Bob Dylan e la conversione cristiana
Analisi della conversione evangelica di Bob Dylan tra il 1979 e il 1981, dai dischi Slow Train Coming e Saved fino a Shot of Love. Critica verso la stampa musicale dell’epoca, colpevole di aver strumentalizzato una breve fase artistica trascurando contesto storico, culturale e creativo, creando una vera gogna mediatica.
La conversione come scandalo perfetto
Quando Bob Dylan annuncia, tra il 1978 e il 1979, la propria conversione al cristianesimo evangelico, la reazione di una parte consistente della critica musicale occidentale è meno analitica che emotiva, meno storica che ideologica. Il problema non è tanto la fede in sé, quanto il fatto che Dylan, ancora una volta, abbia disatteso le aspettative. La cosiddetta conversion to evangelical Christianity diventa immediatamente uno scandalo narrativo, un pretesto perfetto per rimettere in discussione la sua integrità artistica, come se un percorso spirituale, per quanto radicale e verbalmente esplicito, costituisse di per sé un tradimento del patto non scritto con la modernità laica e progressista che parte della critica aveva preteso di sottoscrivere al suo posto.
È qui che si consuma uno degli equivoci più duraturi della storia del rock: l’idea che Dylan, simbolo di libertà e ambiguità, dovesse restare per definizione irrisolto, fluido, ideologicamente compatibile con il clima culturale dominante. La conversione viene letta non come una trasformazione, ma come una regressione; non come una nuova lingua, ma come una resa. In realtà, a ben vedere, Dylan non fa altro che proseguire una traiettoria coerente: quella di un autore che ha sempre utilizzato la canzone come strumento di interrogazione morale, mai come semplice cronaca del presente.
Nel 1979, con Slow Train Coming, Dylan non smette di essere Dylan. Smette semmai di essere addomesticabile. Il problema, per molta stampa, non è che i testi siano religiosi, ma che lo siano senza ironia, senza distanza, senza il paracadute dell’ambiguità. Dylan crede, e lo dice. In un’epoca che stava entrando nel riflusso, nella crisi delle grandi narrazioni politiche e nella disillusione post-sessantottina, questo gesto appare intollerabile. Non perché anacronistico, ma perché mette a nudo un vuoto: quello di una critica che aveva bisogno di Dylan come simbolo, non come individuo.
Processo mediatico ingiustificabile verso l'artista
Slow Train Coming e Saved vengono spesso trattati come un blocco unico, una sorta di deviazione ideologica da archiviare in fretta, eppure i due dischi sono profondamente diversi per struttura, suono e funzione. Il primo è un album solido, prodotto con rigore, radicato in un linguaggio soul e rhythm & blues che guarda tanto a Memphis quanto alla tradizione afroamericana religiosa. Il secondo è più spigoloso, meno conciliante, quasi militante nella sua urgenza. Ma entrambi vengono sottoposti a un identico processo sommario: colpevoli di eccesso di fede.
La critica dell’epoca sembra incapace di distinguere tra adesione religiosa e povertà artistica, come se la prima implicasse automaticamente la seconda. Si parla di prediche, di sermoni, di dogmatismo, dimenticando che Dylan ha sempre scritto canzoni piene di imperativi morali, condanne, visioni apocalittiche e giudizi senza appello. La differenza, semmai, è che ora il riferimento non è più implicito o simbolico, ma dichiarato. E questo, per molti, è imperdonabile.
Il paradosso è evidente: Dylan viene accusato di semplificare il mondo proprio mentre la società occidentale vive una delle sue fasi più confuse e instabili. Crisi economica, fine delle utopie collettive, ritorno di un linguaggio conservatore, fratture sociali profonde. In questo contesto, l’idea di un artista che cerchi una struttura morale, per quanto rigida e discutibile, dovrebbe apparire comprensibile, se non necessaria. E invece diventa bersaglio.
La stampa musicale non attende altro che un passo falso. Non per ragioni estetiche, ma per una sorta di resa dei conti simbolica. Dylan viene trattato come un apostata della modernità, colpevole di aver abbandonato il ruolo che gli era stato assegnato. Non importa che le canzoni funzionino, che i musicisti siano eccellenti, che la tensione espressiva sia autentica. La sentenza è già scritta.
Shot of Love: l’uscita ignorata
Nel 1981, Shot of Love segna di fatto l’inizio dell’uscita da questa fase, ma la critica, ancora una volta, sembra non accorgersene. Il disco è ibrido, irregolare, attraversato da contraddizioni evidenti. Accanto a brani di chiara ispirazione religiosa compaiono canzoni che parlano di desiderio, disillusione, fallimento umano, ironia amara. È un album di transizione, e come tutti i dischi di transizione paga il prezzo della sua ambiguità.
Eppure, proprio qui si intravede il Dylan che verrà. La fede non è più un manifesto, ma un elemento tra gli altri, una lente che convive con il dubbio, la carne, la stanchezza. Shot of Love non chiude una trilogia in senso teologico, ma dissolve progressivamente l’urgenza confessionale che aveva dominato i due lavori precedenti. In termini discografici, l’intera fase dura poco più di ventiquattro mesi. Un battito di ciglia, se rapportato a una carriera che attraversa sei decenni.
La polemica, tuttavia, non si spegne. Anzi, si cristallizza. Dylan viene etichettato come “perso”, “fuori fase”, “irrilevante”, categorie che diranno più della pigrizia interpretativa della critica che dello stato reale dell’artista. Il fatto che molte delle canzoni scritte in quegli anni, pubblicate o meno, abbiano una densità poetica e musicale notevole verrà riconosciuto solo molto più tardi, quando il clima culturale sarà cambiato e l’urgenza ideologica si sarà attenuata.
Una crisi letta al contrario
Riletta oggi, a distanza di oltre quarant’anni, la cosiddetta parentesi cristiana di Bob Dylan appare meno come una deviazione e più come una risposta radicale a una crisi profonda, non soltanto personale ma collettiva. La fine degli anni Settanta coincide con un passaggio brutale e spesso rimosso: il crollo delle grandi certezze politiche, la ristrutturazione economica che incrina definitivamente il patto sociale del dopoguerra, la nascita di un nuovo individualismo che sostituisce l’utopia con la sopravvivenza. In un contesto simile, l’idea che un artista cerchi un ordine, una legge, persino una verità assoluta non è affatto assurda né anacronistica. È, semmai, una reazione estrema a un mondo percepito come frammentato, incoerente, moralmente esausto.
La critica musicale dell’epoca, tuttavia, sembra incapace — o poco disposta — a leggere questo scenario. Preferisce ridurre tutto a una questione di gusto, di opportunità, di tradimento simbolico. Dylan non viene messo in discussione per ciò che scrive o per come lo scrive, ma per ciò che rappresenta nel momento “sbagliato”. Quando la libertà artistica e di pensiero viene meno, anche il senso stesso della critica e del contraddittorio muta natura, assumendo un peso che non è più soltanto culturale ma apertamente politico. È in questo slittamento che va collocata la violenza simbolica esercitata nei suoi confronti.
Dylan, dopo essere stato per anni un beniamino — talvolta persino un totem — della sinistra radicale americana, diventa improvvisamente un personaggio scomodo, liquidato come bigotto, reazionario, timorato di Dio. Ma è andata davvero così, o non si è piuttosto costruita una caricatura utile a difendere un’ortodossia culturale messa in crisi? La polemica appare oggi forzata, esagerata, quasi grottesca, soprattutto se si considera che la fase incriminata, in termini discografici, dura poco più di ventiquattro mesi. Un’inezia nella carriera di un artista che ha sempre fatto del mutamento una forma di coerenza.
Archiviata formalmente nel 1982, quella stagione continua però a riverberare a lungo, sia nella produzione successiva di Dylan sia nella percezione pubblica della sua opera. Il tempo ha fatto ciò che la critica non ha voluto fare allora: distinguere tra fede e forma, tra scelta personale e valore artistico, tra disagio espressivo e fallimento creativo. Dylan non ha mai chiesto di essere seguito, né di essere assolto. Ha sempre chiesto, semmai, di essere ascoltato. E in quei due anni, più che in molti altri momenti della sua carriera, è stato giudicato prima ancora di essere compreso. La risposta definitiva, come spesso accade quando si parla di Dylan, non si trova nelle stroncature più rumorose né nelle etichette più comode. Soffia ancora nel vento, blowin’ in the wind, lasciando aperta una domanda che dice molto più su chi giudica che su chi, ostinatamente, continua a cambiare.


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