Bob Dylan negli anni Novanta tra rinascita e tradizione
La discografia di Bob Dylan negli anni Novanta rappresenta uno dei passaggi più complessi e meno concilianti della sua lunga traiettoria artistica, un decennio che mette alla prova non solo la sua scrittura ma anche la sua stessa idea di identità musicale. Dopo il ritorno d’ispirazione segnato da Oh Mercy del 1989, Dylan entra negli anni Novanta con un’opera in studio, Under the Red Sky, che appare fin da subito come un oggetto anomalo, quasi dissonante rispetto alle attese, e che inaugura un periodo di apparente dispersione. Eppure, se osservato con attenzione e senza lenti riduttive, questo decennio si rivela decisivo perché consente a Dylan di attraversare una crisi profonda, di rifugiarsi nella tradizione folk e blues con un rigore quasi ascetico e infine di riemergere con Time Out of Mind, uno dei dischi più alti della sua produzione post anni Settanta. Gli anni Novanta non sono dunque un’appendice minore ma un laboratorio esistenziale e musicale in cui Dylan rinegozia il proprio rapporto con la voce, con il tempo, con la memoria e con l’idea stessa di canzone.
Under the Red Sky come rottura e disorientamento
Pubblicato nel 1990, Under the Red Sky segna un brusco cambio di atmosfera rispetto alla cupezza stratificata di Oh Mercy. Dove il disco prodotto da Daniel Lanois aveva costruito un paesaggio sonoro umido, notturno e carico di ambiguità morali, Under the Red Sky appare più secco, più frontale, quasi volutamente spiazzante. Le canzoni sono brevi, talvolta elementari nella struttura, con testi che oscillano tra la filastrocca, l’allegoria infantile e una violenza simbolica mai del tutto esplicitata. Brani come “Wiggle Wiggle” o “Cat’s in the Well” furono accolti con aperta perplessità, e non senza ragioni, perché sembravano negare quella profondità letteraria che aveva reso Dylan una figura centrale della canzone moderna. Eppure proprio qui si colloca una prima tesi forte sugli anni Novanta dylaniani: Under the Red Sky non è un fallimento ingenuo ma un disco deliberatamente scomodo, che mette in scena una regressione formale come gesto critico. Dylan riduce il linguaggio, lo rende quasi primitivo, come se stesse testando il punto di rottura tra senso e nonsenso, tra canzone popolare e cantilena arcaica. Il risultato è irregolare, spesso irritante, ma non privo di una sua coerenza interna. In questo disco Dylan sembra dire che il prestigio accumulato non è una garanzia di profondità e che ogni fase della sua carriera può essere rimessa in discussione, anche a costo di smarrire parte del pubblico.
Il ritorno alla tradizione come gesto radicale
Dopo Under the Red Sky, Dylan compie una scelta che appare, a posteriori, cruciale: rinuncia temporaneamente alla scrittura di nuovi brani e si immerge nella tradizione folk e blues americana con Good as I Been to You del 1992 e World Gone Wrong del 1993. Questi due dischi acustici, spesso considerati come lavori “minori” o di transizione, rappresentano in realtà uno dei momenti più radicali della sua carriera. Dylan non si limita a reinterpretare canzoni tradizionali ma le abita, le piega al proprio timbro vocale ormai segnato dal tempo, le carica di un senso di fatalismo che riflette una visione del mondo disincantata. In Good as I Been to You, brani come “Hard Times” o “Frankie & Albert” rivelano una capacità di restituire la durezza dell’esperienza popolare senza mediazioni nostalgiche. La voce di Dylan è ruvida, spesso al limite della frattura, ma proprio per questo credibile. In World Gone Wrong, il clima si fa ancora più cupo e spoglio. Canzoni come “Delia” o “Blood in My Eyes” sembrano provenire da un tempo fuori dal tempo, come se Dylan stesse dialogando con i fantasmi della musica americana per ritrovare un linguaggio essenziale. Qui la scelta dell’acustico non è un ritorno rassicurante alle origini ma un gesto di sottrazione estrema, un modo per azzerare le sovrastrutture e verificare se la canzone può ancora reggere nella sua forma più nuda.
Il significato profondo dei due dischi acustici
Il valore di Good as I Been to You e World Gone Wrong non risiede solo nella qualità delle interpretazioni ma nella loro funzione all’interno della parabola dylaniana. Questi dischi rappresentano un atto di umiltà artistica che ha pochi equivalenti nella storia della musica popolare contemporanea. Dylan, ormai figura canonizzata, sceglie di porsi come tramite piuttosto che come autore, rinunciando all’originalità in senso stretto per recuperare una continuità con una tradizione orale spesso dimenticata. È in questo gesto che si prepara la rinascita successiva. Attraverso la rilettura dei traditional, Dylan rieduca la propria voce, ne accetta le crepe, le irregolarità, la perdita di elasticità, trasformandole in risorsa espressiva. Questa fase permette inoltre di affinare un senso del ritmo narrativo e della tensione drammatica che sarà centrale in Time Out of Mind. I due dischi acustici non sono quindi una parentesi ma una vera e propria discesa agli inferi della tradizione, necessaria per poter tornare a scrivere canzoni originali con una nuova consapevolezza del tempo che passa e della finitudine.
Unplugged del 1995 tra canone e rilettura
Nel 1995 Dylan pubblica Unplugged, documento di un concerto registrato per la celebre serie televisiva. Anche questo disco è stato spesso sottovalutato, ma merita una considerazione attenta. Dylan sceglie di non limitarsi al repertorio acustico più prevedibile e inserisce brani elettrici adattati a una dimensione più controllata, come “Like a Rolling Stone” o “Highway 61 Revisited”. Il risultato non è una semplice operazione nostalgica ma una rilettura consapevole del proprio canone. Dylan non cerca di replicare le versioni storiche ma le attraversa con una voce mutata, più grave, meno impulsiva, che trasforma la rabbia giovanile in una sorta di sarcasmo stanco ma lucido. Unplugged mostra un artista che accetta la distanza tra ciò che è stato e ciò che è diventato, e che utilizza questa distanza come spazio creativo. È un disco importante perché dimostra che Dylan ha ritrovato un equilibrio esecutivo e una presenza scenica che negli anni precedenti era apparsa intermittente. In questo senso, Unplugged prepara il terreno emotivo e musicale per il capolavoro che seguirà.
Time Out of Mind come rinascita e capolavoro
Quando Time Out of Mind esce nel 1997, Bob Dylan non firma semplicemente un grande disco di “ritorno”, formula riduttiva spesso usata dalla critica, ma costruisce una vera e propria opera terminale nel senso forte del termine: un lavoro che guarda alla fine non come evento biografico ma come condizione permanente dell’esistenza. A distanza di anni, The Bootleg Series Vol. 8 – Tell Tale Signs: Rare and Unreleased 1989–2006 e Fragments – The Bootleg Series Vol. 17 hanno permesso di comprendere fino in fondo la natura profonda di questo progetto, rivelando Time Out of Mind come un disco aperto, stratificato, nato da un lungo e tormentato processo di scrittura, riscrittura e scelta estetica. Il valore del disco non risiede solo nella sua versione ufficiale, ma nella tensione continua tra ciò che è stato fissato e ciò che è rimasto ai margini. Prodotto da Daniel Lanois, come Oh Mercy del 1989, Time Out of Mind riprende e radicalizza l’estetica del suono come spazio emotivo. Lanois costruisce un ambiente paludoso, saturo di riverberi, in cui gli strumenti sembrano emergere e scomparire, mentre la voce di Dylan, ormai segnata e abrasiva, non è mai completamente in primo piano ma integrata nel paesaggio. Questo trattamento sonoro non è decorativo ma concettuale: il tempo del titolo non è solo tema lirico ma principio formale, qualcosa che dilata, rallenta, corrode. Canzoni come “Love Sick” aprono il disco con una desolazione notturna priva di catarsi, mentre “Not Dark Yet” rappresenta uno dei vertici assoluti della scrittura dylaniana matura, un testo che parla della morte senza enfasi e senza metafora salvifica, riducendo l’esperienza umana a una stanchezza ontologica che non cerca redenzione.Tell Tale Signs ha avuto il merito di mostrare quanto questo risultato fosse tutt’altro che inevitabile. Le versioni alternative di molti brani di Time Out of Mind rivelano un Dylan che sperimenta costantemente, oscillando tra arrangiamenti più scarni e soluzioni sonore più dense. In alcune take di “Not Dark Yet”, ad esempio, la voce è più esposta, meno immersa nel suono, e il testo risulta ancora più spietato, quasi privo di filtri emotivi. Queste versioni dimostrano come la scelta finale di Lanois non sia stata quella di “abbellire” i brani, ma di collocarli in uno spazio che rendesse percepibile la distanza tra l’io che canta e il mondo che lo circonda. Ancora più rivelatrice è la presenza di “Mississippi”, canzone registrata durante le session ma esclusa dal disco e pubblicata solo nel 2001. In Tell Tale Signs emergono versioni che mostrano una scrittura già pienamente formata, segno che Dylan stava lavorando su un corpus di materiali più ampio e complesso di quanto la versione ufficiale lasci intendere.
Fragments – The Bootleg Series Vol. 17 porta questa lettura a un livello ulteriore di profondità, perché consente di seguire quasi passo dopo passo l’evoluzione del disco. Qui il confronto tra versioni prodotte da Lanois e take più asciutte diventa centrale. In molte registrazioni alternative, il suono è meno avvolgente, più diretto, e mette in primo piano una voce che non chiede protezione. Questo contrasto ha alimentato per anni il dibattito critico sul ruolo di Lanois, accusato da alcuni di aver “coperto” Dylan. Fragments dimostra invece che Dylan era pienamente consapevole di questa dialettica e che la produzione finale rappresenta una scelta poetica precisa: non esibire la nudità, ma farla filtrare attraverso uno spazio sonoro che amplifica il senso di isolamento e di sospensione.
Dal punto di vista tematico, Time Out of Mind è attraversato da un’idea del tempo come entità corrosiva e irreversibile. In “Trying to Get to Heaven”, il movimento non è ascensionale ma laterale, fatto di spostamenti continui che non portano mai a una risoluzione. In “Cold Irons Bound”, il blues diventa una forma di costrizione mentale prima ancora che musicale. Le versioni alternative presenti nei Bootleg mostrano come Dylan abbia lavorato per eliminare qualsiasi traccia di ironia o distacco, puntando a una scrittura essenziale, quasi aforistica, che trova forza proprio nella sua ripetitività ossessiva.
Alla luce di Tell Tale Signs e Fragments, Time Out of Mind appare dunque non solo come un capolavoro compiuto, ma come il centro di gravità di un intero processo creativo. È un disco che accetta la vecchiaia, la malattia e la perdita non come temi ma come condizioni strutturali della forma canzone. In questo senso, rappresenta una delle opere più radicali della maturità dylaniana, un gioiello post anni Settanta non perché guarda indietro, ma perché riesce a trasformare la fine in linguaggio, e il tempo che resta in materia artistica.
Considerazioni finali sulla storia dylaniana anni Novanta
Considerati nel loro insieme, gli anni Novanta di Bob Dylan costituiscono un arco narrativo coerente, che va dallo smarrimento alla rinascita passando per una profonda immersione nella tradizione. Non si tratta di un decennio uniforme né facilmente classificabile, ma proprio per questo essenziale per comprendere l’evoluzione dell’artista. Under the Red Sky segna una crisi espressiva che mette in discussione le aspettative critiche, i dischi acustici del 1992 e del 1993 rappresentano un gesto di purificazione radicale, Unplugged testimonia una ritrovata stabilità performativa e Time Out of Mind si impone come una perla autentica, un gioiello che dimostra come Dylan sia riuscito a reinventarsi senza rinnegare il proprio passato. In un’epoca in cui molti artisti della sua generazione si limitavano a celebrare se stessi, Dylan ha scelto la strada più difficile, quella del rischio e dell’autocritica. Gli anni Novanta non sono quindi un semplice intermezzo ma uno dei capitoli più profondi e necessari della sua discografia, un decennio in cui la canzone diventa luogo di resistenza contro il tempo e contro l’idea stessa di declino creativo.
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