte più, si sottrae. Con Self Portrait la sottrazione diventa quasi
provocazione. Cover, tradizionali, arrangiamenti spesso anodini, una sensazione
diffusa di sciatteria controllata: tutto sembra dire “non cercate me qui”. Il
titolo stesso è un paradosso: quello che viene offerto non è un autoritratto ma
una negazione dell’identità pubblica. Qui Dylan mette in atto un gesto
profondamente moderno: usa l’eccesso di materiale irrilevante per sabotare
l’interpretazione. Il celebre attacco di Greil Marcus (“What is this shit?”)
non è un fraintendimento ma la prova che l’operazione ha funzionato. Dylan non
vuole essere capito, vuole essere lasciato in pace. Self Portrait non è un
disco fallito: è un disco programmaticamente indisponibile. Dylan, pubblicato
nel 1973, è il vero epilogo della trilogia, anche se nasce da motivazioni
discografiche e contrattuali. Ma proprio per questo risulta perfettamente
coerente: è un disco fuori tempo, fuori contesto, fuori fuoco. Registrazioni
precedenti, esecuzioni informali, una sensazione di non-finito che chiude
simbolicamente la fase.
Qui l’abbassamento diventa quasi evaporazione. Dylan è
presente ma non investe, canta ma non afferma, attraversa le canzoni senza
abitarle. È l’ultimo atto di una strategia che ha avuto un solo obiettivo:
disinnescare il mito. Letti insieme, questi tre dischi formano una trilogia non
intenzionale ma sorprendentemente compatta. Non c’è evoluzione, non c’è climax,
non c’è riscatto. C’è una linea discendente che non porta al fallimento ma a
una forma diversa di controllo: Dylan recupera la propria autonomia diventando
meno interessante, meno decifrabile, meno esigente. Questo periodo non va
difeso né rivalutato in senso apologetico. Va compreso come atto di
dissimulazione artistica, come gesto politico nel senso più profondo: rifiutare
il ruolo assegnato, sabotare le aspettative, sottrarsi al consumo simbolico.
Dylan non si perde tra il 1969 e il 1973. Al contrario, si nasconde. E in
quella sparizione temporanea prepara, silenziosamente, le future metamorfosi.
Non è un vuoto creativo: è una pausa strategica, una zona d’ombra necessaria
per continuare a esistere come artista libero.
Trilogia gospel (1979–1981): fede, conflitto e trasformazione spirituale
Il passaggio alla trilogia gospel tra il 1979 e il 1981 segna una delle fratture più radicali e discusse della carriera di Dylan. Slow Train Coming inaugura questa fase, con testi apertamente religiosi e arrangiamenti curati da Jerry Wexler e Barry Beckett. Brani come “Gotta Serve Somebody” mostrano un Dylan vocalmente più potente e diretto, con una tensione spirituale costante supportata da linee di basso prominenti, chitarre elettriche precise e sezioni di fiati che ricordano il gospel urbano di matrice soul. Il disco non è solo un manifesto di fede personale, ma anche una riformulazione della canzone popolare americana attraverso la lente della conversione religiosa. La ricezione critica fu mista: alcuni lo considerarono un abbandono della “ribellione” laica dylaniana, altri ne riconobbero l’intensità e la coerenza tematica.
Con Saved (1980), Dylan esplora ulteriormente la spiritualità attraverso una scrittura lirica che fonde testi biblici, narrazione e commento morale. Brani come “Covenant Woman” e “Solid Rock” evidenziano arrangiamenti più complessi e orchestrati, con coristi, tastiere e fiati che creano una densità sonora nuova. La trilogia gospel riflette un periodo di conflitto interiore: Dylan, pur immerso in un messaggio religioso diretto, continua a interrogarsi sul proprio ruolo di artista, sull’identità e sulla percezione pubblica. Il disco rappresenta un equilibrio tra devozione e introspezione, mostrando come la dimensione spirituale possa generare fratture non solo liriche ma anche di ricezione critica.
Shot of Love (1981) chiude la trilogia, combinando gospel,
rock e blues in arrangiamenti più leggeri, che anticipano la successiva fase di
maturità dylaniana. La voce di Dylan è più varia, capace di modulare ironia,
pathos e ritmo narrativo. La trilogia gospel, nel suo complesso, costituisce
una sperimentazione tematica e sonora estrema, dove la fede diventa mezzo di
esplorazione artistica e personale. Ogni disco mostra tensioni, continuità e
dissonanze interne, dimostrando come Dylan utilizzi il concetto di trilogia per
scandire frattura e reintegrazione, alternando innovazione stilistica e
coerenza tematica.
Trilogia della maturità e della rinascita (1997–2006):
tempo, memoria e identità
Dopo un periodo di apparente stasi e dispersione negli anni
Novanta, Dylan entra nella sua fase di maturità e rinascita con la trilogia
formata da Time Out of Mind (1997), Love and Theft (2001) e Modern Times
(2006). Questi tre dischi, profondamente radicati nel blues, nel folk e nella
tradizione americana, rappresentano un laboratorio di analisi del tempo, della
vecchiaia e della memoria, temi centrali nella produzione dylaniana post-anni
Settanta. Time Out of Mind, prodotto da Daniel Lanois, utilizza riverberi
saturi, spazi sonori sospesi e arrangiamenti stratificati che permettono alla
voce abrasiva di Dylan di emergere come strumento di esperienza e vissuto, più
che come semplice veicolo di melodie. Brani come “Love Sick” e “Not Dark Yet”
trattano la fine della vita e la fragilità esistenziale senza retorica,
trasformando la canzone in un registro di riflessione ontologica.
Con Love and Theft, Dylan integra riferimenti musicali e letterari, dalla musica tradizionale americana al jazz e al swing, creando un collage di stili che testimonia la sua capacità di rielaborare la tradizione senza nostalgia. Brani come “Mississippi” e “High Water (For Charley Patton)” mostrano arrangiamenti essenziali ma estremamente efficaci, con chitarre, contrabbasso e batteria che scandiscono il ritmo narrativo e supportano una voce che gioca tra ironia e gravità. La trilogia matura segna un ritorno alla scrittura originale, dopo anni di immersione in repertori tradizionali e cover, mostrando come Dylan sia capace di sintetizzare esperienza, tradizione e innovazione in un unico progetto coerente.
Modern Times (2006) chiude la trilogia consolidando la visione della vecchiaia e della memoria come elementi costitutivi della forma canzone. Il suono è più asciutto, i testi più concentrati, e l’uso di strumenti tradizionali americani diventa simbolo di continuità con il passato. Brani come “Workingman’s Blues #2” e “Ain’t Talkin’” riflettono sulle contraddizioni dell’esperienza umana, l’incombere del tempo e l’ineluttabilità della memoria storica, trasformando la trilogia in un archivio vivo di esperienze personali e collettive. La ricezione critica riconosce in questa fase la capacità di Dylan di rimanere contemporaneo senza rinunciare alla propria identità storica, confermando la trilogia come modello interpretativo e strumento di lettura essenziale della sua maturità artistica.
La trilogia del Great American Songbook: la voce come archivio del tempo nel tempo
La trilogia più recente, formata da Shadows in the Night (2015), Fallen Angels (2016) e Triplicate (2017), rappresenta un capitolo conclusivo prima del ritorno al materiale autografo. Dylan qui si confronta con il Great American Songbook, reinterpretando standard della tradizione americana che hanno reso grande l’America e che in gran parte erano stati incisi in passato da Frank Sinatra. La voce, segnata dal tempo, diventa strumento di memoria e archivio emotivo: ogni frase è calibrata per restituire il senso del testo senza indulgere in virtuosismi.
Lontano da qualsiasi estetica da big band o da revival patinato, Dylan sceglie consapevolmente la forma della small combo, affidando questi dischi a organici ridotti che lavorano per rarefazione, controllo e disciplina timbrica. Shadows in the Night è il punto di partenza più spoglio, quasi un esperimento notturno in cui la voce, fragile e irregolare, viene sostenuta da un accompagnamento minimo, privo di pianoforte, con arrangiamenti asciutti che rifiutano ogni enfasi melodrammatica. Fallen Angels introduce una formazione leggermente più ampia, correttamente definibile come sestetto, e una densità interna più articolata, non per accumulo ma per una maggiore mobilità ritmica e un dialogo più fitto tra gli strumenti, mantenendo però intatta la logica del contenimento. Triplicate, riduce ulteriormente il campo d’azione: il quintetto diventa il veicolo di una scrittura quasi ascetica, in cui ogni brano sembra sospeso in un tempo rallentato, come se la musica fosse chiamata a reggere il peso del tempo.
In Shadows in the Night, Dylan sceglie ballad notturne e liricamente dense, come “Full Moon and Empty Arms” e “Stay With Me”, dove la sospensione emotiva domina e la voce suggerisce nostalgia, rimpianto e consapevolezza del tempo passato. Fallen Angels amplia il repertorio, includendo composizioni meno conosciute di autori storici come Johnny Mercer e Sammy Cahn, mantenendo un equilibrio tra interpretazione e reverenza storica. Triplicate, triplo album, rappresenta un’esplorazione totale del catalogo, con 54 brani complessivi che evidenziano la capacità di Dylan di trasformare la sottrazione vocale in strumento di sintesi emotiva, leggendo ogni testo come oggetto musicale e poetico autonomo. Questa trilogia, pur apparentemente distante dalle innovazioni della fase elettrica o gospel, conferma la costante dylaniana: la trilogia come modello di crisi, rielaborazione e ridefinizione dell’identità artistica. La scelta dei brani, la precisione dell’arrangiamento e la qualità interpretativa rendono il periodo un laboratorio di sottrazione, memoria e rinnovata attenzione alla tradizione. La trilogia chiude idealmente l’arco creativo aperto decenni prima, confermando Dylan come artista capace di reinterpretare la tradizione americana in modo personale e storico, senza mai indulgere nella nostalgia o nella mera imitazione.
Le trilogie come chiave di lettura della carriera di Dylan (Una conclusione)
Attraverso le numerose trilogie che scandiscono la sua lunga
e complessa carriera, Bob Dylan offre un modello interpretativo unico per
comprendere la trasformazione continua della sua arte. Non si tratta di
operazioni programmatiche o schemi predefiniti, bensì di blocchi creativi e
narrativi che emergono retrospettivamente come linee guida interpretative, in
grado di illuminare le crisi, le rinascite e le reinvenzioni stilistiche che
hanno caratterizzato ogni decennio della sua attività. Dalla trilogia elettrica
degli anni Sessanta, che vede il passaggio dal folk acustico alla potenza
espressiva del rock elettrico, fino alla trilogia “Sinatra Era” degli anni
2015-2017, in cui la sottrazione interpretativa e il dialogo con la tradizione
americana trasformano la voce stessa in archivio del tempo, ogni ciclo
rappresenta una concentrazione di sperimentazione, innovazione e riflessione
esistenziale.
La trilogia della maturità e della rinascita, inaugurata da Time Out of Mind, prosegue il percorso di Dylan attraverso la memoria, la vecchiaia e il tempo come elementi strutturali della forma canzone. La continuità tra Time Out of Mind, Love and Theft e Modern Times è evidente nella costruzione di un suono stratificato, nella rielaborazione del folk e del blues e nell’uso della voce come elemento narrativo e simbolico. La trilogia mostra come Dylan riesca a trasformare la propria esperienza personale in linguaggio universale, rendendo ogni canzone specchio di tensioni esistenziali e dinamiche storiche, in un equilibrio fra innovazione, tradizione e consapevolezza del passato.
Testo a cura di Dario Greco







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