Ring them bells
Canzone per canzone: analizziamo la discografia di Bob Dylan
Ring Them Bells occupa una posizione centrale non solo all’interno di Oh Mercy (1989), ma anche nel percorso artistico di Bob Dylan alla fine degli anni Ottanta, quando il cantautore sembra finalmente ritrovare una voce unitaria dopo un decennio irregolare, spesso frainteso e segnato da produzioni incerte.
Il brano, costruito come una ballata solenne guidata dal pianoforte, assume fin dall’inizio la forma di un inno laico e insieme profondamente spirituale, in cui il linguaggio biblico diventa strumento di interrogazione morale più che di professione di fede. La canzone è attraversata da un imperativo costante, quel “ring them bells” che ritorna come una formula rituale, quasi liturgica. Le campane non chiamano però a una celebrazione, bensì a un risveglio. Dylan convoca heathen, santi, figure evangeliche e personaggi quotidiani, muovendosi su un piano simbolico dove sacro e profano convivono senza soluzione di continuità. Il mondo descritto è “deep and wide” ma anche “on its side”, sbilanciato, fuori asse. Il tempo “running backward” e la sposa che arretra suggeriscono una crisi irreversibile dell’ordine naturale e sociale, un’Apocalisse silenziosa che non esplode, ma si consuma lentamente.
Le immagini sono potenti e volutamente ambigue. San Pietro, Marta, Santa Caterina non sono semplici riferimenti religiosi, bensì archetipi di responsabilità morale. Il giudizio non è affidato a Dio soltanto, ma anche agli uomini, a quei “chosen few” che “will judge the many when the game is through”, frase che introduce un’inquietudine profonda sul tema del potere, della selezione e della colpa. Dylan non offre consolazione: il pastore dorme, le pecore sono perdute, le distanze tra giusto e sbagliato si assottigliano pericolosamente. In questo senso, la canzone parla tanto del tempo biblico quanto del presente storico, segnato da disorientamento etico e fine delle grandi certezze.
Ring Them Bells è soprattutto uno dei vertici della collaborazione con Daniel Lanois. Il pianoforte di Dylan, semplice ma solenne, regge l’intera architettura emotiva del brano, mentre gli interventi discreti di chitarra e tastiere creano uno spazio sonoro ampio, rarefatto, quasi sospeso.
La produzione non sovrasta mai la voce, ma la circonda, amplificandone la gravità. L’uso del silenzio, delle pause e del respiro è fondamentale: ogni nota sembra pesata, necessaria, come se la canzone stessa procedesse con cautela, consapevole del peso delle parole che pronuncia. Oh Mercy rappresenta uno spartiacque nella carriera di Bob Dylan. Dopo un decennio, quello degli anni Ottanta, spesso liquidato come minore o confuso, l’album segna un ritorno deciso a una scrittura concentrata, coerente e ispirata. Registrato a New Orleans con musicisti locali e prodotto da Daniel Lanois, Oh Mercy introduce un suono atmosferico, notturno, intriso di umidità e ombre, che si distacca nettamente dalle produzioni più rigide e artificiali della prima metà del decennio. Non è un ritorno nostalgico al passato, ma una reinvenzione matura, consapevole dei propri limiti e delle proprie ferite.
Nel corpus dylaniano, Oh Mercy si colloca come un album di ricostruzione interiore. I testi sono attraversati da una tensione morale costante, ma priva dell’enfasi dottrinale che aveva caratterizzato la fase apertamente religiosa di fine anni Settanta. Qui la spiritualità è più ambigua, più problematica, spesso dolorosa. Canzoni come Most of the Time, Man in the Long Black Coat e Shooting Star condividono con Ring Them Bells un senso di perdita e di attesa, come se Dylan osservasse il mondo da una soglia, consapevole che qualcosa si è spezzato ma non del tutto perduto. Lanois gioca un ruolo decisivo nel restituire a Dylan una dimensione sonora coerente. La produzione privilegia l’atmosfera rispetto alla brillantezza, il clima emotivo rispetto alla precisione tecnica. Questo approccio consente alle canzoni di respirare, di assumere una profondità quasi cinematografica, che valorizza la voce ruvida e stanca di Dylan, trasformandola in uno strumento narrativo di rara efficacia. Oh Mercy non è un album “facile”, né immediato, ma è uno dei più compatti e significativi del suo periodo tardo.
All’interno della sua discografia, il disco può essere letto come l’atto con cui Dylan riafferma la propria centralità artistica senza inseguire mode o consensi. Non c’è la volontà di dimostrare qualcosa, ma piuttosto quella di testimoniare. In questo senso, Ring Them Bells ne è il cuore simbolico: una canzone che suona come un avvertimento, una preghiera e una presa di coscienza insieme. Con Oh Mercy, Dylan non torna semplicemente “in forma”; ridefinisce il senso stesso della sua maturità artistica, dimostrando che la profondità non appartiene a un’epoca, ma a uno sguardo.

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